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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
II
Io non conoscevo il signor Cesarino Pianelli che per averlo incontrato qualche volta sulle scale, e i nostri rapporti non andavano piú in là del buon giorno e della buona sera, come avviene tra casigliani, che, tranne le scale, non hanno piú nulla di comune. Mi fece quindi molta meraviglia di vedermelo la sera del sabato grasso, verso le sette, comparire sull'uscio, vestito in grande abito nero da ballo, col suo paltò sul braccio, il gibus in mano, pallido pallido... «Lei? In che posso servirla? Venga avanti» gli dissi, invitandolo a entrare. «Due parole, grazie. Sento da mia moglie che questa sera va anche la signora Lucia alla festa....» «Sí, mia sorella mi ha tanto pregato....» «Volevo pregarla di accompagnare anche mia moglie. Un affare pressante non mi permetterà di tornare prima delle undici.» «S'immagini, volentieri: sarò lieto di essere il suo cavaliere.» Il Pianelli stette un momento sopra pensiero, come se agitasse in testa un'altra questione spinosa, poi soggiunse: «Scusi tanto... ci rivedremo» e, strettami la mano, se ne andò via come se fuggisse davanti a un pericolo. Il Comitato ordinatore del Circolo non aveva guardato a spendere, o per dir meglio, a comandare, perché la festina del sabato grasso riuscisse ancor piú splendida e piú allegra delle altre volte. Tra i festoni d'edera che giravano lungo le pareti, sostenuti da borchie e da mascheroni di carta pesta dorata, pendevano dei piccoli lampadari di Venezia, illuminati da candele di cera. Tra un lampadario e l'altro brillavano degli specchi in vecchie cornici rococò circondati da ghirigori di mussolina gialla. Sulla scala, sui pianerottoli e per la gran sala da ballo era stato disteso un tappeto nuovo che ammorbidiva i suoni e dava ai piedi un senso voluttuoso di benessere: e nei vani, nei rientri delle finestre non mancavano giardiniere di fiori freschi, con qualche statuetta di gesso o di terra cotta che ricordavano alla lontana qualche divinità dell'antico Olimpo, il tutto preso a nolo da un addobbatore di teatri. Ogni signora (le ragazze eran poche e non brillavano troppo per freschezza) riceveva all'entrare una bellissima camelia e un cartoncino bristol coll'elenco delle danze stampate in oro; e tra le signore ve n'erano di giovani, di fresche e di quelle che combattevano l'ultima battaglia, la Waterloo della loro giovinezza. Nella sala il formicolío della gente già verso le undici era grande. Nel rimescolamento dei colori vivi, tra i luccicori delle gemme, dell'oro, degli occhi, nell'agitarsi di tante spalle e di tanti ventagli, cresceva il cicalío fitto e caldo, misto a scoppi di risa, a piccoli applausi e alle declamazioni aleardiane del Bianchi, che faceva la parte del brillante della compagnia. Per quanto la folla fosse tenuta in soggezione da qualche illustre personaggio (tra cui spiccava la pancia del commendatore Malvano, capo-divisione al Ministero delle Finanze, colla rotonda metà, una baronessa napoletana), si sentiva d'essere a una festa di famiglia in cui gli elementi omogenei si fondevano volentieri e si aiutavano nell'unico sforzo di stare allegri. C'era, per quel che mi ricordo, il Porti del Municipio colle sue eterne due ragazze, che da dodici anni trascina su tutte le feste e che hanno fatto un collo lungo, dicono i maligni, a furia di cercarsi un marito. C'era il cavaliere Balzalotti, del Demanio, uomo già sulla cinquantina, ma ancora fresco e morbido come il burro, sempre amabile e cerimonioso colle signore, alle quali pagava volentieri qualche sorbetto. Gli era toccata la disgrazia e la fortuna di sposare una moglie brutta, sempre malata, ricca, che passava due terzi dell'anno in campagna; ed era naturale che cercasse qualche compenso nel vedere a ballare e nel pagare qualche sorbetto alle altre. C'era la Pardina col suo Pardone, che questa volta s'era lasciato trascinare, che usciva per tre quarti dalle falde del frac. Stava in piedi per combattere il sonno tremendo che gli offuscava gli occhi, ma non vedeva l'ora d'esser sotto le coltri. C'era il ragioniere Quintina, un gobbetto elegante, terribile freddurista, che girava in mezzo alle gonne a far della maldicenza. Né mancavano i giovinotti di spirito, tra cui il Casati, il Pensotti e molti altri del Club Alpino. Tranne le poche commendatoresse, che soffiavano la prosopopea, le altre signore, quasi tutte milanesi, appartenevano al ceto medio degli stipendiati a mille e otto, a due mila, alcune delle quali avevano lasciato a casa una nidiata di ragazzi e il popò in letto colla nonna. Non c'era da meravigliarsi che vi fossero dei guanti lavati in mezzo a molti guanti freschi. Quasi tutti gli uomini erano in frac, in guanti bianchi e cravatta bianca. Solamente qualche modesto commesso, che non aveva osato fare la spesa, cercava di stare colla schiena al muro in atto contrito e vergognoso, come a un merlo a cui abbiano strappata la coda. «Anca lú a Milan?» mi chiese la Pardina, passando via e battendomi il suo ventaglio di piume sul naso. Era a braccetto del celebre tenore Altamura, un romano di Roma, che aveva cantato al Dal Verme, nella stagione, il Trovatore con grande successo. Il Miglioretti, dopo aver fatto un giro di valzer colla Pianelli, la condusse a posto, e infilato il mio bracci o mi tirò verso la sala del buffet, asciugandosi il collo, le guance e la testa con due fazzoletti. «Bella sí, ma di ghisa, e per di piú balla fuori di tempo.» «E dire che si sta tanto bene seduti.» «È suo marito che vuole che balli, è lui che le insegna. Hai visto i leoni marini di mister Pike? Suo marito le insegna anche a parlare milanese, e ci riesce, povera foca. Ma di tanto in tanto le scappa di bocca ancora qualche "propri de bôn" di Melegnano, che guasta il meccanismo della bambola.» «Jesus, che lingua! bevi, avrai sete...» dissi, versandogli dell'acqua in una tazza. Mentre io e il Miglioretti si rideva in fondo alla sala del Caffè, vedemmo venire colla sua testa lucida e rasa e cogli occhi fuori della fronte il Bianchi, che ci domandò se avevamo trovato Cesarino Pianelli. «Io l'ho visto» dissi. «Quando?» «In prima