Home Page  
Progetto Editoriale  
Poesia  
Narrativa  
Cerca  
Enciclopedia Autori  
Notizie  
Opere pubblicate: 19994

-



VII PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE AL FEMMINILE

MARIA CUMANI QUASIMODO

SCADENZA
28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

Il libro più amato da chi scrive poesie,
una bussola per un cammino più consapevole.
Riceverai una copia autografata del Maestro Aletti
Con una sua riflessione.

Tutti quelli che scrivono
dovrebbero averne una copia sulla scrivania.

Un vademecum sulle buone pratiche della Scrittura.

Un successo straordinario,
tre ristampe nelle prime due settimane dall'uscita.


Il libro è stato già al terzo posto nella classifica di
Amazon
e al secondo posto nella classifica di Ibs

Se non hai Amazon o Ibs scrivi ad:

amministrazione@alettieditore.it

indicando nell'oggetto
"ordine libro da una feritoia osservo parole"

Riceverai tutte le istruzioni per averlo direttamente a casa.



Clicca qui per ordinarlo su Amazon

oppure

Clicca qui per ordinarlo su Ibs

****

TUTTO QUELLO CHE HAI SEMPRE VOLUTO
PER I TUOI TESTI

vai a vedere quello che ha da dirti Alessandro Quasimodo
clicca sull'immagine

Le opere più interessanti riceveranno una proposta di edizione per l’inserimento nella prestigiosa Collana I DIAMANTI
Servizi prestigiosi che solo la Aletti può garantire, la casa editrice indipendente più innovativa e dinamica del panorama culturale ed editoriale italiano


