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Opere pubblicate: 19994
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7. Malombra
Alle due pomeridiane il commendatore e Silla lavoravano in biblioteca. Preparavano lettere e telegrammi d'affari, liste di persone a cui mandare la partecipazione di morte. Il Vezza aveva una parlantina inesauribile. Seduto al tavolo del conte Cesare, di fronte a Silla, discorrendo, scrivendo, buttando da parte una carta, pigliandone un'altra, non taceva che per guardare la punta della penna, per rileggere con un tal brontolìo inarticolato quello che aveva scritto o per spremersi con la sinistra dalle gote e dal mento qualche frase che non gli veniva pronta come le altre. Ogni tanto, discorrendo, dava un'occhiata a Silla e un tocco discretissimo nell'argomento della misteriosa comunicazione avuta da Marina. Ma quegli rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto. Pensava al colloquio avuto lì col povero conte nell'agosto precedente, la sera dopo il suo arrivo al Palazzo. Gli pareva udire ancora il vocione solenne e quel furibondo pugno sul tavolo. Adesso il sole fendeva obliquo la sala dalle finestre verso il lago, la empiva d'un chiaror verde dorato; e l'uomo giaceva in una camera vicina, senza vita. Quale mutamento! Scriveva, scriveva, buttando egli pure una carta per pigliarne un'altra, non rileggendo mai, trasalendo a ogni tratto nell'accorgersi di una parola omessa o sbagliata. Richiamava i pensieri a raccolta e tosto gli sfuggivano daccapo. «I telegrammi son fatti» disse il Vezza. «Adesso suoniamo per farli portare. Vuol favorire? Grazie. E le lettere per gli agenti, per i fittabili? Almeno quelli là di Oleggio bisognerebbe informarli subito. Chi ne sa il nome? Mi secca cercare i registri prima che venga il pretore da C... E cosa fa quel benedetto uomo? Sa ch'è anche organista quel pretore lì? Capace, se v'è per caso una funzione in chiesa, di non venire ad apporre i sigilli prima di stasera. E verrà pescando, probabilmente, per guadagnarsi la cena. Non Le pare, Silla, che vi sia un certo odore qui? No? Le assicuro che non vedo l'ora di essere a Milano. E Lei, scusi, che progetti ha?» Silla rimase un po' sorpreso. Entrò il cameriere. «Questi telegrammi» disse il Vezza. «Mandare qualcuno subito.» «Sa?» ripigliò parlando a Silla «desideravo sapere se ha progetti, perché io avrei una proposta a farle.» «Quale proposta?» «Non si prenderebbe intanto una boccata d'aria pura?» Uscirono nel giardinetto pensile. Il vento passava alto nel vigneto, scendeva a sfuriare nel cortile curvando in qua e in là sulla ghiaia lo zampillo ondulante della fontana: lì taceva. «Che bellezza e che allegria!» disse il commendatore. «Mi dica un po' se pare che sia morto il padrone?» «A me sì» rispose Silla. «A me no. Fa niente, senta. Io ho l'incarico di cercare un insegnante di storia e di letteratura italiana per un eccellente istituto privato di Milano. Ventidue ore alla settimana, due mesi di vacanze, duemila e duecento lire di stipendio. Ci va?» Silla gli stese la mano, lo ringraziò con effusione. «Ma» diss'egli «non ho abilitazione.» «Peuh! non è una difficoltà. M'impegno io per questo. Che diavolo fanno quelli là?» Quelli là erano il giardiniere e Fanny affaccendati a cogliere fiori nelle aiuole di fronte all'arancera, che di lì s'intravvedevano con una striscia di lago fra l'ala sinistra del palazzo e la muraglia verde semicircolare del cortile. Il Vezza accennò con la mano a Fanny, che attraversò correndo il cortile e venne sotto la ringhiera del giardinetto. «Cosa fate?» diss'egli. «È la mia signora» rispose Fanny in aria di mistero inarcando le sopracciglia e porgendo le labbra. «Perché? Per il funerale?» «Off! Sì che gliene importa del funerale! Per il pranzo! Come, non lo sa? Non gliel'ha detto il signor Paolo, che la ci ha ordinato un fior di pranzo, che anzi lui ha detto in cucina che non avrebbe fatto niente senza un ordine suo, di Lei?» «Signora Fanny?» chiamò il giardiniere. «Vengo! - E lo sa dove c'è l'ordine di preparare il pranzo? In loggia. Dico io, con questo vento! E io devo star qui a cogliere fiori, che patisco tanto il vento, io!» «Signora Fanny!» gridò ancora il giardiniere. «Vengo! - Una bella roba anche questa, neh! Io già a momenti pianto tutto. Non voglio mica diventar come lei, con quest'ariaccia e questo demonio di sole sulla testa.» «Signora Fanny!» chiamò il giardiniere per la terza volta. «Viene o non viene?» «Vengo, vengo! - L'è perché se non faccio io, quell'altro là non sa far nulla con garbo. - Me lo diceva anche il signor don Cecchino Pedrati che Lei già lo avrà inteso nominare, perché è una casa grande quella...» «Sì sì, vada pure» disse il Vezza. Fanny andò via gridando al giardiniere se non vedeva che i signori le parlavano. Il commendatore si voltò a Silla. «Voglio andar a sentire di questo pranzo» diss'egli. «Quella bestia del cuoco che non viene a dirmi niente!» «È una cosa impossibile» disse Silla. «Lo credo bene. Non gliel'ho detto, io, stamattina? Tutt'altro che guarita! E il dottore, quando viene.» «Veramente dovrebb'essere qui a momenti. È venuto stamattina, un minuto prima che la si svegliasse e ha detto che non poteva tornare prima delle due. Adesso c'è a letto con la febbre anche la Giovanna.» «Signor Silla» disse il Rico dalla porta della biblioteca «ha detto così la signora donna Marina di far piacere ad andar su da lei un momento.» "Ci siamo" pensò il commendatore. "Bel dramma, però". Silla entrò in casa senza dir parola. Il Rico lo accompagnò di sopra, gli aperse l'uscio della camera dello stipo antico. Marina era ritta in mezzo alla camera, nella luce delle finestre spalancate. «Lascia aperto» diss'ella al ragazzo, prima di rivolgersi a Silla. «E adesso scendi in giardino, va ad aiutare tuo padre e Fanny. Subito!» Ella uscì nel corridoio, vi si trattenne un momento ascoltando il ragazzo scender le scale; poi si voltò rapidamente a guardar Silla. Portava la stessa veste bianca a ricami azzurri della sera precedente; aveva i capelli in disordine, il viso livido. Silla s'inchinò, ossequioso. Rialzando il viso, la vide voltargli le spalle, muover lenta verso la finestra. Ella tornò poi a furia sulla porta del corridoio, chiamando: «Rico!» Ma il ragazzo era già lontano e non intese. Si fermò allora a guardar Silla per la seconda volta e disse: «Nessuno. Non c'è nessuno.» Egli non poté fraintendere il lungo sguardo pieno di appassionate domande mute, sentì ch'ella aveva ingannato il Vezza, ma rimase impassibile. Tutto il fuoco degli occhi di lei si spense a un tratto. «Buon giorno» diss'ella. Il saluto parve cader gelato dal terzo cielo. «Vezza Le ha parlato» soggiunse. «Sarei partito subito, marchesina, se...» «Lo so, lo so.» Silla tacque. Lo stipo d'ebano a tarsie d'avorio, i fiori ancora sparsi per la camera gli ripetevano la terribile storia della notte precedente. «Lo so» ripeté Marina con voce risoluta e sdegnosa «ma non basta.» E fece un passo verso Silla. «Lo ha inteso, dunque» diss'ella «che la mia fu una allucinazione?» Silla accennò di sì. Era a qualche distanza da lei, dall'altra parte del piano. Essa si rovesciò