sera.» «Che cosa ha detto?» «Niente.» «C'è in aria un guaio serio....» Il Bianchi abbassò un poco la voce e, appoggiata la punta del mento a tre dita della mano, socchiudendo gli occhi in atto di pia aspirazione, ripeté: «Molto serio.» Fatto quindi un piccolo segno colla mano, ci trasse nel vano di una finestra presso una terrazza, che dava sulla piazza del Duomo. «Un guaio serio?» «Ho trovato il Martini tutto disperato.» «Gli è morta la moglie....» «Pazienza la moglie! mi ha detto che contro il Pianelli è spiccato un mandato di arresto.» «Via, via!» esclamammo a una voce io e il Miglioretti. Il Bianchi, che col marmo della sua bella fronte rispecchiava i lumi della sala, allungò il collo, nascose le mani sotto la coda della falda, girò la testa nell'aria come un bruco che va al bosco e disse cogli occhi chiusi: «Io l'ho detto che quel figliuolo doveva finire cosí... Si tratta di sottrazione con falso in scrittura.» «Diavolo!» esclamammo a una voce. «Io non credo il Pianelli un ragazzo capace di una cattiva azione, ma sono le necessità che spingono l'uomo ad approfittare delle circostanze. Il Pianelli ha perduto questi denari al giuoco e, siccome è già pieno di debiti fin sopra i capelli, pagò il debito di giuoco coi nostri denari. Visto che si cominciava a dubitare di lui, comprò la nostra fiducia coi denari dell'ufficio, e tutto ciò sempre nella speranza di guadagnar tempo e di trovare un santo protettore. Ma buco via buco fa buco - dice l'abbaco - e a furia di scavare la terra per turarli i buchi, la terra ti manca sotto i piedi... Povero diavolo, ha moglie e figliuoli....» «E non c'è nessun mezzo d'aiutarlo?» «Aveva promesso di portare il denaro per stasera, ma ormai è la mezzanotte e non si vede comparire. Il Martini a buon conto ha riferito tutto al capo d'ufficio e il documento è adesso in mano al procuratore del re.» «Ma come ha fatto?» «Eh, come ha fatto...» disse il Bianchi, ritirando nelle spalle la testa. «Si fa presto a dirlo... Quando si vuol fare il lord senza averne, mandare in lusso la moglie, pigliarsi tutti i capricci, darsi le arie di principe, non ascoltar pareri da nessuno, fare il passo piú lungo della gamba....» «Zitto....» Toccammo il predicatore in fretta col gomito per farlo tacere. Cesarino Pianelli, pallido come uno spettro, nel suo elegante vestito nero entrava in quel momento col passo legato del sonnambulo. L'orchestrina cominciò il gioioso valzer di Strauss: "Vino, donna e canto". Cesarino, uscito dall'ufficio, dopo il vivo colloquio col Martini, non aveva perduto tempo in tutto il venerdí. Saltò nel tram di Porta Romana e di là arrivò a prendere quello di Melegnano per correre in cerca del signor Isidoro Chiesa, suo suocero, che gli doveva ancora, dopo dieci anni, gli interessi della dote di Beatrice. Il signor Isidoro era una volta uno dei piú clamorosi affittaiuoli del Lodigiano, ma da molti anni non viveva che di reminiscenze. Grande e solenne declamatore delle sue abilità tecniche, chiacchierone terribile, persuaso che al mondo non c'era uomo piú furbo di lui, colla testa sempre piena e calda di progetti e di riforme, aveva trovato in Cesarino Pianelli il genero del suo cuore. Una certa somiglianza di carattere e di tendenze impediva a ciascuno di loro di conoscere i difetti dell'altro, come capiterebbe a due trombettieri sulla fiera, che, suonando l'uno troppo vicino all'altro, l'uno non sente le stonature dell'altro. Questi due uomini avevano una stima illimitata dei loro ingegni e nel conseguimento dello scopo comune si aiutavano in una maniera mirabile a rovinarsi. Da un pezzo in qua vivevano prestandosi a vicenda una grande opinione, con cui cercavano di fare ancora una certa figura nel mondo, come due spiantati che hanno in due un solo vestito di gala, che si prestano nelle grandi circostanze. Il signor Isidoro, quando vide Cesarino scendere dal tram, gli andò incontro coll'allegria del cane che rivede il padrone. L'avvocato Ferriani gli aveva scritto che per continuare una certa causa di cui Cesarino era informato, occorrevano almeno settecento lire: e Cesarino le aveva promesse qualche mese prima. Il buon suocero credette in coscienza che venisse a portarle... Del telegramma non parlò neppure. Si può immaginare se il loro colloquio fu consolante. Cesarino, irritato, nervoso, uscí in parole, che volevano quasi dire che il signor Isidoro Chiesa l'aveva imbrogliato. E il signor Isidoro rimproverava alla sua volta il genero d'aver mancato di parola e quasi voleva essere rimborsato delle spese fatte sulla sua promessa. Si lasciarono col veleno negli occhi. Tornato in città, il Pianelli saltò nella prima vettura che gli capitò davanti e si fece condurre a casa del Martini. Non lo trovò né a casa né alla Posta. Allora, temendo che Beatrice cominciasse a pensar male, rientrò a casa sua a pranzo, un po' tardi, e inventò delle scuse. Mangiò poco e sempre sopra pensieri. Dormí poco e agitato tutta la notte, ma sicuro in cuor suo che un migliaio di lire si trovano subito in Milano, basta a cercarle. Venne il mezzodí, vennero le due del sabato. Aveva pregato tre o quattro amici, inutilmente. Tutti erano dolentissimi, ma si sa gl'impegni..., le spese, gli anni cattivi...Una volta si spinse fino al Ponte de' Fabbri nella speranza di trovare il Pardi per via e toccargli il cuore, ma, non sentendosi il coraggio di salire su in fabbrica, andò a riflettere nella solitudine dei bastioni. Solo, col capo basso, col passo molle dell'uomo che va a spasso, piú irritato che triste, sotto i nudi ippocastani ancora rattrappiti dal freddo, Cesarino lanciava di tempo in tempo un'occhiata sdegnosa sulla città, sua grande creditrice, che si distendeva col suo anfiteatro di case, di cupole, di campanili raccolta intorno al gran fantasma del Duomo, al di là degli orti, nel chiaro sfondo d'un bellissimo cielo di marzo. Aveva scritto al Martini, per invocare altre ventiquattro ore, ma il tempo passava senza profitto. Per un migliaio di lire un uomo, che in un anno ne contava a milioni, un Cesarino Pianelli, conosciuto come la bettonica, era costretto a stendere la mano come se cercasse la carità. Vergogna! Provava in fondo al cuore un amaro corruccio e, sto