 
Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

MALOMBRA (IV Parte ) Malombra - 3

di Antonio Fogazzaro

5. Inetto a vivere

L'alba nasceva sopra i grandi sassi malinconici dell'Alpe dei Fiori, circonfusi da ondate di nebbia; scopriva le alte cime grigie, sonnolente nei loro umidi mantelli di boschi, le ultime colline di ponente sfumate in un chiaror di piova, il lago plumbeo. Lì sul lago non pioveva ancora. Non si moveva fronda de' fichi, de' gelsi, degli olivi pendenti dai campicelli delle rive sull'acqua morta; le loro immagini e quelle dei muriccioli, delle rade casupole, dei sassi cespugliosi vi tacevano ferme, intere. Ma da ponente la piova veniva avanti come una vela obliqua dal cielo alla terra, sempre più grande. I pioppi delle praterie la sentivano vicina, ne avevano i brividi. Anche il lago cominciava laggiù a fremere, a picchiettarsi di brevi macchie scure. Queste corsero avanti spandendosi rapidamente, si confusero in una sola striscia rugosa, in una fila di ondicine tremole che si spiegavano a ventaglio, silenziose nell'alto, bisbigliando lungo le sponde. E in queste sponde solitarie, nel lago stesso diviso più che mai dal mondo, diviso, parea per sempre, dal sole, era un arcano raccoglimento pieno di pensieri gravi, d'intimi colloqui sommessi, una quiete di chiostro in cui l'aria e le pietre parlano di alti misteri e di occulte passioni.
Le colline sparvero del tutto dietro il bianco velo della piova su cui si disegnavano neri i pioppi delle praterie, che uno dopo l'altro, da' più lontani a' più vicini, diventavan grigi essi pure, si dileguavano come fantasmi fugati dal giorno. Intanto le ondicine venivano avanti, sempre avanti, movevano in file serrate al Palazzo. E vennero a battere gorgogliando le mura, entrarono a sussurrare curiose nella darsena. Nessuna voce rispose loro. L'ala di ponente aveva tutte le finestre chiuse, ma l'altra le aveva in gran parte spalancate. Pure nemmeno da questa veniva voce né segno alcuno di vita, benché vi parlasse un disordine di letti sfatti, di cassetti aperti, di sedie scioccamente ritte in mezzo alle stanze; benché vi apparisse, a una finestra del secondo piano, una figura umana pietrificata, più pallida di quell'alba.
Appena lasciato il Vezza che gli aveva partecipate certe disposizioni del conte, Silla era venuto a cadere sul davanzale della finestra. Sapeva ora che Marina non era nemmeno nominata nel testamento e che a lui il conte aveva legate le suppellettili appartenute a sua madre, una cassetta di lettere e diecimila lire a titolo di compenso per il lavoro scientifico incominciato l'anno precedente e da proseguire come e quando Silla crederebbe meglio. Ma egli non pensava a questo; guardava venire avanti lentamente il giorno, la piova, le onde. Gli occhi vedevano male: si sentiva la testa grave più del piombo, il petto voto d'ogni sentimento. Si conosceva affondato nel disonore della sua azione sleale, in una cupa necessità: legarsi a Marina, pazza o no. Ed era tranquillo, freddo sino al cuore. Il cielo, il lago, la piova vicina gli consigliavano sonno. Chiuse la finestra, si gittò vestito sul letto. Lo trovò soffice, morbido più che mai, sentì dolce come una carezza la tela del guanciale, desiderò dormire, dimenticare; si assopì e vide uno sconosciuto che lo guardava.
Lo guardava placidamente, per qualche tempo; quindi alzando le spalle e le sopracciglia, porgendo le mani aperte, scoteva il capo quasi per dire: non c'è verso. Silla credette capire, come a cosa più naturale del mondo, che colui gesticolava sì, ma non poteva parlare perché era morto. Allora lo riconobbe tosto per un vecchio amico di famiglia suicidatosi quindici anni prima. Ne riconobbe la gran fronte calva, il mento raso, aguzzo fra due solini diritti, sopra una cravatta nera con la spilla di malachite. Meravigliò in pari tempo di non averlo riconosciuto subito; dovea saperlo che sarebbe venuto. Infatti il fantasma, leggendogli nel pensiero, gli sorrise. Quel sorriso fu per Silla un'altra