quasi bocconi sul piano, alzando il viso a guardar l'uomo. «E lo ha creduto?» disse. «Ed è contento di andarsene?» Silla non rispose. «Già» mormorò Marina, socchiudendo gli occhi come una fiera blandita. «Una cosa naturale, una cosa semplice, una cosa comoda! Va bene!» esclamò rialzandosi. V'era sul piano un vaso con delle rose e de' grappoli di glicine, sciolti. Ne strappò una manciata, li avventò sul pavimento. «Partire va bene» diss'ella «ma non basta. Non si sente in dovere di fare altri sacrifici per me?» La sua voce fremeva, così parlando, d'ironia amara. «Sono ai Suoi ordini, marchesina» rispose Silla gravemente. «Qualunque sacrificio.» «Grazie. Dunque sarebbe anche disposto di scrivere al conte Salvador!» «Al conte Salvador?» esclamò Silla sorpreso. «Cosa dovrei scrivergli?» «Ch'Ella parte di qua per sempre e non cercherà mai di rivedermi.» «Questo Le basta?» «Com'è buono!» disse Marina sottovoce. «Posso esserlo col signor conte Salvador» rispose Silla freddamente. «Mi sono posto stanotte a sua disposizione, l'ho aspettato un'ora, ed egli non si è lasciato vedere.» «Ah, lo odia, Lei?», esclamò Marina con due occhi lampeggianti. «Io? No.» Ella si pose a camminare su e giù per la camera, si fermò un tratto, dicendo: «Ma iersera sì, eh, che lo odiava? Iersera alle undici?» Silla pensò un momento e rispose: «Marchesina, è stata un'allucinazione anche la mia.» Ella rise forte, d'un riso che strinse il cuore a Silla. «Allora» disse «Le perdono tutto ed è affare finito.» «Dunque la marchesina non desidera più nulla da me?» «Grazie» rispose Marina sorridendo amabilmente. «Nulla. Ci vedremo ancora a pranzo, non è vero? Lei pranza qui? Ne La prego» soggiunse perché Silla esitava. Egli sapeva che questo pranzo non si farebbe, ma non credette prudente di entrare nell'argomento e s'inchinò ringraziando. Mentr'egli usciva, Marina batté con la mano sullo stipo antico, e disse: «Sa? Distrutto!» Silla si voltò, vide la bella mano bianca ch'esprimeva in aria, con un breve gesto, lo sparir di qualche cosa, la bella testa che salutava ancora, sorridendo. «Meglio» diss'egli. Appena percorso il corridoio e posto il piede sulla scala si udì, alle spalle, un grido acutissimo. Balzò indietro alla porta ond'era uscito, vi stette in ascolto, trattenendo il respiro. Udì accorrere un fruscìo d'abiti, la chiave girò nella toppa. Silla si allontanò, discese le scale pieno d'inquietudini. Era Marina che aveva gettato quel grido e poi chiuso l'uscio a chiave. Si diede dei pugni nella fronte per domarsi, aperse lo stipo, trasse il manoscritto sulla ribalta calata, e puntosi il braccio sinistro scrisse col sangue sotto le ultime parole di Cecilia: C'est ceci qui a fait cela. 3 Mai 1865 Marquise de Malombra, jadis comtesse Varrega. Dopo di che aperse un cassetto dello stipo e ne tolse un elegantissimo astuccio da pistole, in cuoio, con lo stemma della famiglia di Malombra, uno scudo d'azzurro alla cometa d'argento, al canton franco di nero, caricato d'un giglio d'argento. «Sapete» diss'ella, parlando alle armi «ha accettato di partire. Non ha inteso ch'era una prova.» Silla trovò in biblioteca il commendatore che lo aspettava frugando gli scaffali con il naso e con gli occhi ghiotti. Gli raccontò il colloquio, le ultime parole cortesi di donna Marina, il grido udito dal corridoio; disse che non aveva rifiutato espressamente l'invito a pranzo perché vedeva una donna malata, verso la quale bisognava procedere con le maggiori cautele. Secondo lui era necessario un sollecito provvedimento medico. Suggerì di telegrafare a questi parenti di Milano che procurassero di portarla via subito dal Palazzo, soggiorno pessimo per lei. Il Vezza rispose che lo farebbe, che intanto aveva sospeso il pranzo e contava sul medico onde persuadere donna Marina di rinunciarvi spontaneamente. Mentre diceva questo, comparve il medico. Questi ascoltò la relazione dello stato di tranquillità relativa in cui s'era trovata la marchesina svegliandosi e accettò di adoperarsi per farle abbandonare l'idea del pranzo. Promise che sarebbe tornato a dar conto della sua missione. Stette assente a lungo. Quando ricomparve aveva la sua faccia de' sinistri presagi, la più scura. «Dunque?» gli chiese il Vezza. Il medico guardava Silla, esitava a rispondere. «Ella può parlare liberamente» osservò il commendatore. «Bene. Io, già, signori, parlo da medico, senza riguardi personali, e dico: andiamo male, dipende da Loro che non vada peggio.» «Ma guardi!» disse il Vezza. «Pensare che stamattina era tranquillissima!» «Oh, anch'io l'ho trovata tranquillissima. Al primo vederla mi sono consolato, meravigliato anzi; un minuto dopo, la sua calma non mi piaceva più. Vedono, dopo il travaglio nervoso di stanotte quella donna lì doveva essere a terra, oggi, sfasciata. Ma no; non abbiamo che il pallore veramente straordinario e la cerchiatura livida degli occhi. Manca ogni altro sintomo di stanchezza, di depressione. Abbiamo apiressi completa e un polso di cento battute almeno. Qui, mi son detto subito, l'accesso nervoso sussiste ancora, questa calma non è fisiologica, è una coazione della volontà; e forse tale antagonismo esagera alcuni fenomeni nervosi, la frequenza del polso, per esempio. Le ho parlato di quel tale argomento. La presi pel verso della salute, le dissi che aveva bisogno di quiete, che farebbe bene a restare tutto il giorno in assoluto riposo, e non uscire di camera neppure pel pranzo. Ah!» Qui il dottore agitò le braccia come se la parola non bastasse più al racconto. «Confesso che due occhi simili non li ho mai visti. In un minuto secondo è cresciuta un palmo. Mi ha investito con una veemenza! Anzi, se debbo dire il vero, si è scagliata più contro di lei, signor commendatore, che contro di me, perché ha compreso subito, con l'acume de' monomaniaci, che dovevo aver parlato con Lei. Si vede ch'era in sospetto d'una opposizione. Ha detto che si vuole imporle, che non prende lezioni da nessuno, che le rincresce non aver invitate cinquanta persone; e via di questo passo con una irritazione che la soffocava, la faceva tremare come una foglia. Io cercavo di chetarla. Oh, sì, non era possibile, si adirava sempre più. Finalmente dovetti prometterle che tutto si sarebbe fatto secondo i suoi desideri e che anzi mi sarei fermato a pranzo anch'io; e credano, signori, bisogna finirla così. Non consiglierei a nessuno di contraddire una donna che esce da una crisi come quella di stanotte e offre indizi così minacciosi di ricadervi. Ecco.» «Dunque?» domandò il commendator Vezza. «Dunque io, per parte mia» rispose il dottore con fermezza «farei quello che desidera, benché non ci avrò davvero tutti i gusti.» «E se noi due ci astenessimo, Lei crede...» «Ma! Ripeto che non lo farei.» Il commendatore consultò Silla con gli occhi. «Quanto a me» disse questi «non c'interverrò in nessun caso. Si potrà dirle che non sentendomi bene non ho voglia di pranzare e che sono ancora occupato in queste lettere. Meglio ancora; potrò partir prima del pranzo. Del resto, dottore, supponga che donna Marina abbia subìto sino a stanotte l'influenza di una forte scossa morale, e che adesso, per una ragione o