per dire, un senso d'odio contro il Pardi, il Martini, il suocero, gli amici del Circolo che, senza accorgersi, egli accusava come gli autori principali della sua rovina. Era quasi giunto presso l'Ospedale dei Cronici, in un luogo del bastione umido e malinconico come la febbre, quando fu scosso dai suoi pensieri da un disperato gridare e vide passare un carro di contadini addobbato d'un lurido lenzuolo, con una bandiera trecolori in alto, pieno di villani in maschera, che col viso tinto e con delle scope in mano strillavano la loro goffa allegria. Allora si ricordò ch'era il sabato grasso. Quei poveri gonzi, passando e traballando sul loro carro rustico, lo salutarono col segno di chi invita a mangiar i gnocchi, e lo invitarono ad andare con loro al corso di gala. Lord Cosmetico avrebbe per un giorno cambiata volentieri la sua sorte con loro. Sentí suonare le due e mezzo all'orologio dell'Ospedale. In quella triste Rotonda c'era forse qualche malato che non avrebbe nella sua miseria cambiata la sua sorte con lui. Nel suo pensiero il signor Cesarino si paragonava a questo e a quello con un senso d'invidia, che aveva qualche cosa di nuovo e di cruccioso nel suo cuore. Eppure, perseverando nell'opinione che un Cesarino Pianelli non sarebbe affogato in un bicchier d'acqua, gli pareva di sentirsi ancora della forza in riserva. Egli poteva transigere una volta coi puntigli personali e andare in cerca di suo fratello Demetrio, col quale era in discordia da dieci o dodici anni per vecchie ragioni d'interesse. Poteva anche cercare di un suo zio canonico del Duomo. Seguendo il filo invisibile dei suoi pensieri, venne per le strade spopolate di San Barnaba e dell'ospedale, passò il Naviglio al ponte di legno e si lasciò condurre fino a San Clemente, dove da molti anni il suo fratello Demetrio, un orso della Bassa, abitava tre stanzette sopra le tegole nella casa dei Mazzoleni. La portinaia gli disse che il signor Demetrio era ancora alle Cascine Boazze per fuggire i rumori del sabato grasso. Combinazioni! Le Cascine Boazze sono quasi sulla strada tra Milano e Melegnano, e Cesarino v'era passato davanti il giorno prima. Si fermò sulla porta a pensare se doveva riprendere il tram e tornare indietro. In faccia sorgeva il bigio e grave palazzo arcivescovile dove abitava lo zio canonico, uomo rigoroso e papista, il quale non aveva mai voluto riconoscere un nipote mezzo repubblicano, mezzo framassone, che leggeva il Secolo, non andava a messa e faceva battezzare i figliuoli piú per rispetto umano che per convinzione. Cesarino si fece coraggio. Entrò nel silenzioso cortile dell'Arcivescovado, che nel suo profondo e squallido raccoglimento faceva uno strano contrasto colla colorita baldoria che rumoreggiava sul corso, di cui arrivavano le voci come onde morte che morivano contro le livide pareti. Chiese al portinaio del canonico Pianelli e gli fu indicato un uscio in fondo al portico a destra, dietro le due gigantesche statue di Aronne e di Mosè, bianchi e solitari abitatori di quel morto recinto. Sonò un campanello davanti all'uscio che gli fu indicato e venne ad aprire una donna di servizio. «Monsignore?» «È malato...» rispose sottovoce la donna, riempiendo il vano dell'uscio colla sua persona per paura che il seccatore si facesse avanti. «Non si potrebbe parlargli?» «Impossibile, gli hanno messo un senapismo.» «Si tratta... Son suo nipote Cesarino...» «Proverò.» La donna richiuse l'uscio in faccia al signor nipote, che rimasto solo sentí quasi entrare nell'anima quello sgomento fuggevole e quella compunzione fredda che lo assaliva da ragazzo le prime volte che la mamma l'aveva condotto a confessarsi. Al di là di quei muri umidi e massicci, che conservano quasi un senso corrucciato dell'antico splendore, sentiva il frastuono del carnevale e in mezzo agli strilli il dolore acuto, spaventevole, dei conti da rendere. «Ha detto che oggi non può ricevere...» venne a dire la Ludovica, che camminava senza far rumore. «I preti son sempre preti!» mormorò fra i denti Cesarino avviandosi verso la piazza. A chi poteva ricorrere? Non al Bianchi, non al Miglioretti, poveri diavoli, che stentavano a finire il loro mese. Pensò un momento al cavaliere Balzalotti, un vecchio e assiduo adoratore platonico di Beatrice. Se Cesarino fosse stato un marito come se ne dànno... oh, non avrebbe stentato a trovare un migliaio di lire! Col cuore schiacciato si lasciò attirare dal baccanale, che rumoreggiava sul Corso al di là del Duomo e di cui vedeva il flusso e riflusso, i carri e i colori al di sopra della calca nera agglomerata, pigiata sotto i balconi pieni di ragazze, di mascherine. Sentí il bisogno di cacciarsi anche lui nella folla per riposare un istante dal suo pensiero tormentoso, pungente, e giunse nel fitto della gente nel momento che una mascherata di cuochi versava da un'immensa cazzeruola grossi mestoloni di una polvere gialla, che voleva essere risotto. La mascherata era bella, ricca, brillante e suscitò un cà del diavolo nel crocevia tra il Campo Santo, il Corso e Santa Radegonda. Dalle finestre, dai balconi decorati di tappeti e di fiori, le mascherine, le damine avvolte nei bigi cappucci strillavano come spiritelli dannati, lottando furiosamente a colpi di coriandoli, di gettoni, di confetti. La folla si agitava come l'acqua del mare in tempesta in mezzo agli scogli. Cesarino, alzando gli occhi a un balcone d'angolo sopra la pasticceria Baj, riconobbe anche al di sotto della mezza mascherina la Pardi, la piú magra delle donne, che strillava dentro un cappuccio colla furia di un folletto, agitando le braccia come due bastoni di scherma. Si fermò a guardarla. Egli aveva troppo offesa quella donna ambiziosa, di cui avrebbe potuto essere un fortunato adoratore, come pretendeva d'esserlo ogni buon corrispondente della ditta Pardi e C. Egli l'aveva offesa col panegirico non richiesto della sua felicità domestica e con una satira non dimenticata sulle donne magre. Il buon Cesarino soffriva oggi le conseguenze d'essere stato troppo onesto amico del signor Melchisedecco... Cosí va il mondo. Risalendo la corrente, gli riuscí di portarsi fin verso i portici della Galleria, e di salvare le costole