rivelazione. Vide in se stesso tutta la occulta via di un pensiero, dai giorni dell'adolescenza sino a quel momento. Aveva cominciato da una dolce malinconia, dal desiderio vago di una patria lontana: era diventato poscia presentimento fugace, quindi sospetto sempre combattuto, sempre più gagliardo, sempre coperto di segreto come qualche lento male orribile che ci rode, di cui si vede il nome col pensiero e non vogliamo confessarlo mai; prevaleva finalmente, alla volontà, diventava un ragionamento irrefutabile, una sentenza opprimente in tre parole: INETTO A VIVERE. Silla se le vedeva dentro chiare queste tre parole, e il fantasma sorrideva sempre, si avvicinava, gli procedeva pesante su per la persona, con gli occhi sbarrati, mettendogli un gelo nelle ossa, fermandogli il respiro. Quando giunse al cuore, Silla non vide né intese più nulla.
Gli parve svegliarsi solo, provare una dolcezza infinita e dire fra sé "adesso non sogno". Era in un altro mondo, quasi senza luce, tutto silenzio e riposo. Guardava, steso bocconi, in un'acqua immobile, vedeva passarvi dentro lentamente la immagine di un globo alto nel cielo, color d'alba piovosa: e ripeteva seco stesso: "Eccolo, ne son fuori, son pur fuori di un gran mondo tristo". Era una consolazione profonda e tenera la sua,come si prova in un sogno d'amore. Ma gli parve a un tratto che quel globo color d'alba piovosa non procedesse più pel suo cammino, si avvide che ingrandiva rapidamente, smisuratamente: colto da indicibile terrore, si svegliò.
Si vide davanti, per la finestra aperta, un largo chiarore bianco, alzò la testa inorridito, sognando ancora. Quando, raccapezzatosi, si rizzò a sedere sul letto, sentì, poco a poco, che il cuore gli doleva, la testa pesava tuttavia come il piombo, le membra erano tutte intirizzite dalla fredda aria umida della finestra; e disse a mezza voce rispondendo al proprio sogno: "È vero, morire, non c'è altro; dormire ancora. Dormire, dormire". Sopra il capezzale l'angelo appassionato del Guercino pregava per lui con ardor veemente, gridava a Dio: "Chi lo ha gittato sulla terra? Chi gli negò il sospiro dell'anima sua? Chi lo mise inconscio, lo trattenne, lo ricondusse sulla via di quest'ora angosciosa?".
Silla si guardò involontariamente nello specchio scuro di fronte al letto. Vide appena un viso pallido, due occhi spenti. Pensò che pareva già morto e ch'era stato così pallido altre volte dopo un'ebbrezza tetra di sensi, nel doloroso sdegno dell'anima. Ora non v'era più sdegno in lui né forza alcuna; lo stesso proposito di morire che lo invadeva era come un infiacchimento, uno sfacelo dello spirito. Scese dal letto, andò barcollando a sedersi al tavolo, si appoggiò i gomiti, reggendosi con le mani il capo addolorato pieno di confusione. Comprendeva in nube, che bisognava pure scrivere qualche cosa a' suoi parenti, alla sua padrona di casa, e non se ne sentiva la forza. Lottò ad occhi chiusi per raccogliere le idee, ne represse con violenza il disordine, stese la mano alla penna e solo allora vide la lettera portata su da Rico. La guardò, non ne riconobbe il carattere, la depose senza aprirla e cominciò a scrivere al cav. Pernetti Anzati, suo zio, invitandolo a sospendere l'invio dei soliti interessi, poiché lui, Silla, era fortunatamente in grado di far dono del capitale alla famiglia Pernetti, statagli tanto amorosa. Prima di voltar pagina riprese quella lettera e l'aperse.
V'erano scritte queste poche linee senza intestazione e senza data:
"Edith S. risponde allo scrittore oscuro ch'egli può diventare grande e forte, contro la fortuna, malgrado l'ingiustizia degli uomini. Edith ha promesso non appartenere ad altri che al suo vecchio padre, il quale ha gran bisogno di lei; ma è libera di portare nell'intimo del suo cuore un nome che le è caro, un'anima che non affonderà mai se ama come lo dice."
Silla sorrise. "Adesso, adesso!" diss'egli. Rilesse il biglietto e si sentì morire.