per l'altra, se ne sia liberata: non ammette Lei che dei nervi tanto turbati, quantunque rimessi a posto, vibrino ancora per un po' di tempo? Non ammette che, se la causa del male è distrutta, debba ritenersi improbabile una recidiva?» Il dottore considerò per qualche tempo Silla, prima di rispondere. «Badi, sa» diss'egli «che quand'anche la causa del male fosse distrutta, non ne discenderebbe mica che adesso si potesse impunemente irritare questa donna, i cui nervi, come dice Lei, vibrano ancora tutti: una donna, noti, molto mal disposta inizialmente se ha potuto accogliere certi fantasmi. Ma, domando io se n'è poi liberata?» «Parrebbe di sì» rispose Silla «o almeno c'è qualche ragione di sperarlo. Lei stessa lo dice, intanto.» «E io» replicò il medico «mi perdoni, ne dubito.» Gli altri due lo guardarono silenziosi, aspettando. «Stavo per lasciarla» diss'egli «ero già sulla soglia, quando mi richiamò "Dottore, venga qua." Me le avvicino, ella si scopre l'avambraccio sinistro, mi dice: "Vuol vedere delle ferite profonde?". Mi mostra due o tre punture di zanzara e soggiunge: "Si può morire di questo?". Io non capisco, eh; la guardo. "Non crede" dice lei "che un'anima possa passare di lì? Pure le assicuro" dice "che ha cominciato; un pensiero e un segreto ne sono già usciti." Così mi ha detto. Ma facciano grazia, signori, queste parole, nella loro assurdità, non generano il sospetto che sussista sempre la forte preoccupazione morale di cui parlava il signore? Del resto, a quella signora bisogna pensarci sul serio e subito. Qui non può stare.» «Provvederemo» rispose il Vezza. «Adesso Lei va dalla Giovanna?» «Vado dalla Giovanna.» «E ci rivedremo alle cinque?» «Alle cinque.» «Oh sì, ho un gran piacere che allora Lei si trovi qui.» «Io partirò alle cinque» disse Silla. Il commendatore parve poco contento. «A che ora» diss'egli «passa da... l'ultimo treno per Milano?» «Alle nove e mezzo.» «Oh, allora può partire anche dopo le sei. Così vede come va questo pranzo.» Il dottore uscì. Gli altri due sedettero al tavolo e ricominciarono a lavorare. Il vento durava a fischiare e urlare, le onde schiamazzavano intorno al Palazzo, selvaggi spettatori accorsi a un dramma che non cominciava mai, invasi dalle furie dell'impazienza. Era, intorno alle vecchie mura impassibili uno scatenamento di passioni feroci che volevano subito lo spettacolo, volevano veder soffrire, morire, se possibile, uno di questi piccoli re superbi della terra. Che si aspettava? Le onde schiaffeggiavano, insultavano l'edificio, balzavano sullo scoglio a piè della loggia, tempestavano su tutte le rive, si rizzavan lontano, le une dietro le altre, con un largo clamore di folla fremebonda. Il vento saltava a destra, a sinistra, in alto, in basso, impazzito, furioso, passava e ripassava per la loggia stridendo, ingiuriando gli attori invisibili. Anche i cipressi grandi dondolavan la punta, le viti stormivano, i gelsi e i miti ulivi sparsi pe' campicelli si contorcevano, si dimenavano, colti dalla stessa follìa. Le montagne guardavan là, severe. Ma la scena taceva sempre: i personaggi si tenevano ancora nascosti. Dopo le tre, infuriando sempre il vento, entrarono in loggia Fanny, il cameriere, il giardiniere e il Rico, si affacciarono alle arcate verso il lago, guardando un po' il cielo, un po' i monti, un po' le onde tumultuanti al basso, che urlavano "no, no, non voi!". Parvero consultarsi. Fanny uscì dalla porta di destra gittando col braccio sinistro una imprecazione al cielo ed alla terra; gli altri rimasero. Ella tornò subito, probabilmente con gli ordini della sua padrona, e i tre colleghi le si raccolsero attorno. Uscirono poi tutti insieme da sinistra e rientrarono con un gran tappeto scuro quasi nero, che stesero dalle tre arcate posteriori della loggia a tre delle cinque anteriori, lasciando scoperti a destra e a sinistra due spicchi di pavimento. Poi il giardiniere, aiutato da suo figlio e da due garzoni, portò su dal giardino, con due barelle, moltissimi vasi di camelie, d'azalee, di cinerarie e di calceolarie in fiore e quattro grandi dracene australes. Si portarono pure due gradinate rustiche di legno e si addossarono ai fianchi della loggia tra le due porte e la balaustrata posteriore. Fanny e il cameriere portarono tre piccoli tavoli, quattro poltrone cremisine e una elegantissima giardiniera di metallo dorato, dono giunto a Marina due settimane prima dalla signora Giulia De Bella. Poi donna Marina stessa, stretta nel suo scialletto bianco che le disegnava le forme, entrò lentamente, negligentemente in loggia, si fermò davanti all'arcata di mezzo e cominciò a dare degli ordini senza muovere un dito, indicando i luoghi e le cose col girar della persona e del viso. L'ombra della costa boscosa a ponente del Palazzo avanzava rapida verso levante. Il vento si rabboniva, le onde si azzittivano come se avessero visto Marina entrar in scena. Ella vi si trattenne fino a che fu bene avviata l'esecuzione de' suoi ordini, poi si ritirò accennando al Rico di seguirla. Una scena sontuosa, elegante apparve, a opera finita, dentro dalle colonne austere, dal cornicione accigliato della loggia. Agli angoli le dracene sprizzavan su come getti verdi dall'enormi azalee in fiore aggruppate a' lor piedi, spandevano in alto una piova di sottili foglie ondulate, ricadevano graziosamente. A destra e a sinistra le due gradinate gremite di cinerarie e di calceolarie versavano dall'alto due cascate di mille colori sul tappeto cupo. Sei grandi vasi di camelie, ritti sulla balaustrata posteriore, chiudevano il fondo della scena. Il meno piccino dei tavoli, con due posate, stava quasi addossato all'arco di mezzo; gli altri, a una posata per ciascuno, posti per isghembo a' lati del primo, si fronteggiavano. Tovaglie grigio giallognole di Fiandra li coprivano tutti e tre sino a terra, mettevano in quella nervosa musica di colori tre note quiete e gravi su cui si smorzavano anche i toni acuti dei cristalli e degli argenti. Sul davanti e nel mezzo, la giardiniera dorata di donna Giulia posava sul fondo scuro del tappeto una tenera nudità di giacinti delicati, spogli d'ogni verde, stretti nel baglior del metallo, che tentavano, come un dolce odoroso, il palato, promettendo squisitezze voluttuose, penetranti nel sangue. «Ai signori e ai matti obbedisce anche il vento» disse Fanny che aveva pensato veder tutto l'apparecchio sossopra in un attimo. Dopo le quattro e mezzo il commendatore e Silla entrarono in loggia dalla biblioteca; quasi contemporaneamente vi entrò dall'altra parte il medico. Tutti e tre si fermarono attoniti, considerando l'ordine elegante della scena, la pompa dei colori che spiccavano sul tappeto oscuro. «Tutto lei, capite!» disse il Vezza, ancora più sgomentato che sorpreso. Era lei, sì, che aveva disposto tutto e vi si vedeva l'immagine sua; un cuor nero, una fantasia accesa, una intelligenza scossa ma non caduta. «Io torno in biblioteca» disse Silla, «finisco quegl'indirizzi, poi me ne vado dalla scaletta.» «No, no, La prego!» esclamò il Vezza. «Se assolutamente non vuol pranzare con noi, almeno ci stia vicino. Io le assicuro che ho la febbre addosso. Avremo