nella bottega del Campari. Si rifugiò in un angolo del Caffè, accese una sigaretta e ingoiato in fretta un assenzio, rimase a osservare tranquillamente la folla dei pazzi che farneticavano negli ultimi palpiti del carnevale, tranquillo e freddo in apparenza, come soleva fare qualche volta al bigliardo quando la fortuna gli era nemica. Egli lasciava vincere la fortuna, ma si riservava di rifarsene in fine con un colpo maestro. Seduto davanti a lui, quasi nel mezzo del Caffè, solitario e raccolto come un filosofo, il signor Guerrini, detto il Bòtola, leggeva l'articolo di fondo della Perseveranza, sillabando colle labbra le parole e movendo la testa ad ogni principio di riga. Era un omaccio di mezza età, corto di gambe, rotondo, paffuto, con due liste di barba nera che gli cascavano in bocca. Vestiva come un modesto padre di famiglia, che per economia porti i calzoni non troppo lunghi e un cilindro vecchio e lavato per risparmiare il pane dei suoi figliuoli. Cesarino tirò uno sgabello vicino al noto usuraio e cominciò un discorso sottovoce, che il buon uomo aveva poca voglia di ascoltare. «Ma lei vuole il pegno in mano e l'uomo in prigione» disse con dispetto una volta Cesarino. «Io non voglio niente, caro lei. È lei che vuole. Cerchi una garanzia.» «Quando voglio impiccarmi spendo meno.» «Questo è vero» soggiunse il Bòtola senza cessare di leggere il suo giornale. Il corso era sul finire. All'imbrunire uscirono i primi lumi dalle botteghe e nella profondità della via Torino verso il Carrobio, si vedevano discendere a poco a poco le fiammelle dei lampioni. Seguendo la fiumana della gente che rincasava, Cesarino si lasciò trascinare anche lui verso casa in mezzo al frastuono dei matti, dei carri, delle trombette, tra banchetti e botteghe e bazar illuminati, pieni di maschere ridenti e costumi di pagliacci. Milano, che gridava, strillava, che si preparava all'orgia delle cene e dei veglioni, non aveva un migliaio di lire per salvare dalla vergogna un povero padre di famiglia. Con tutto questo Cesarino non si arrendeva. Sperava di trovare al Circolo in principio di sera un'anima meno avara: o di commuovere il Pardi, o sua moglie, o almeno il Martini, ottenendo un altro giorno di respiro. A casa figurarsi se Beatrice ebbe il tempo di badare a lui! L'Elisa, la signora Grissini, Arabella se l'erano pigliata in mezzo e aiutavano a vestirla, come si veste la madonna. I maschietti erano andati col Ferruccio della portinaia al teatrino d'un oratorio. Cesarino si vestí in gala, uscí subito, con un pretesto, raccomandò di nuovo a noi sua moglie, portò un biglietto a casa di Buffoletti, che stava laggiú alle Grazie: tornò indietro in cerca del Martini, che era già partito da Milano, venne una volta verso le nove al Circolo, tornò una seconda volta a mezzanotte... Il servitore d'anticamera gli consegnò un bigliettino del Martini che diceva: "Ho aspettato fino alle nove. Consegno tutto al commendatore. Si giustifichi con lui." Lord Cosmetico era spacciato. III Stavo in estasi a contemplare dall'uscio una quadriglia, in cui la signora Pianelli girava come un arcolaio ingarbugliato, quando sentii una mano leggera sulla spalla. «Scusi, ho ancora bisogno d'un favore.» «In ciò che posso...» balbettai, spaventato dal terrore che vidi in fondo agli occhi del povero Cesarino, mentre mi seguiva in un angolo del salotto. «Ricevo adesso una lettera, in cui mi si dice che un mio commilitone è in fin di vita alla Casa di Salute. Il poveretto è solo, senza parenti, e siccome mia moglie desidera rimanere, cosí se non le rincresce di accompagnarla ancora a casa dopo la festa....» «Si figuri» risposi, «fin che resta mia sorella sono a sua disposizione.» «Vai proprio, Cesarino?» domandò la signora Beatrice, sopraggiungendo in quel punto tutta lieta e scalmanata. «Il signore è tanto gentile... Può essere ch'io rimanga alla Casa di Salute tutto il giorno di domani. A buon conto tu non aspettarmi.» Pianelli pronunciò queste parole con una freddezza spaventosa. E, come se avesse ancora da aggiungere qualche cosa, restò un momento a guardarsi la punta delle dita cogli occhi stretti e addolorati. Io guardai in viso alla bella bambola per vedere se al di sotto della fredda vernice di biscuit passava un'ombra di un sospetto, di apprensione. Ma il volto sodo e grande, gli occhi aperti e ripieni di una gioia infantile non diedero alcun segno. Essa non si accorse nemmeno del pallore giallognolo e funebre che scese ad un tratto sul volto del marito. Cesarino alzò ancora un momento gli occhi, e, indurito, irrigidito nel tremito che gli scoteva i nervi, soggiunse: «Tornerò forse a mezzodí.» «Addio, non strapazzarti troppo.» Queste furono le ultime parole che Beatrice disse a suo marito. L'avvenente tenore Altamura, col suo sonoro accento romano, venne a invitarla per il cotillon e la ricondusse in sala. Cesarino uscí correndo dall'altra parte, verso la scala. Alte grida chiesero il galoppo finale e l'orchestrina, aizzata da un marsala di seconda qualità, attaccò subito Fra tuoni e lampi... Fu una scintilla in una polveriera. Alle prime battute dieci coppie si urtarono nel mezzo della sala, come barchette sbattute da un improvviso uragano nelle strette dighe del porto. Quando fu possibile di mettere un poco d'ordine, le coppie a cinque per volta cominciarono a discendere nel campo coll'elasticità e colla calorosa foga dei cavallini ammaestrati di un circo, chi con in testa un cappelluccio di arlecchino, chi con una mascherina sul viso o con un naso di carta o con qualche altro segno della follía in capo. Allo squillo di un campanello, che era stato affidato all'autorità morale del cavaliere Balzalotti, le cinque coppie danzanti si agglomeravano, facevano ingorgo alla porta d'uscita per rubare un posto: e intanto era un tiepido intreccio di corpi, che avevano nel sangue i tuoni e i lampi. Il cavaliere Balzalotti, conficcato sullo stipite, riceveva sulla pancia quelle morbide ondate di belle donnine e godeva, vispo come il pesce nell'acqua fresca e chiara. Uscivano da un'altra porta altre cinque coppie, precipitando, come trottole sotto i colpi di una frusta invisibile, forse la frusta del diavolo. Le care