Trasse il portafogli per chiudervelo, stette sospeso, considerando i caratteri netti e slanciati, pensando alla mano, alla mente pura; e pentitosi della prima idea, compreso della propria indegnità, ripose il portafogli, accese una candela, vi arse lo scritto, ne sparse dalla finestra i brandellini neri al vento e alla pioggia. Mentre li guardava svolazzar via lungo la muraglia, un domestico entrò a dirgli che commendatore gli voleva parlare e lo attendeva nella sua camera. Silla ripose la lettera incominciata, e uscì come stava, con i capelli arruffati, con le vesti in disordine. L'orologio della scala suonò, mentr'egli passava, le nove.
«Qui» disse il commendatore «una sorpresa non aspetta l'altra.»
Silla non fece domande: attendeva che colui parlasse, che anche questa noia fosse passata per sempre. Ma il panciuto soldatino di gomma, invece di parlare, lo guardò fisso con le mani in tasca e la testa piegata sul petto.
«Cosa vuole» diss'egli, lasciando improvvisamente quella attitudine scrutatrice «sono in una condizione penosissima. Si soffoca poi anche, qui dentro.»
Aperse una finestra e andò a cadere in una poltrona di fronte a Silla.
«Penosissima» ripeté.
Silla non aperse bocca.
«E pure» soggiunse il commendatore, sospirando «bisogna starci. Io sono un ambasciatore sa. Un'ora fa donna Marina mi ha mandato a chiamare.»
Silla trasalì.
«Lei si meraviglia. E io dunque? Ma! È così. Potevano essere le otto e un quarto; la moglie del giardiniere viene a svegliarmi e a dirmi che la marchesina mi aspetta. Io sono rimasto di sasso. Come mai? dico. Mi dice che ha dormito senza avere preso medicine di sorta e che si è svegliata circa alle sette, tranquilla, perfettamente in sé. Solo non ha voluto che si aprissero le persiane; ha preferito tenere accesa la candela, anzi farne accendere altre due o tre. Ha domandato, la prima cosa, se Lei è ancora qui, al Palazzo. E poi si fece ripetere i discorsi del suo delirio, tutto l'accaduto dopo...»
Il commendatore si fermò esitando.
«Parli pure» disse.
«Dopo che Lei l'ebbe portata via dalla camera del povero Cesare. E specialmente... scusi, Lei l'ha rimproverata, per quello che ha detto là?»
«A parole non l'ho rimproverata veramente: ma deve aver compreso che mi faceva orrore, perché mi ha vituperato nel suo delirio.»
«Bene, è su questo orrore manifestato da Lei, mi diceva la donna, che la marchesina fece più insistenti domande. Poi si alzò e mi mandò a chiamare. Adesso, senta. Premetto: per me è malata ancora: malatissima! Sta peggio ora di stanotte, per me. Lo si vede quasi più nella bocca che negli occhi; la bocca è alla gran tempesta. Ma è un fatto che mi ha parlato con una freddezza, con una calma da fare sbalordire. Era pallida, se vuole, come un cadavere; ma non importa. Mi domanda perdono di avermi incomodato, con un'affabilità insolita in lei, poi mi dice che nella posizione stranissima in cui si trova, non ha nessuna guida, nessun aiuto; che io sono il migliore amico del suo povero zio e che stima doversi rivolgere a me per consiglio. Io, naturalmente, mi metto a sua disposizione. Ella mi domanda allora... scusi, signor Silla, Lei è disgraziatamente immischiato nelle cose che sono successe qui stanotte. Abbia pazienza, io non voglio farmi suo giudice. Non si offenda se sono costretto di ricordarle queste cose e forse anche di dirne altre che potranno spiacerle.»
«Parli, parli» disse Silla.
«Bene. Mi domanda dunque dei Salvador: perché sono partiti? Io la guardo. "Eh" dico "per questo e per questo. Perché dopo gli avvenimenti di stanotte hanno creduto di non avere più niente da fare, qui." Allora ella mostra di turbarsi un poco, mi dice che comprende e scusa questo procedere, che pur troppo ha tutte le apparenze contro di sé, ma che non è colpevole affatto. E qui, poveretta, mi fa un racconto dal quale mi son ben persuaso che c'è ancora follìa e follìa più pericolosa, forse, del delirio violento. "Per otto giorni" dice "non sono stata responsabile delle mie azioni. Ho avuto da una persona morta comunicazioni che mi hanno scombuiato il cervello. Queste comunicazioni" dice "il signor Silla le conosce."»