fatto male, dottore, a essere condiscendenti? Ho dovuto far avvertire i domestici, sa, ch'era ordine Suo di accontentare donna Marina. Per carità, Silla, stia vicino, stia lì nel salotto, almeno. Faccia questo favore a me.» «Bene» rispose Silla «mi porterò là da lavorare; ma si ricordi, appena finito il pranzo vado via.» Il dottore era agitatissimo, si giustificava del consiglio che aveva dato, adduceva una quantità di ragioni buone e cattive. Si capiva che dubitava egli stesso di avere sbagliato. «Non sapevo poi tutto, stamattina» diss'egli «non avevo parlato con la Giovanna.» Accennò agli altri due di avvicinarglisi. «Lo sanno Loro come la è stata del povero conte?» Sapevano e non sapevano. Il dialogo continuò sottovoce. Silla guardò l'orologio; mancava un quarto alle cinque. Andò in biblioteca a pigliarsi le carte e passò poi nel salotto a lavorare. Gli altri due, discorrendo, videro passare sotto la loggia il battello di casa condotto dal Rico. «Dove vai?» gli gridò il Vezza. «A R... Ordine della signora donna Marina» rispose quegli. «Doveva ben parlare con me, prima di obbedire a lei» brontolò il commendatore, e riprese il suo discorso. «Ecco» diss'egli «io lo avrei preparato così, il telegramma. Noti che la persona cui lo dirigo ha molto cuore e una coscienza scrupolosa, ma stenta un poco a muoversi, a pigliare risoluzioni gravi. Dunque direi così: "Per espresso volere medico curante, onde togliermi grandi responsabilità, avverto Lei più stretta parente signorina di Malombra sua salute esige pronto allontanamento questa dimora".» «Metta prontissimo» disse il dottore. «Metterò prontissimo.» «Metta anche...» Il dottore non poté compir la frase, perché donna Marina comparve sulla soglia. Vestiva un abito ordinato da lei alla sua antica sarta di Parigi che ne conosceva bene l'umor bizzarro, un ricco e strano abito di moire azzurro cupo, a lungo strascico, da cui le saliva sul fianco destro una grande cometa ricamata in argento. Sul davanti della vita accollata, attillatissima, era inserto un alto e stretto scudo di velluto nero arditamente traforato nel mezzo, in forma di giglio, sulla pelle bianca. Marina non era più così pallida; un lieve rossor febbrile le macchiava le guance; gli occhi brillavano come diamanti. «Musica!» diss'ella sorridendo e guardando il lago. «Quella che vuoi, lago mio! Non è vero, Vezza, che la musica è ipocrita come un vecchio ebreo e ci dice sempre quello che il nostro cuore desidera? Non è per questo che ha tanti amici?» «Marchesina» rispose quegli cercando di fare il disinvolto «fuori di noi non c'è musica, non c'è che un vento. Le corde sono dentro di noi e suonano secondo il tempo che vi fa.» «Da Lei ci deve far sempre sereno, eh? Un sereno cattolico: e queste onde Le dicono: come è dolce ridere, come si balla bene, qui! - Dov'è il signor Silla?» «Ecco...» incominciò il Vezza imbarazzato. «Partito no!» esclamò donna Marina fieramente, afferrandolo per un braccio e stringendoglielo forte. «No, no, no, è qui» rispose colui in fretta «ma debbo fare le sue scuse. Non si sente bene, non potrebbe pranzare; e siccome ha avuto la gentilezza di offrirmi il suo aiuto per alcune faccende urgenti, così adesso...» Ella non lo lasciò finire, gli chiese imperiosamente «Dov'è?» Le tremava la voce. «Ma» rispose il commendatore, titubante. «Non so... poco fa era in biblioteca...» «Vada e gli dica che lo aspettiamo.» «È nel salotto» disse il medico. «È occupato a scrivere. Accetti le sue scuse, marchesina, ne La prego.» Ella rifletté un istante e poi rispose con voce vibrata: «La Sua parola, ch'è nel salotto!» «La mia parola.» «Bene» diss'ella pacatamente «verrà più tardi senza esser chiamato. - Del resto, caro Vezza, da me ci fa nuvolo, un tempo triste. Dica Lei, dottore, non è una malattia la tristezza? Non abbassa la fiamma della vita? Ella mi darebbe dei cordiali se mi sentisse il sangue scorrer più lento; qualche sinistro alcool mascherato. Ma se io prendo invece gli spiriti vitali dei fiori, l'aria pura, la conversazione degli uomini sereni come il nostro amico Vezza, degli uomini esperti del dolore come Lei, chi vorrà censurarmi? Ecco sciolto, signori, l'enigma di questo pranzo, e pranziamo. Lei qua, Vezza, presso a me; e Lei, dottore, lì, alla mia destra.» Il pranzo incominciò. I commensali di donna Marina tacevano, gustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo che il pranzo finissimo, servito con eleganza squisita, tra i fiori, da una giovane e bella donna, gli fosse capitato in un momento disadatto e in circostanze tali da non poterlo affatto gustare né con il palato né con lo spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente: raccontar la scena nei salotti di Milano, con arte, a cuore placido. Si guardava cautamente attorno, imparava a memoria le dracene e le azalee, le cascate di cinerarie e di calceolarie, sbirciava il moire della sua vicina, e per quanto poteva, il giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatro, gli dicevano che lo spettacolo non era finito. Il dottore studiava continuamente Marina, temendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva pronto, spiava, senza parere, ogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l'importanza attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito. Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto di Marina, che dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto. «Che silenzio» diss'ella finalmente. «Mi par d'essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?» «Oh!» rispose il commendatore storditamente. «Lei farebbe risuscitare i morti.» Subito gli venne in mente l'uomo sfigurato che giaceva sotto un lenzuolo a pochi passi dalla loggia; gli corse un brivido nelle ossa. «Pure» replicò Marina «i miei ospiti sono lugubri come giudici infernali. Versatemi del Bordeaux» diss'ella al vecchio cameriere che serviva solo, più lugubre ancora dei convitati. «Anche a questi signori.» Il cameriere obbedì. Devoto al povero conte da lui servito per ventidue anni, gli pareva d'essere alla tortura. Versava con mano tremante, facendo tintinnare il collo della bottiglia sull'orlo dei calici. «Vi prego di assaggiar questo vino» disse Marina. «Pensatelo, adesso. Non vi trovate un lontano sapore d'Acheronte?» Il commendatore alzò il calice, lo sperò, vi posò ancora le labbra e disse: «Ha qualche cosa d'insolito.» «Supponga dunque, commendatore Radamanto» disse Marina con voce commossa, contraendo nervosamente gli angoli della bocca «che per certe mie ragioni io abbia pensato...» Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, porgendo le labbra, facendo con la mano l'atto di chi butta via sdegnosamente una cosa spregevole. «Sa» diss'ella «questa vita è così vile! Supponga dunque ch'io abbia pensato di aprir la porta e uscire quando muore il sole, in mezzo ai fiori, portando meco alcuni amici di spirito pel caso che il viaggio fosse troppo lungo. Supponga che in quel Bordeaux...» Il Vezza trasalì, guardò il cameriere ritto presso la porta di sinistra, impassibile. «Oh!» esclamò Marina «come mi crede subito!» Si fe' versare dell'altro vino e si recò il calice alla bocca. «Sapore insolito?» diss'ella. «Se è puro, questo Bordeaux, come un'Ave Maria! È stato uno scherzo di Proserpina. - Bevete» proseguì concitata «cavalieri dalla triste figura. Provvedetevi di cuore e di spirito» Il dottore non bevve. Sentiva venire una tempesta. Il Vezza si accostò invece al consiglio di donna Marina e vuotò il suo bicchiere. «Bravo!» diss'ella facendosi pallida. «Si ispiri per una risposta difficile.» «Di Proserpina in Sfinge, marchesina?» «In Sfinge, sì, e vicina a diventar di pietra o più fredda ancora! Ma che prima parlerà, dirà tutto. Dunque...» Ell'era andata diventando sempre più pallida. A questo punto un tremito di tutta la persona le spezzò la voce. I due uomini si alzarono in piedi. Ella strinse il coltello, ne ficcò rabbiosamente la punta nel tavolo. «Quieta, quieta» disse il medico pigliandole una mano gelata, piegandosi sopra di lei. Ella si era già vinta, respinse la mano del medico e si alzò. «Aria!» diss'ella. Passò con impeto fra il tavolo suo e quello del dottore, e si slanciò alla balaustrata verso il lago. Il dottore le fu addosso d'un salto per afferrarla, trattenerla. Ma ella si era già voltata e piantava in viso al Vezza due occhi scintillanti. «Dunque» esclamò affrettandosi di parlare, di far dimenticare un momento di debolezza «crede Lei che un'anima umana possa vivere sulla terra più di una volta?» E perché il Vezza, smarrito, sgomento, taceva, gli gridò: «Risponda!» «Ma no, ma no!» diss'egli. «Sì, invece! Lo può!» Nessuno fiatò. Il giardiniere, il cuoco, Fanny, avvertiti dal cameriere, salirono frettolosi le scale per venire ad origliare, a spiare. Il vento era caduto; le onde lente sussurravano a piè dei muri: "Udite! udite!". E nel silenzio vibrò da capo la voce di Marina. «Sessant'anni or sono, il padre di quel morto là» (ell'appuntò l'indice all'ala del Palazzo) «ha chiuso qui dentro come un lupo idrofobo la sua prima moglie, l'ha fatta morire fibra a fibra. Questa donna è tornata dal sepolcro a vendicarsi della maledetta razza che ha comandato qui fino a stanotte!» Teneva gli occhi fissi sulla porta a destra, ch'era aperta perché avean disposto la credenza nella sala vicina. «Marchesina!» le disse il dottore con accento di blando rimprovero. «Ma no! Perché dice queste cose?» In pari tempo le pigliò il braccio sinistro con la sua mano di ferro. «Là c'è gente!» gridò Marina. «Avanti, avanti tutti.» Fanny e gli altri fuggirono, per tornar poi subito in punta di piedi a spiare, nascondendosi da lei. Silla venne sulla porla del salotto. Di là non poteva veder Marina, ma la intendeva benissimo. Adesso diceva: «Avanti! egli non viene perché la sa la storia. Ma non la sa tutta, non la sa tutta; bisogna che gli racconti la fine. Tornata dal sepolcro, e questo è il mio banchetto di vittoria!» La voce, subitamente, le si affiochì. Ell'abbracciò la colonna presso cui stava, vi appoggiò la fronte scotendola con veemenza come se volesse cacciarvela dentro, mise un lungo gemito rauco, appassionato, da far gelare il sangue a chi l'udiva. «L'infermiera, la donna di stanotte!» disse forte il medico verso la porta, e si voltò poi a Marina, di cui teneva sempre il braccio. «Andiamo, marchesina» diss'egli dolcemente «ha ragione, ma sia buona, venga via, non dica queste cose che le fanno male.» Ell'alzò il viso, si ravviò con la destra i capelli arruffati sulla fronte, trapassando ancora con l'occhio avido la porta e la sala semioscura. Sul suo petto ansante il giglio scendeva e saliva, pareva lottar per aprirsi. La moglie del giardiniere si affacciò alla porta. Ella le accennò violentemente, con il braccio libero, di farsi da banda, e disse al medico parlando più con un gesto che con la voce: «Sì, andiamo via, andiamo nel salotto.» «E nella Sua camera non sarebbe meglio?» «No, no, nel salotto. Ma mi lasci!» Ella disse quest'ultime parole in atto così dignitoso e fiero che il dottore obbedì, e si accontentò di seguirla. A lui premeva sopra tutto, in quel momento, allontanarla dalla balaustrata. Marina s'incamminò lentamente, tenendo la mano destra nella tasca dell'abito. Il Vezza e il cameriere la guardarono passare, allibiti. Il dottore che la seguiva, si fermò un momento per dar un ordine all'infermiera. Intanto Marina arrivò alla porta. Fanny, il cuoco e il giardiniere s'erano tirati da banda per lasciarla passare senza esserne visti. In sala le imposte erano chiuse a mezzo e le tende calate. Silla stava sulla soglia del salotto. Vide Marina venire ed ebbe un momento d'incertezza. Non sapeva se farsi avanti o da parte o ritirarsi nel salotto. Ella fece due passi rapidi verso di lui, disse «Oh, buon viaggio» e alzò la mano destra. Un colpo di pistola brillò e tuonò. Silla cadde. Fanny scappò urlando, il dottore saltò in sala, gridò agli uomini - tenerla! - e si precipitò sul caduto. Il Vezza, il cameriere, l'altra donna corsero dentro gridando a veder chi fosse. Il giardiniere e il cuoco vociferavano, si eccitavano l'un l'altro a trattener Marina, che voltasi indietro, passò in mezzo a tutti, con la pistola fumante in pugno, senza che alcuno osasse toccarle un dito, attraversò la loggia, ne uscì per la porta opposta, la chiuse a chiave dietro di sé. Tutto questo accadde in meno di due minuti. Il giardiniere e il cameriere, vergognandosi di sé irruppero sulla porta, la sfondarono a colpi di spalla. Il corridoio era vuoto. Si fermarono incerti, aspettando un colpo, una palla nel petto, forse. «Avanti, vili!» urlò il dottore slanciandosi in mezzo ad essi. Si fermò nel corridoio, stette in orecchi. Nessun rumore. «Fermi lì, voi» diss'egli e saltò nella camera del conte. Vuota. Le candele vi ardevano quiete. Entrarono, egli nella camera da letto, gli altri due in quella dello stipo. Vuote. Il dottore si cacciò le mani nei capelli, esclamò rabbiosamente: «Maledetti vili!» «In biblioteca!» disse il giardiniere. Saltarono giù per le scale, il dottore primo. Toccato il corridoio, udì un urlìo, distinse la voce del commendatore che gridava: «La barca! la barca!» Corse in loggia, s'affacciò al lago. Marina, sola nella lancia, passava lì sotto, pigliava il lago piegando a levante. Sul sedile di poppa si vedeva la pistola. «Al battello!» disse il dottore. Il Vezza gli gridò dietro: «Per la scaletta segreta!» Scesero per la scaletta segreta. Il dottore cadde e ruzzolò sino al fondo; ma fu tosto in piedi, a tempo di udire una imprecazione del giardiniere che si fermò di botto sulla scala. «Il battello non c'è» diss'egli. «L'ha mandato via col Rico prima di pranzo.» «Sarà tornato!» disse il dottore e spinse palpitando l'uscio della darsena. Vuota. Le catene del battello e della lancia pendevano sull'acqua. Fu per stramazzare a terra. Lì vicino, lo sapeva bene, non vi erano altre barche. «Giardiniere!» diss'egli. «Al paese! Una barca e degli uomini.» Il giardiniere sparve per la porticina del cortile. «Dio, Dio, Dio!» esclamò il dottore alzando le braccia. Gli altri continuavano a gridare dalla loggia «Presto! Presto!» Ed ecco il giardiniere tornare di corsa. «Occorre anche il prete?» diss'egli. Il dottore gli mise i pugni al viso. «Stupido, non vedi che sono venuto via io?» Colui non capì