donnine, trascinate, rapite, portate di peso, coi capelli o scomposti o sciolti, aspirate dai gorghi vorticosi dell'ultima danza, palliduccie di gioia, alleggerite ancor piú del solito dalle spume del vino d'Asti, che gonfiava i cervelli, scendevano nella danza e vorticavano come pagliuzze in balía di una dolce bufera. Che sa mai del suo destino una pagliuzza? E che ne sa la donna? «Se si squarciassero i muri» disse la Quintina, la moglie del gobbetto elegante, al Bianchi, che le faceva una corte per ridere. «Se si continuasse a volare cosí nello spazio del cielo?» «O gaudio!» gridò il Bianchi con un guaiolo di gatto innamorato. Fu una risata generale. Ordine e soggezione e serietà non era piú il caso di pretendere in quelle ore bruciate. «Ip! ip! ip!» gridavano i piú pazzi, battendo coi piedi le note del terribile galoppo. «Ip! ip! ip!» gridava il Garofoletti, tirando con tutta la forza de' suoi robusti trent'anni la Pianelli, che rotolava fuori di tempo come una valanga. Aveva anch'essa in testa un cappellino aguzzo pieno di campanelli, che le faceva comparire la testa quasi colossale. Sotto i trabalzi del suo passo pesante, il corpo di Giunone fremeva nelle strette fasciature dell'abito di raso, che mandava le fosforescenze della madreperla. Essa irradiava un calore di fornace, ansimava, sgocciolava sudore da tutti i capelli, ma voleva gridare anche lei ip, ip, ip, per mostrarsi briosa e pazzerella come le altre, come piaceva al suo Cesarino, senza che l'ombra d'un pensiero cattivo passasse a ottenebrare il candore latteo della sua bontà. Al cessare della musica fece uno strano effetto il battere della pioggia furiosa contro i vetri. Cesarino era disceso in furia dalle scale, in furia traversò i portici e la piazza semibuia della Corte, verso piazza Fontana, senza quasi sentire la pioggia che veniva giú fitta e gelata. Era l'ultima corsa. Aveva pregato e supplicato fin troppo. La gente voleva la sua morte. Non si uccide un uomo soltanto col ficcargli un coltello nel cuore, ma anche col metterlo nella necessità di perdere l'onor suo. Questo aveva fatto il Martini. Una volta che il commendatore aveva nelle mani la prova della sua colpa era come mandare un uomo in galera. Un Pianelli in galera per la miseria di un migliaio di lire? Questo poi no, perdio! Questo "no" risuonò nell'oscurità del suo pensiero proprio nel momento ch'egli usciva dalla via Alciato e rasentava il palazzo di Giustizia. In un baleno gli passarono per la mente tutti i processi celebri che aveva letto sul Secolo e che soleva discutere cogli amici sempre con grande animazione. Una volta o due la sorte l'aveva chiamato a far parte della giuría e aveva potuto vedere da vicino tutto l'apparato di un processo col reo in gabbia su una panca di legno, cogli angeli custodi ai fianchi e il pubblico in faccia, il grosso, l'avido mostro dalle cento teste, che succhia cogli occhi l'anima e i pensieri d'un poveretto, ne conta con ferina voluttà tutti i tremiti, i sudori, i moti inconsulti, ridendo degli sforzi che fa per aggrapparsi nell'agonia dell'onor suo a ogni sterpo, a ogni fil d'erba che il destino gli manda sottomano. "È cattiva la gente!" pensava torbidamente, mentre correva per le viuzze bistorte del Zenzuino e del Pasquirolo, due strade di catacomba. Finalmente sbucò sul gran corso Vittorio Emanuele. Si arrestò un momento per far tacere l'affanno e gli acuti dolori di milza. Soltanto allora si accorse che l'acqua l'aveva tutto inzuppato. Se la sentiva scorrere come una biscia fredda lungo il filo della schiena. Qua e là, rasente ai muri, si vedevano dei gruppi di gente, che tornavano dalle feste sotto gli ombrelli lucidi e grondanti. Qualche pierrot ubbriaco proclamava in mezzo alla strada la révolution, sorreggendosi a fatica nell'aria coi larghi gesti. Venivano, dai crocicchi bui, risa e strilli di mascherine che scivolavano innanzi, tuffando le belle scarpette di seta nelle pozze e nei ruscelli. Il Caffè dell'Europa, sull'angolo della via Passarella, non aveva ancora chiusi i suoi battenti. Molti vagabondi vi si erano rintanati contro il maltempo, tra i quali qualche vecchio impenitente in cerca di belle avventure, qualche trasognato celibatario che non trovava piú la maniera di divertirsi e qualche operaio vestito cogli abiti di lavoro, che stentava a digerire l'unto di una cena straordinaria, guastata da un vinaccio cattivo. Cesarino entrò nel Caffè e ordinò un punch molto forte. Intanto si guardò indosso. Pareva appena pescato nelle acque di un fosso. Gli portarono il punch acceso d'una fantastica fiamma azzurrognola, che egli trangugiò quasi col fuoco vivo sulle labbra, arroventando il cielo della bocca e tutti gli spiriti: poi ne comandò subito un altro insieme all'occorrente per scrivere. Quando si trovò in mano la penna, appoggiò la testa all'altra mano e cominciò a fregare la fronte per diradare una gran nebbia. Sul punto di scrivere al Martini la dichiarazione che gli aveva promessa, sentiva la penna diventare pesante e rovente tra le dita. Come può un uomo dichiarare di suo pugno sopra un bianco e lucido biglietto di lettera che egli è un ladro e un falsario? Se invece si fosse rivolto direttamente al commendatore, invocandone la misericordia? ma si ricordò che un giorno questa brava persona gli aveva detto: «Pianelli, lei spende molto.» Che cosa aveva risposto il signor Pianelli al signor commendatore? «commendatore, spendo del mio.» Ora gli ripugnava di mettersi in ginocchio a recitare il confiteor. Intanto le idee si aggrovigliavano e la volontà si smarriva in fumo. L'uomo di talento si smarriva nella crescente nebbia de' suoi pensieri, come l'alpigiano colto dalle nebbie improvvise del suo monte. I fumi del punch che fermentavano nello stomaco, irradiando vampe di calore, circondavano la testa d'una fantastica tenebría, in cui balenavano delle fiamme e delle punte azzurrognole. Guardò l'orologio. Erano le tre e mezzo dopo la mezzanotte. Prese un giornale che trovò sul tavolino, ne scorse in fretta le pagine illustrate senza capire nulla di quelle grandi figure, senza quasi veder nulla; lo buttò via, girò uno sguardo scemo, aggrondato per la sala, appoggiandosi colle due mani sul