«È vero» disse Silla.
«Euh!» esclamò il commendatore stupefatto. Non si aspettava questa conferma; gli sconvolgeva le idee, gli suggeriva il sospetto che neppur quell'uomo pallido dai capelli arruffati, dalle vesti scomposte, avesse il cervello interamente sano.
«È vero» ripeté Silla
«Spiritismo?» chiese il commendatore.
«No. Ma, La prego, continui.»
Il Vezza aveva perduto la bussola e il filo del discorso; ci volle del buono perché potesse raccapezzarsi.
«Dunque» diss'egli «ella sostiene, continuando, di aver vissuto otto giorni in una specie di sonnambulismo, durante il quale ha fatto cose inesplicabili di cui ora è dolentissima. Protesta della sua indifferenza, anzi della sua ripugnanza per Lei, comunque si sia comportata durante questo periodo di allucinazione. Soggiunge che spera di persuadere di tutto questo il conte Salvador, e mi prega, in due parole, di aiutarla. Cosa vuole, che le rispondessi? Che per parte mia credevo tutto, ma che non vedevo probabile di far credere nulla al conte Salvador. "E poi" le dico "capisce bene. Fanny non ha taciuto..."»
Silla lo interruppe impetuosamente.
«Quanto a questo» diss'egli «posso dare la mia parola d'onore...»
«Benissimo, benissimo, si calmi. Capisce bene che in ogni modo per allontanare Salvador ce n'è più che abbastanza. Tornando alla marchesina, mi domandò allora con un sorriso sarcastico se si conosceva il testamento. Io glielo riferii ed ella non si turbò affatto. "Se io sono esclusa" dice "questa è una ragione, per un gentiluomo come mio cugino, di non abbandonarmi." Dopo di che mi fa un discorso riguardo a Lei: debbo confessarlo. Un discorso sensatissimo. Vi sono proprio delle convenienze imperiose che danno ragione a donna Marina, e Lei vorrà non dolersi, credo, se ho accettato di esporle il suo messaggio. Le assicuro che sono convinto di fare un'opera buona verso tutt'e due.»
«Ch'io parta?» disse Silla, concitato.
Il commendatore tacque.
«Ma cosa crede Lei, che il conte Salvador possa tornare, che voglia prendere una moglie, non foss'altro, inferma di mente e diseredata? Come si posson pigliar sul serio i discorsi di una donna in quello stato? Ma si metta una mano sul cuore e mi dica se io, che purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa notte, mi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzato, anche per causa mia, adesso che cade dalla ricchezza nella povertà perché di suo deve aver poco o nulla, adesso che è malata di una malattia terribile, mi dica, ripeto, se posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente fosse stato, solo perché questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice: "andate pure". Andar via, lasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Lei, commendatore, mi consiglia questa viltà?»
«Piano, piano, piano» disse il commendatore piccato. «Non adoperiamo parolone e riflettiamo un po' di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore della marchesina di Malombra? Non voglio esser severo con Lei perché in affari di cuore non lo sono mai, e perché dopo una notte simile, chi può avere la testa a segno? Ma mi spieghi un poco, scusi sa, che sorta di protezione può offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco onorevole, una protezione che le allontanerà tutte le altre. Perché la marchesina ha dei parenti che l'assisteranno se non per affezione, almeno per un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vede, non è neanche il caso, parlando chiaro, del matrimonio per riparazione; con una donna che vi respinge? Con una donna, sopra tutto, che non ha la sua ragione intera? Dunque, cosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire.»
Silla lottava fieramente per serbarsi freddo, per soffocare un lume indistinto di speranza che gli entrava nel cuore, e poteva turbargli, in quel frangente, il giudizio.
«Sul Suo onore, signor Vezza» diss'egli «crede buono questo consiglio?»