bene, ma tornò via, e il dottore corse di sopra. Una finestra dell'ultimo piano si aperse, una voce debole domandò: «Cosa c'è? Cos'è accaduto?» Era la Giovanna. Qualcuno rispose dal cortile: «È succeduto che hanno ammazzato il signor Silla.» «Oh Madonna Santa!» diss'ella. Si udì il giardiniere gridare da lontano. Altre voci gli rispondevano. Il passo d'un contadino che scendeva a salti suonò sulla scalinata; lo seguì un altro. Venivan curiosi, avvertiti da una scintilla elettrica. Il padrone era morto; entrarono in casa arditamente. De' ragazzi passarono il cancello del cortile, scivolarono in casa essi pure, saliron le scale. Volevano entrare nel salotto, sapevano che l'uomo era là. Ne uscì il dottore entratovi un momento prima. «Via» diss'egli con voce terribile. I ragazzi fuggirono. Quegli parlò a qualcuno ch'era rimasto dentro. «Fino a che non venga il pretore, nessuno!» Poi chiuse l'uscio. Il Vezza e gli altri si strinsero attorno affannati. «Euh?» diss'egli. «Non ve l'ho detto prima? Passato il cuore.» Una finestra della sala era stata spalancata. Egli vi accorse e dietro a lui, in silenzio angoscioso, tutti: il Vezza, la gente di servizio, i due contadini. Fu aperta anche l'altra finestra. Saetta era già lontana a capo d'una lunga scia obliqua sul lago quasi tranquillo. Marina si vedeva bene, si vedeva l'interrotto luccicar dei remi. Il Vezza, ch'era miope, disse: «È ferma.» Intatti non pareva avanzasse. «No, no» risposero gli altri. Uno dei contadini, soldato in congedo, ch'era salito sopra una sedia per veder meglio, disse: «Con una carabina la butterei giù.» Fanny andò via singhiozzando, poi tornò a guardare. «Ma, per Dio, dove va?» esclamò il dottore. Nessuno rispose. Un minuto dopo, il contadino ch'era in piedi sulla sedia, disse: «Va in Val Malombra. È dritta in mira alla valle.» Fanny ricominciò a strillare. Il dottore l'abbrancò per un braccio, la trascinò via e le impose di star zitta. «Perché in Val Malombra?» diss'egli. «C'è un sentiero che passa la montagna» rispose l'altro «e mena poi giù sulla strada grossa.» «Non si può prenderlo quel sentiero dalla riva di Val Malombra» osservò il secondo contadino. «Si può sì. Basta andar su al Pozzo dell'Acquafonda. È un affare di cinque minuti.» «Eccoli!» gridò la moglie del giardiniere. Un battello a quattro remi usciva rapidamente dal seno di R... per gettarsi di fianco sulla lancia. Il dottore si accostò le palme alla bocca, urlò a quella volta: «Presto!» «La prenderanno?» chiese il commendatore. «In acqua, no» si rispose. «La lancia in quattro colpi è a terra: per quelli là ci vogliono dieci minuti.» Saetta si avvicinava al piccolo golfo scuro di Val Malombra. Il battello era in faccia al Palazzo. Ad un tratto due uomini lasciarono i remi e saltarono di prora gridando, non s'intendeva che. «Una barca!» esclamò il dottore. «Ferma!» urlò con quanto fiato aveva. «Ferma la lancia!» Poi si volse ai due contadini. «È il pretore. In fondo al giardino voialtri! E gridate!» Urlò ancora, spiccando le sillabe: «Assassinio! Ferma la lancia!» Infatti un'altra barca veniva da levante verso il Palazzo, passava allora a un tiro di fucile da Saetta. Malgrado il vociar disperato dal battello e dal Palazzo, quella barca seguiva sempre, tranquillamente, la sua via. «Non sentono» disse il dottore. «Gridate tutti, per Dio!» Egli stesso fece uno sforzo supremo. Il Vezza, i domestici, le donne gridarono con voce strozzata, impotente: «Ferma la lancia!» La barca veniva sempre avanti. Saetta scomparve. 7. Finalmente amato Un'ombra nera comparve sulla porta aperta del salotto di don Innocenzo, nascondendo il cielo stellato; una voce disse: «Niente.» Il curato non la riconobbe, alzò il paralume della lucerna. «Ah! Niente?» diss'egli. «Niente?» ripeté Steinegge. Si alzarono ambedue in fretta, si accostarono al nuovo venuto. «C'erano sei uomini» disse costui, il sindaco, con la sua soffice e solida placidità lombarda. «Quattro guardie nazionali e due carabinieri. Han girato tutto il bosco. Già, se ci fosse stata, l'avrebbero trovata anche i primi quattro del battello che sono arrivati a terra un dieci o dodici minuti dopo di lei. È bell'e da vedere dov'è quella lì.» Steinegge gli accennò, con una faccia supplichevole, di tacere, di uscire. Il sindaco non capiva, ma seguì nell'orto gli altri due che, fuori, gli sussurravano una parola. «Ah!» diss'egli. Non aveva veduto nel salotto un'altra persona seduta in un angolo tra il canapè e la parete. Ella non aveva dato segno di vita all'apparir del sindaco né durante il suo discorso, ma si alzò poi che il salotto rimase vuoto e venne sulla porta dell'orto dove il lume della modesta lucernetta moriva nelle grandi ombre chiare della notte serena senza luna. «C'è chi vuol sostenere» diceva il sindaco dilungandosi con il curato e Steinegge verso il cancello «che abbia preso i monti. Ma s'immagini un po' una donna come quella se vuol prendere i monti! Per andar dove, poi? Io non ci metto nessun dubbio. Lei, è giù, quieta come un olio, nel Pozzo dell'Acquafonda, sa bene, quel buco che c'è là in Val Malombra.» Edith non poté udire altro, perché coloro svoltarono il canto della casa e in cucina c'era crocchio, si parlava forte. Ell'andò a sedere sul muricciuolo in faccia alla porticina chiara che gittava tante chiacchiere nella notte solenne. Erano tutte donne là in cucina, vecchie comari linguacciute, amiche di Marta. «Maledette zucche» diceva una voce rude, soverchiando le altre «non capite che la è sempre stata matta, peggio, quasi, di quella d'una volta? Lui era il suo amoroso, che anche l'estate passato, quando fu qui, si trovarono insieme di notte fuori di casa, e questo lo ha raccontato anche il pitòr se vi ricordate bene. Adesso lui voleva piantarla e lei non ha detto né uno né due, e ha fatto il colpo. Eh! Ce ne sono bene tutti i giorni, sulle gazzette di quei fatti lì!» «Oh anima!» disse un'altra comare. «E come faceva ad averci le pistole?» «Ce l'ha sempre avute le pistole. Almeno questo agosto ce le aveva di sicuro, perché il giardiniere lo raccontava che la sua padroncina si divertiva a sparare addosso alle statue.» «E il signor dottore» saltò su una terza «dice che aveva paura che la si volesse ammazzar lei; ma che non ci è mai venuto in mente che volesse ammazzar quell'altro.» «Non avrà saputo bene la storia. Sì che si voleva ammazzare quella lì! Dicono ch'è giù nel Pozzo dell'Acquafonda. Credeteci voialtre. So anch'io che non l'hanno trovata. Una gamba di quella sorta! L'ho incontrata io due o tre volte su per i boschi. Bisognava vedere che demonio! Chi sa dove l'è a quest'ora. Guardate, se ha incontrato quella compagnia di zingari che c'è intorno, non mi stupirei niente che si fosse messa con loro. E non son mica io sola che la pensi così.» Le altre non credevano, dicevano che bisognerebbe scandagliare il Pozzo dell'Acquafonda. Ma questo non era possibile per la profondità grande e perché il Pozzo era tutto a gomiti. Intanto il sindaco, il curato e Steinegge ritornarono, sempre discorrendo, sui propri passi. Essi dovettero vedere bene Edith sul muricciuolo, perché dalla porta della cucina un poco di chiarore giungeva sino