divano, si sbottonò il soprabito, l'abito, il panciotto anche, e stette un minuto in un atteggiamento tra l'estatico, il tragico e l'ubbriaco, provando nella reazione alcoolica del doppio beverone ingoiato un'acuta e dolce vertigine, un senso di chi cade dall'alto nel vuoto, come prova chi si lascia dondolare cogli occhi chiusi sopra un'altalena. Improvvisamente, parendogli che il tempo gli mancasse davanti, buttò i denari contati sul vassoio, saltò in piedi. Sulla porta si racconciò un poco i vestiti, guardò in su e in giú per la lunghezza del Corso, accese un mozzicone di sigaro, che trovò nel fondo di una tasca, e invece di piegare a mancina verso il Duomo, che era la strada piú naturale per andare a casa, piegò a dritta verso il ponte del Naviglio. Le goccie cadevano ancora a vento, fitte, rabbiose. Quantunque i vestiti leggeri della festa e le scarpe basse di pelle inverniciata fossero un costume poco opportuno per affrontare uno scroscio di quella forza, pure il signor Pianelli, detto lord Cosmetico, quasi per il gusto di fare un dispetto a sé e a qualcuno fuori di sé, cominciò a discendere, passo passo, verso il ponte, masticando il suo sigaro amaro e insieme una risoluzione piú acre ancora, coll'aria indifferente del giovinotto che va a spasso a pigliare il fresco. I ciottoli battuti e slavati uscivano dal terriccio coi vari colori, come un rozzo mosaico, mentre i lastricati, tirati lucidi come specchi, scendendo in linee parallele per tutta la lunghezza del Corso, riflettevano la doppia fila delle fiamme a gas, fino alla barriera di Porta Venezia. Anche in questa parte non un'anima viva in quell'ora. Buie tutte le finestre e anche al disotto del bollichío dell'acqua cadente si sentiva, sto per dire, quel silenzio gravido di sonno che è proprio delle ultime ore della notte, in cui sogliono riposare anche i malati e si assopiscono i moribondi. Il Pianelli invece andava a spasso. Scherzi a parte, quando fu sul ponte si domandò se aveva il coraggio di annegarsi nel Naviglio. Aveva sofferto già abbastanza la mortificazione del pitoccare l'elemosina per sentirsi ancora la forza di affrontare lo scandalo di un processo per truffa e falso. Era già stracco, annoiato, nauseato della vita e della gente. Si accostò al parapetto, fissò l'occhio nel biancheggiamento turbolento dell'acqua, che rimbalza e scaturisce dalla chiavica e manda tra le due portaccie del sostegno l'ululato d'una bestia feroce. A questo rumore si mescolava il friggío dell'acqua, che traboccava dalle grondaie e ribolliva sul lastrico. Tutt'insieme quell'acqua faceva uno scroscio ampio, assordante, che toglieva i sensi e la ragione. Egli e l'acqua erano già una cosa sola. Non aveva piú un filo asciutto indosso. I panni gli si raggrinzivano sulle carni, le scarpette macerate zampillavano fontanelle, il cappello era una spugna. Si sentiva gonfia d'acqua la testa e l'anima. Tratto da un impeto cieco di disperazione, discese a corsa la stradetta alzaia, che passa sotto il ponte e rasenta il pelo dell'acqua. Qui non c'è che un passo, chi voglia farla finita colla vita. La gente voleva la sua morte: la voleva anche lui. Ma quando fu sotto, al buio, un pensiero, che fin qui aveva cercato di non lasciarsi vedere, e che se ne stava rintanato nella parte piú oscura del cuore, ributtato le cento volte da una passione piú avara e piú dispettosa, come se a un tratto ricuperasse una giovanile energia, urtò, rovesciò ogni altra considerazione e uscí con tutto il suo disperato entusiasmo a fermare un pover'uomo dall'ultimo passo. E quei poveri figliuoli? E la sua cara Arabella? Questa veniva quasi piú avanti degli altri bambini nella sua chiara biondezza, nella sua bellezza alta e sottile. Egli era uscito per andare a una festa da ballo senza quasi guardarli in faccia quei figliuoli e non poteva morire senza vederli ancora una volta. Non poteva morire cosí come un gatto senza provvedere in qualche maniera, non al proprio onore (questo era perduto per sempre), ma all'onore, alla protezione di quei poveri figliuoli. La sua morte doveva almeno esser utile a qualcuno. Quattro ore sonarono nel fitto dell'oscurità, ore gravi, cupe, solenni come quattro parole piene di minaccia, che fecero sul capo dell'infelice l'effetto di spietate martellate. Il Pianelli capí che era l'ora di tornare a casa e, tra il chiaro e il fosco de' suoi pensieri in disordine, ritornò sul ponte, e, col passo frettoloso di chi ha paura di perdere un treno, risalí di nuovo tutto il Corso, ritraversò piazza del Duomo, alzò gli occhi alle finestre illuminate del Club, dove si ballava ancora: scese per via Torino, passò davanti San Giorgio, senza vedere, senza udire i pochi matti che strillavano e barcollavano vestiti da maschera: passò imperterrito quasi sui piedi di due questurini accovacciati nel rientro di una porta, e venne fino in Carrobio, non so se cacciato o se tirato da un ultimo pensiero, soltanto in questo vivo, morto indurito nel resto della sensazione, fatta ancora piú rigida dai sudori dell'ebbrezza alcoolica, che gli si congelavano indosso. Trasse dal taschino la chiavetta inglese, aprí il portello, entrò nell'andito della casa sua, rintracciò nel buio la solita strada, la solita scala, che prese a salire energicamente col corpo piú sveglio, ritrovando nelle svolte dei pianerottoli le idee abituali di tutte le sere. Abitava al terzo piano un quartierino quasi nuovo, che aveva due balconi verso strada. Per una scaletta di legno si saliva, oltre il suo pianerottolo, a un terrazzino aperto sul tetto per il medesimo uscio del solaio. Su quel terrazzino Cesarino Pianelli aveva un poco di botanica. L'uscio del solaio, di legno massiccio, come al solito era rimasto aperto e Cesarino se la prese ancora mentalmente contro il guattero dell'osteria, un animale che non aveva le mani per chiudere, quando andava lassú a prendere il carbone. L'uscione, sbatacchiato dalla forza del vento che entrava per l'abbaino, mandava di tratto in tratto dei cupi rimbombi nella torre della scala. Cesarino alzò gli occhi e vide in mezzo a due nere travi una pezza piú chiara di cielo. Introdusse dolcemente la chiave nella toppa e sospinse il battente. Giovedí, un brutto