«Sul mio onore, lo credo l'unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna Marina, parlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente.»
«Io? Nemmeno per sogno. Se partissi, non vorrei rivederla.»
«Un momento. La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquio, ciò che farò con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlare, a ogni modo, con Lei.»
«Perché?»
«Ma! Bisognerebbe domandarlo a lei. Vada, si faccia coraggio. Io ho il diritto, per la mia età, di parlarle come un padre, signor Silla. Mi spieghi questa cosa che non posso comprendere, ricordando una certa scena dell'anno passato. Ha Lei una vera affezione per donna Marina?»
«Perdoni, non si tratta de' sentimenti miei, adesso.»
«Basta, basta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?»
«No, le dica solo che mi faccia saper l'ora in cui dovrò recarmi da lei.»
«Sì. Per dirle la verità, il mio interesse personale sarebbe ch'Ella restasse qui ancora qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C'è da chiedere al pretore l'apposizione dei sigilli. Capirà, qui c'è tanta gente! C'è da scrivere alla Direzione dell'Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegramma, ma non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è a Oleggio. Il conte dev'essere trasportato là? Dev'essere sepolto qui? Mi han promesso che prima delle due arriveranno gli annunzi stampati da diramare: un bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonte, il povero Cesare, e di mezza Toscana, anche. Insomma, quanto a me, se Lei restasse fino a stasera, ne avrei certo piacere.»
Un forte soffio di vento entrò dalla finestra aperta, gonfiò le cortine.
«Oh, il vento cambia, meno male» disse il commendatore. «Anche questo tempaccio è una cosa orribile.»
Silla non rispose, salutò in silenzio e tornò nella propria camera, meditabondo.
Cos'era adesso quest'altro enigma? Cos'era quest'altra commedia del destino? Egli ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all'altro, nello svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso passeggero, una esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane.
Se il Vezza s'ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adesso, lo respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio.
Restavano i rimorsi, la vergogna d'esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità con un coperto proposito di colpa, per farvisi complice di una mortale nemica del conte, mentre quest'uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso dalla infermità. Ma pure, se rimanesse libero, non vi sarebb'egli modo di rialzarsi ancora, di purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranza, gli ripeteva le parole di Edith: "Non affonderà mai, se ama come lo dice". Non era più il Silla di prima che fantasticava così, seduto sul letto, mentre l'angelo del Guercino pregava sempre. Adesso l'idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l'avvenire: aspetterebbe di aver visto donna Marina, di averle parlato. Oh, se Dio volesse essergli pietoso, rialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religioso, la sua fede in un segreto contatto di Dio con l'anima e nella salutare potenza del dolore, rinascevano. Si coperse il viso colle mani e si sovvenne di un'ora triste in cui, aperta la Bibbia a caso, vi aveva letto: Infirmatus est usque ad mortem, sed Deus misertus est eius. Quanta consolazione, quanta energia di vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee nella mente ed egli le combatteva, temendo illudersi, prepararsi disinganni più amari. Entrare, per punirsi, nella manifattura de' suoi parenti, dare il giorno al lavoro più ingrato, la notte agli studi, poter dire a quella persona «sono ancor degno ch'ella mi porti nell'intimo del suo cuore!»
Queste immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancora, ma le scogliere dell'Alpe dei Fiori nereggiavano sul cielo bianco, nitide, spazzate dal vento del nord che copriva pure le altre cime di fragore, infuriava, volendo sereno.