a lei. «Credano pure» diceva il sindaco «qui la è una voce sola: se lei era matta, lui era un poco di buono anche lui. Perché già è stata una gran figura quella di venir qua a far l'amore con la signora donna Marina intanto che il povero signor conte era in punto di morte, e proprio quando lei doveva sposarsi con un altro. Ci pare? Diceva giusto il pretore stasera che la ci sta bene d'aver fatto quella fine.» Steinegge avea visto Edith, ma pensò che fosse meglio per lei udire queste cose, poiché il curato gli aveva fatto sperare che non si trattasse di una passione profonda. «Mi sono ingannato anch'io» diss'egli «ed era facile ingannarsi su quest'uomo, perché era simpatico, assai simpatico. Io credo che era infinitamente meglio in parole che in fatti. Non ha mai avuto sentimento vero né per la marchesina di Malombra né per altra persona, io direi. Vedete, ho conosciuto molti di questi letterati. Sono tutti così. Sentono l'amore ora qui ora lì come un male nervoso che non è mai serio. L'altro giorno è corso al Palazzo, oggi andava via, chi sa domani dove si sarebbe attaccato!» «Bene» disse don Innocenzo «parce sepulto.» «E ha sentito della lettera?» disse il sindaco. «No. Che lettera?» «Questo è il bello. Quel signor commendatore ha come frugato nella roba del signor Silla e ci ha trovato dentro una lettera incominciata. Non c'è su nomi, non c'è su che "caro zio" e poi una pagina di scritto che somiglia a un testamento. Pare proprio che sapesse di esser vicino a fare la fine che ha fatta. Come la spiegano loro?» «Lo avrà minacciato di ammazzarlo» disse don Innocenzo. «Gran brutte cose» concluse il sindaco «gran brutti pasticci! Anche viver da galantuomini è una bella roba, non è vero, signor curato? Di quegli affari lì non ne capitano.» «Non giudichiamo nessuno» rispose il curato. Dopo un breve silenzio il sindaco tolse congedo. Gli altri due lo accompagnarono sino al cancello. Quando egli si fu allontanato, Steinegge cinse col braccio la vita di don Innocenzo, gli posò la fronte sopra una spalla. «Povera Edith, povera Edith» diss'egli. «Non tema, è forte la Sua Edith, e ha poi in sé un'altra forza che vince tutto, anche la morte.» «Sì, ma soffrirà, soffrirà! Non Le pareva però che gli fosse molto attaccata, non è vero? Me lo ha già detto, ma me lo dica ancora, mi dica proprio sinceramente quel che pare a Lei.» Era scuro, per fortuna, e Steinegge non poteva vedere sul viso sincero di don Innocenzo i suoi veri convincimenti, il dolore d'aver incoraggiato esso pure l'affetto di Edith per quell'infelice. «Mi pare di no» rispose strascicando le parole. «Spero di no. Era una conoscenza molto recente. Spero che potrà dimenticare presto ogni cosa come un brutto sogno. Ha pensato bene Lei, di partire domattina. Me ne dispiace, ma è necessario. Là a Milano bisogna non parlarne più, mai più. E adesso zitto.» Si avvicinarono a Edith camminando adagio, senza parlare. Quando arrivarono a lei, ella si alzò, si unì ad essi. Tornarono insieme, lungo il muricciuolo, sino in faccia alla porta del salotto. Steinegge piegò a quella volta, Edith sedette sul muricciuolo. «Ah» diss'egli fermandosi «io credeva...» «Non qui, papà?» «Mi pare che per te fosse meglio entrare.» Ella si alzò, abbracciò silenziosamente suo padre e rientrò in salotto con lui, andò a sedere nell'angolo di prima. Steinegge e il curato sedettero anch'essi muti, guardando oscillar l'ombra intorno al piedestallo della lucerna. Le voci della cucina si spensero. Una dopo l'altra le amiche di Marta passarono nell'orto, come ombre di lanterna magica, davanti al salotto, sussurrandovi dentro un riverisco. Si udì il canto dei grilli e delle rane giù per le bassure dei prati. «A che ora gli hai detto, papà, al vetturino?» chiese Edith. «Alle cinque e mezzo, cara, per il treno delle otto e mezzo.» «E adesso che ore sono?» «Le dieci.» Non parlarono più. Un quarto d'ora dopo entrò Marta per vedere se vi fossero disposizioni di andare a letto. Guardò un momento, esitante, il suo padrone e si ritirò in punta di piedi come sarebbe uscita di chiesa in un momento solenne. Poco dopo rimise dentro la testa e domandò se doveva chiudere le imposte. «No no» rispose Edith. «Non è un poco umido?» disse Steinegge volgendosi a don Innocenzo. «Oh no, a quest'altezza no» rispose il curato. Ma Edith, si curava ella se fosse o non fosse umido? Per quella porta si vedeva un arco di cielo azzurro, tutto occhi scintillanti. Stelle, soggiorno di pace, come siete lontane, dolcezza e speranza nostra! Come si sente, guardandovi quando il cuore è puro, la piccina vanità odiosa di tante cose che paiono grandi al sole, la bellezza sublime della morte! Indefinita via delle anime che salgono eternamente di vita in vita, di splendore in splendore, come si sospira, nella tristezza, che la notte veridica tolga via dagli occhi nostri il chiarore cieco che nasconde te e le tue case lucenti! Allora lo spirito vien meno di desiderio, si figura essere atteso lassù, esser compianto, esser guardato con dolcezza grave da gente che ci ama, conosce il mistero che ci condanna qui al dolore, conosce i nostri pensieri e vede i nostri errori tacendo, perché un'alta potenza inflessibile lo vuole. Marta girava per la cucina, sprangava gli usci, tossiva, preparava i lumi, battendoli sulla tavola. Allora Edith ruppe il silenzio. «Sarai stanco, papà» diss'ella «e domani devi svegliarti per tempo.» Steinegge fu lievemente commosso di udir così calma la dolce voce. «Io credo che andrò a letto, sì» diss'egli. «Domattina prima di partire debbo stare anche un poco qui col signor curato.» Questi chiamò Marta, le disse di portare un lume e di porre le chiavi della chiesa in salotto, sul tavolo, prima di andare a coricarsi. Edith non si moveva. «E tu» disse Steinegge «non vieni?» Ella rispose che non aveva sonno, lo pregò di lasciarla ancora un pochino con don Innocenzo, per quest'ultima sera. Suo padre si dolse affettuosamente che lo mandasse a letto lui. «Ma tu ne hai bisogno» diss'ella. Lo abbracciò, gli sussurrò all'orecchio un saluto commosso. Egli balbettò poche parole incomprensibili, prese il lume e salì le scale come se andasse, colla sciabola in pugno, al nemico. Marta recò un altro lume pel suo padrone; ma don Innocenzo, a un cenno di Edith, congedò la domestica, le disse di andare pure a letto. Appena si dileguò su per le scale il rumore de' passi di costei, Edith giunse le mani e guardò il curato. «Dio L'ha esaudita» diss'egli. «Ha accettato il suo sacrificio.» Ella lo guardava sempre, a mani giunte, e non parlava; ma le si vedevano lagrime negli occhi. Don Innocenzo, guadagnato, oppresso da quel dolore intenso, tacque. Edith piegò la fronte sul braccio del canapè e disse piano, con voce soffocata: «Non poterlo difendere!» Riprese dopo un momento di silenzio. «Anche mio padre! Tanto ingiusto!» «Ma no, ingiusto» si provò a dire don Innocenzo. Ella alzò una mano senza rispondere, indi la posò sul legno, lo strinse nervosamente, mordendosi le labbra e, vinto il singhiozzo che l'assaliva, disse: «Venga qua.» Il curato, stretto egli pure alla gola dall'emozione, sedette sul canapè, vicino a lei. «Vengo» diss'egli «ma