cane volpino, che egli aveva raccolto per via la notte d'un giovedí santo, si mosse nel suo giaciglio, posto in un angolo dell'anticamera, mandò un guaiolo; ma, riconosciuto il padrone, si accoccolò di nuovo a dormire. Camminando sulla punta dei piedi, si avvicinò all'uscio della stanza da letto: e ascoltò. Beatrice era tornata e dormiva da una mezz'ora, profondamente, cullata dall'eco delle danze. Tornò indietro, sempre sulla punta dei piedi, entrò nello stanzino che serviva da studio, che aveva la finestra sopra un cortiletto di passaggio tra la bottega del lattivendolo e l'osteria. Accese una candela, buttò in terra il gibus pesante d'acqua e si strappò di dosso il soprabito e l'abito nero a falde. Con una salvietta si asciugò un poco i calzoni, le mani, il collo e indossò un gabbano che trovò sul letto. Stracco e mezzo malato si abbandonò sopra una poltrona e stette lí tutto intormentito, tutto d'un pezzo. La casa e la città tacevano ancora in quell'ora cieca che precede il giorno: e l'unico rumore era lo sbattacchiare villano dell'uscione del solaio, che agitava un suo arpione di ferro pendente. Fissò gli occhi nella fiamma bianca della candela posta sulla sponda della scrivania, dalla quale si irradiava un cerchietto di luminose stelluccie. Portò le mani agli occhi. Erano lagrime. Tristo, maledetto destino che per qualche migliaio di lire un uomo dovesse perdere la vita! E quest'uomo aveva esposto tre volte il petto alle fucilate, ed era stato a Roma nel settanta. Cesare Pianelli aveva due medaglie commemorative e un congedo militare onorevolissimo. Ebbene, a quest'uomo non si davano nemmeno tre giorni per ordinare le idee, per accomodare un debito. Sonarono le quattro e tre quarti a una graziosa pendolina di nichel posta sul caminetto. Nella stanza vicina, non divisa dallo studietto che da un semplice assito aperto in alto, dormivano i suoi figliuoletti minori, Mario di circa sei anni e Naldo di quattro anni e mezzo, due bei bambini, che avevano gli occhi del babbo e la carnagione bianca della mamma. Arabella, di dodici anni e mezzo, dormiva in una cameretta piú lontana. Cesarino amava immensamente i suoi figliuoli, e sebbene li vedesse attraverso lo specchio falso delle sue grandi idee e della sua ambizione, l'affetto suo non era per questo meno vivo e sincero. Arabella specialmente era il suo cuore, perché ragazza, perché la prima, perché bellissima. Questa bambina d'un biondo chiaro, con magnifici occhi neri pieni di riflessi, cresceva a precipizio con una personcina aristocratica, mobile, nervosa come la natura del babbo, ma d'animo dolcissimo come la mamma. Che cosa sarebbe stato di questi ragazzi fra ventiquattro ore? Come avrebbe potuto un povero padre sopportare lo sguardo pieno di lacrime di quella bambina intelligente? E che cosa avrebbe dato loro da mangiare il povero padre? E chi avrebbe sposata la figlia di un uomo processato per falso e uscito di prigione? E chi avrebbe dato pane ed educazione a' suoi maschietti? Il mondo è cattivo. Il mondo è cane, peggio dei cani. L'uscione del solaio agitato dal vento seguitava a sbattacchiare innanzi, indietro. Parevano insulti quei colpi! Cesarino si profondò ancora un poco nelle sue meditazioni, e trovò che proprio uno solo era il rimedio ai suoi mali. Andò alla scrivania e scrisse di seguito: "Illustrissimo signor commendatore, "Il sottoscritto, dopo quasi venti anni di onorati servigi resi alla patria, si trova nella dolorosa circostanza di non poter restituire entro ventiquattro ore la somma di lire mille. Poiché non si è creduto necessario di concedergli un lasso maggiore di tempo, provvede egli stesso al suo castigo. "Valga questa mia dichiarazione quale giustificazione pel signor ragionier Martini e valga il mio sacrificio a espiare un delitto che non era nelle mie intenzioni di commettere. Spero che non si farà processo ad un morto e si vorrà almeno salvare l'onore de' miei figli. "In quanto ai danni ho incaricato mio fratello Demetrio di regolare la partita collo stesso signor ragionier Martini. "Con osservanza CESARE PIANELLI." Prese quindi un altro foglio e scrisse in alto: "A mio fratello Demetrio." E piú sotto: "Prego mio fratello a voler regolare col signor ragionier Martini un conto di lire 1000 (mille), di cui mi dichiaro suo debitore, e nello stesso tempo di voler provvedere perché siano protetti i diritti dei miei figliuoli, tanto per riguardo alla mia pensione, quanto per la intera esazione della dote di mia moglie, di cui è qui allegata una promessa scritta di mio suocero, il signor Isidoro Chiesa di Melegnano. Si procuri che i miei figli non sappiano mai come morí il padre loro." E senz'altro firmò, suggellò le lettere, scrisse gli indirizzi e sollevò la testa come se si svegliasse da un gran sogno. Naldo mormorava in sogno delle parole ridenti. Il cuore irritato e superbo del padre fu scosso da quella voce tenera e balbettante, che si svolgeva dalla vaga delizia d'un bel sogno. Il povero uomo strinse la testa fra i pugni. Bagnò ancora una volta la penna e cominciò a scrivere: "Cara Beatrice..." Ma un fiume di lagrime gli tolse la vista della carta. Soltanto a scrivere il nome di questa donna, tutte le forze dell'anima si risvegliarono in un impeto sdegnoso di coraggio, in una quasi feroce esigenza di vita. Egli non osava dire a sé stesso che forse soltanto per questa donna era venuto insensibilmente all'orlo del precipizio: non osava accusare sua moglie, renderla complice delle sue disgrazie. Ciò che egli aveva fatto per lei, i regali, il lusso, lo splendore della vita, non era stato chiesto dalla povera donna: ma Cesarino l'aveva dato spontaneamente, come tributo dovuto alla bellezza e alla bontà di sua moglie, di cui egli era ciecamente innamorato e ciecamente geloso... All'idea che i morti non possono vedere le cose di qua, e che Beatrice, vivendo, poteva essere il tesoro di un altro uomo, Cesarino rabbrividí, buttò via la penna, si picchiò la fronte con pugni duri e stretti. Quali tentazioni gli passavano nel sangue? Non aveva mai creduto a certi delitti se non come conseguenza di delirii frenetici e di pazze allucinazioni: ma ora si sentiva pigliato egli stesso da una forza