non parliamo di questo, parliamo dell'altra buona notizia che Suo padre Le ha dato e che ha dato anche a me. Tutto il resto è stato un cattivo sogno di cui non abbiamo colpa; dimentichiamolo.» «No» rispose Edith con passione «non me l'ha detto Lei ieri sera che dovevo portarlo nel cuore? E adesso che tutti lo accusano, lo insultano, ed egli non può dire una sola parola di difesa, avendone tante, io, don Innocenzo, lo dimenticherò, lo abbandonerò anche col pensiero? Mai fin che avrò vita, e spero che lo potrà sapere nel mondo più giusto in cui si trova. Lui senza sentimento? Ascolti.» Il curato piegò il fianco e il capo verso di lei che sempre china sul braccio del canapè, parlava con un fil di voce. «Vorrei che lo avesse conosciuto come l'ho conosciuto io. Aveva un sentimento vero, sa, più delicato di quello di una donna. Ed è stata la sua sventura, perché così non poteva riuscire nel mondo né intendersi con la gente solita. E si è chiuso in sé, nelle sue amarezze. Quando poi gli è mancato un ultimo appoggio, è caduto. Io credo che avesse religione: ho inteso da lui discorsi pieni di sentimento religioso. Quando parlava di Dio e dello spirito, si esaltava. Aveva capito, egli, i miei segreti pensieri circa mio padre e li approvava nel suo cuore. Me ne sono accorta un giorno dal modo che mi guardò incontrandoci mentre uscivamo dal Duomo, mio padre ed io. Veniva da noi quasi tutti i giorni e non ho mai udita una parola che fosse da riprendere. Era scrupoloso in questo. Noi in Germania non siamo educate come le giovani italiane e conosciamo più il mondo: ma egli aveva un tal rispetto per me, una tal prudenza in tutti i suoi discorsi, come se io fossi una bambina di dieci anni. Anche nella sera al passeggio mi parlò con effusione di cuore, senza una parola sola diretta che potesse turbarmi e farmi arrossire. E adesso sentir quel sindaco fare quei discorsi orribili!» «No... non mi pare...» balbettò don Innocenzo. «Ho udito tutto, tutto, signor curato. Io sono sicura che se egli è ritornato al Palazzo, vi fu richiamato da lei, chi sa in che modo, con quali istanze! Mi ricordo troppo i discorsi che mi ha fatto andando all'Orrido. Le dico che sono sicura come se avessi veduta la lettera o il telegramma. E lui allora era negletto o respinto da tutti. Chi sa, chi sa, don Innocenzo, che cattivi pensieri avrà avuto, povero giovane, vedendosi trattar così bruscamente da me, con tutti i miei principii religiosi! Lui che domandava aiuto per non affondare! Potevo ben fare diversamente, esser sincera, parlargli allora come gli ho scritto dopo; ma ho creduto...» Non poté continuare. «No, signora Edith» rispose don Innocenzo «non bisogna mettersi in mente queste cose. Come poteva Ella prevedere un caso simile? Volendo compiere un sacrificio tanto nobile, si è comportata nel modo più saggio, con lo scopo di non favorire illusioni, di lasciare il giovane interamente libero. La sua coscienza è purissima e dev'essere tranquilla.» Dopo qualche tempo Edith levò il viso. «E non esser qui domani!» diss'ella. «È meglio, creda. Non potrebbe dissimulare con suo padre: e chi sa quanto soffrirebbe di vederla così.» «Almeno» sussurrò Edith «guardi che qualche pietosa creatura lo segua anche lui. Preghi anche dopo» soggiunse «e faccia pregare.» Don Innocenzo glielo promise, ma ella non era contenta ancora, aveva qualche penosa parola da aggiungere. «Hanno scritto a' suoi parenti?» «Non lo so.» «Già non lo amavano neppur essi. Vorrei pensare io per una memoria, come posso. Bisognerebbe che mi aiutasse Lei perché nessuno ha da saper niente e mio padre meno di tutti.» Don Innocenzo le prese una mano, gliela strinse silenziosamente. «Le manderò un piccolo disegno da Milano» disse ella. «Per questa cosa Lei mi scriverà ferma in posta.» «Farò tutto» rispose il prete «come per un fratello.» L'olio della lucerna veniva meno, la notte entrava nella camera. Don Innocenzo si alzò. «Adesso vada a riposare» diss'egli. Ma Edith chiese di aspettare un poco onde ricomporsi pel caso che suo padre non dormisse ancora e la chiamasse. «Guardi» disse affacciandosi alla soglia «che pace!» S'appoggiò allo stipite contemplando il cielo che si veniva coprendo di nubi. Però molte stelle scintillavano ancora in mezzo a grandi finestre azzurre. L'orologio della chiesa suonò le undici. «Un'ora» disse Edith «e poi è finito anche questo giorno. Mi pare che domani il sole nascerà di un altro colore e che lo vedrò poi sempre così. Quanti anni ancora?» «Oh molti, molti. Glielo auguro con tutto il cuore.» «Non so. Penso a mia madre.» «Perché a Sua madre?» Edith non rispose, prese un bastone ch'era lì fuori appoggiato al muro e tracciò con la punta dei segni sulla ghiaia. «Cosa fa?» chiese il curato. «Nulla» diss'ella e colla punta stessa diede di frego a quei segni. La finestra di suo padre fu aperta in quel momento. Lo si udì esclamare: «Cosa è questo? Ancora alzati?...» «Ancora, papà. Non senti che notte dolce? Non abbiamo sonno.» «Si fa scuro verso i monti, eh? Io ho paura che avremo acqua domattina. Sai, Edith, ho pensato che a Milano bisogna ricordarsi della lezione in casa Pedulli-Ripa poiché siamo partiti senza avvertire la signora.» «Sì, papà.» «Sarebbe bene anche andare dalla signora M..., che riceve domani.» «Volentieri, papà.» «Scusa, avresti per caso veduto il mio bastone?» «È qui.» «Vuoi essere così buona di portarmelo su per unirlo all'ombrello e di portarmi anche il portasigari che ho dimenticato in salotto?» «Vengo subito, papà.» Ella entrò nel salotto e fece a don Innocenzo un saluto silenzioso con la mano. Quegli raccolse il portasigari lasciato da Steinegge sopra una sedia e lo porse a lei che, conoscendone l'origine, lo prese senza guardarlo. Il curato, rimasto solo, pensò: "Cos'avrà scritto?" Spense la lucerna, aspettò che Steinegge chiudesse la finestra e che tacessero i passi sul soffitto del salotto; quindi tolse il suo lumicino, andò fuori e si curvò, inchinandolo sulla ghiaia a guardare. Certo era stata tracciata una parola nella ghiaia, ma non si poteva decifrarla perché la prima metà n'era cancellata. Ne rimanevano intatte le quattro ultime lettere, rigide lettere straniere che il curato, dopo molto studio, lesse così: ...mweh. Il resto era illeggibile. «Weh deve significare male in tedesco» disse tra se don Innocenzo. «Ma l'm?» Finì di cancellare la parola e rientrò, pensoso, in salotto. Intanto nell'ombre sinistre del Palazzo, l'angelo del Guercino pregava senza posa per l'uomo gettato d'un colpo, a tradimento. nell'eternità. La sua vita era stata breve, povera di opere, macchiata di molte segrete miserie e, sulla fine, di errori già misurati dal duro giudizio umano. Tuttavia, egli aveva sostenute virilmente le battaglie dello spirito, cadendo a ogni tratto, ma rialzandosi, ferito, per combattere ancora; aveva amato sino alla febbre e alle lagrime divini fantasmi che non ha la terra, ideali di una vita sublime che intravvedeva, tribolato e solo, nel futuro; era passato più volte con amaro cuore ma con fermo viso tra la noncuranza degli uomini e il silenzio di Dio, sentendosi sulla testa l'om
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