invisibile che tentava di trascinarlo di là, nella stanza vicina, accanto al letto della bella donna addormentata, ancora sua, tutta sua... Capiva già come si possa afferrare un coltello e uccidere, uccidersi... Balzò in piedi inorridito. Tremava in tutto il corpo di febbre fredda, mentre la fronte pareva una fornace. Non piangeva piú. Si guardò una volta nello specchio ed ebbe paura di sé. La testa pareva già calcinata, le labbra indurite, gli zigomi tesi, la fisionomia coperta dei lineamenti della morte, i capelli irti, tesi, irritati, l'occhio vitreo di uomo pazzo... Era già pazzo forse? questa poteva essere ancora una mezza salute. A un pazzo si perdonano molte cose, che non si perdonano ad un morto, e un pazzo può ancora risuscitare. Ma ragionava ancora troppo per essere matto. La macchina logica del suo cervello funzionava ancora troppo regolarmente e gli dimostrava che pel ladro e pel falsario non c'è che il codice penale... Un impeto di nausea urtò a questa ripetuta idea lo stomaco, la vertigine lo colse, trasudò copiosamente per tutto il corpo, e sentí quasi un rovesciamento di tutti i visceri. Anche questo male passò presto: non poteva né impazzire, né morire, mio Dio! Bisognava ch'egli si distruggesse proprio colle sue mani. Soffiò sul lume e rimase al buio, raccolto, colla testa tra le mani, quasi a pregustare il gran buio eterno in cui stava per gettarsi. Quando si scosse da quella profonda contemplazione, vide che un primo albore del giorno biancheggiava già sui vetri. Si alzò, aprí la finestra che dava sul cortiletto, guardò giú nella fonda oscurità delle pareti ancora umide e sgocciolanti di pioggia. Il vento fresco e leggero dell'alba rompeva qua e là la nuvolaglia del cielo e cominciava ad asciugare i tegoli. La luna usciva ancora a tempo per spargere sui tetti bagnati un raggio della sua luce tremula e falsa, una luce che faceva male al capo. Cesarino sentí la nausea della vita e misurò ancora una volta coll'occhio la terribile profondità in cui stava per gettarsi capofitto. Ma in quel punto uscí e si mosse nel cortile un lume. Alcune voci si mescolavano al tonfo sonoro del secchio del lattivendolo. Non era piú a tempo a gettarsi dalla finestra. Sentí che sonavano la diana alla caserma di San Francesco, a cui rispose piú lontana, forse dal castello, la diana della cavalleria. Queste due squille vive nel gran silenzio dell'ora sollevarono un nuvolo di idee e di memorie del tempo felice ch'egli aveva servito nei lancieri, quando, per esempio, cacciando la testa fuori della tenda si vedeva all'orizzonte dietro i pioppi del Ticino la striscia argentea dell'alba. Al di sopra dei tetti per la vastità dell'aria si moveva e arrivava anche il rumore sordo dei carri, che, sul fare dell'alba, portano alla città le verzure, la legna, il fieno; e veniva insieme anche qualche tocco d'Avemaria di una parrocchia rurale, lontana lontana, insieme ai fischi della stazione di Porta Genova. Cesarino fu quasi respinto indietro da quei suoni di vita: chiuse in fretta la finestra. Dopo aver cacciata la testa nel bugigattolo dove dormivano i figliuoli, dopo aver respirato l'odore caldo della loro vita di cui lo stanzino era pieno, volle dare un bacio alla sua Arabella. Passò nell'altra stanzetta, leggermente, per non svegliare la bambina. Non piangeva, non pensava, non soffriva nemmeno piú: ma erano lampi e bagliori di idee in mezzo alla nera oscurità di una ragione che un senso indomato di orgoglio trascinava alla disperazione. La stessa disperazione però pigliava già forma di sacrificio. Non è santo olocausto la morte di un padre che si uccide per salvare l'onore dei figli? Arabella dormiva soavemente nel suo letto composto e bianco. I capelli di lino scendevano sopra le piccole spalle che brillavano nella poca luce dell'alba. Il seno piccolo e commosso forse da un sogno palpitava della vita che si sogna a dodici anni. Le labbra semiaperte mandavano fuori un alito puro, misto al profumo delle carni intiepidite nelle coltri. Quel mondo cattivo e senza carità, che voleva oggi cacciare in prigione il padre, avrebbe fra non molti anni sospinto colle stesse mani la figliuola al vizio e alla vergogna, giovandosi della sua fragilità morale. O che cosa può essere (pensa il mondo) la figlia di un ladro e di un falsario morto in prigione? L'uscione del solaio sbatacchiò due colpi che fecero tremare la casa. "Vengo." Si chinò sulla testolina della figliuola, lasciò che cadessero le ultime lagrime sopra i suoi capelli, l'adorò un ultimo istante, e risoluto, sempre con passo leggero, andò in cucina, presso la cassa della legna. C'era un cassetto, frugò, rimestò un pezzo colle mani, scelse qualche cosa, che osservò attraverso alla luce nascente della finestra, e passò davanti all'uscio di Beatrice. Ascoltò. Essa dormiva col fiato pesante. Davanti a quell'uscio, mentre stava col pugno stretto, sentí come un coltello in mezzo al cuore. Non c'era piú tempo da perdere. In anticamera Giovedí si mosse un poco e si lamentò. "Dormi, povera bestia!" L'uscio che dava sul pianerottolo era rimasto aperto. Lo riaccostò senza far rumore e corse a precipizio su per la scaletta del solaio. Arabella sognava d'essere nella chiesuola delle monache, occupata a ornare di fiori una statuetta della madonna. Da qualche tempo essa si preparava alla prima Comunione e il suo cuore era pieno di visioni: quando fu svegliata bruscamente da un forte abbaiare. Alzò un poco la testa, in preda ad uno strano spavento; portò la mano al cuore, dove sentiva uno schiacciamento come un chiodo premuto, girò gli occhi intorno. I vetri cominciavano ad imbianchire nella luce mattutina. Le campane di San Sisto sonavano l'Avemaria. Lasciò cadere ancora la testa, stanca del bel sonno della fanciullezza, e si addormentò un'altra volta. Il cane, colle quattro gambe tese rigidamente sugli scalini e col corpo quasi indurito dall'emozione seguitò un pezzo a urlare nell'ombra contro l'uscione aperto del solaio. Ficcava gli occhi nel buio della soffitta, ma non osava fare un passo né avanti, né indietro, come se, tranne la voce, la povera bestia fosse istecchita nelle sue costole.
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