6 Sereno

«Ecco l'agave che volevo farle vedere» disse don Innocenzo a Steinegge. «Bella eh?»
Era lì a godersi il sole, superba e triste, nel mezzo di un gran pietrone grigio, fra due brevi quinte di bosco. In alto fra il ciglio del pietrone e il cielo azzurro, magri arbusti si divincolavano ridendo nel vento trionfante che saltava sopra il valloncello, sibilava giù nel frutteto di don Innocenzo, sul tetto della canonica, si spandeva nei prati a ondate. Ciuffi di rovi penzolavano dalle fessure del sasso, lunghe e torte frange d'edera ascendevano dalle sue radici affondate nell'erba che brillava ancora di pioggia. Quel mostruoso scoglio mezzo nudo, tanto amato dall'edere, tanto paziente dei rovi, era la vita, la parola, la passione del paesaggio. Don Innocenzo aveva fatto portar lì un sedile rustico e vi passava delle ore a leggere, a pensare.
«Ci ha un che di meridionale, quell'agave, non è vero? Vede, io ci vengo spesso qui, con un libro e con i miei pensieri, respiro in quest'aria una innocenza che purifica il cuore. Ne ho bisogno perché sono astioso, rabbioso, forse anche maligno, ambizioso: no, ambizioso no, ma avaro forse: qualche volta mi par d'essere avaro, di affannarmi troppo per certe miserie d'interessi. Senta che mi confesso a Lei. Mi assolverà, poi? Io parlo intanto, perché mi fa bene; e Lei poi faccia quel che crede. Dunque, quando vedo campi coltivati, sento tanta gente fra Dio e me; qui non ci sento più nessuno e parlo col Signore da solo a solo, più volentieri perché si tratta di guai tutti miei propri. Ne avrà anche Lei, già, di questi momenti. Non ha mai niente che La inquieti?»
Steinegge confisse d'un colpo il bastone in terra.
«Oh, che cieco!» diss'egli. «Che stupido sono stato! Non aver capito niente! Non aver sospettato di niente! Credete ch'ell'avesse molta inclinazione per lui?»
«Oh no, non moltissima, spero, ma via!» disse don Innocenzo, mortificato della poca attenzione ottenuta dal suo discorso. «Si calmi. Non mi faccia pentire di averle raccontato tutto. Ho parlato per impedire che Lei domandasse spiegazioni alla signorina Edith di quel discorso del signor Silla. La signorina non deve conoscerlo: ne avrebbe troppo dispiacere. Del resto è forse meglio così, anzi diciamo addirittura; è meglio così. Ha visto che uomo era, questo signor Silla?»
«Che uomo era? No; cosa volete, lo amavo tanto! Non posso ancora giudicarlo come Voi.»
Si percosse la fronte come se volesse stritolarvisi dentro tante idee penose.
«Per me!» diss'egli «per me! Io bacerei di gratitudine il posto dove ella mette i piedi e dopo le direi "calpestatemi perché io non capisco". Non sapete, signor curato, che mi è troppo aver tutto il cuore di Edith, che io ne sento rimorso, qualche volta, come di un grande egoismo, e che sarei felice di un matrimonio così; perché poi io sono vecchio e c'è anche altre cose da pensare!»
«Venga» disse don Innocenzo, commosso, pigliando Steinegge pel braccio e conducendolo al sedile rustico «fermiamoci qui, pensiamo, cerchiamo quali ragioni può aver avuto Sua figlia.»
Steinegge si fermò su' due piedi, temendo qualche rivelazione impreveduta.
«Cosa?» diss'egli.
«Venga, venga, sieda qui.»
Don Innocenzo non trovava la prima parola, stringeva convulsamente una mano con l'altra, suggeva l'aria, secondo il suo solito, per le labbra serrate.
«Si sarebbe mai accorto» cominciò finalmente «di qualche preoccupazione, di qualche angustia nell'animo di Sua figlia?»
Steinegge trasalì.
«Denaro?» diss'egli.
«No, no.»
Uno sgomento angoscioso contrasse il viso del povero uomo mentre diceva:
«Salute?»
«No, no. Senta. Potrebbe darsi che Sua figlia volesse pensare a Lei solo, occuparsi di Lei solo, vivere insomma per lei solo, fino a che Ella, amico mio, ottimo e carissimo amico mio...»
Don Innocenzo gli prese, parlando, una mano.
«...intendesse quale sia quest'angustia segreta che c'è, lo so, nel cuore della signora Edith, povera signorina.»
«Lo sa!» disse Steinegge, pallido, stringendo forte la mano del prete, guardandolo a bocca aperta.
«Metta che io non sia prete» continuò il curato. «Adesso non sono prete, sono un amico. Va bene? Mi ascolterà come un buon amico?»
Steinegge accennò di sì con la testa, impetuosamente, senza poter parlare.
«Bene, via, bravo. Dica, Ella ha sofferto molto, non è vero, nella vita? È stato perseguitato, calunniato, non è vero? e specialmente da persone che portano quest'abito? Sì, lo dica pure francamente. Crede che non ne conosca, io, de' preti furfanti? Dunque Lei ne ha concepito un grande aborrimento contro tutti... No, glielo credo, contro di me no; ma è un'eccezione. Ha concepito poi anche un gran dispregio per altra cosa infinitamente superiore a questi preti miserabili, per la Parola di cui dovrebbero essere custodi e ministri. Mi lasci dire, Lei parlerà dopo. Credo benissimo che dopo la venuta della signora Edith Ella si sia molto avvicinato alla Parola; come non sarebbe? Deve averne provato, stando con Sua figlia, il calore e la luce: ma finora, tra le opere della signorina Edith e le Sue in questo argomento della religione, quale somiglianza c'è? Nessuna, non è vero? Ella non può dire di essere un cattolico e forse neanche un cristiano. Ora la signorina Edith crede, deve credere che se Lei non si sottomette di cuore e di fatto alla Chiesa, Loro non potranno poi aver parte insieme nella Risurrezione e nella Vita. Ecco il segreto doloroso. Tutto il cuore, tutti i pensieri di Sua figlia sono qui. Vuol vivere per quest'opera sola; sono certo che cerca il sacrificio di se stessa; che vi assapora una contentezza particolare, una vena nuova di speranza. Lei può andar superbo d'essere amato così. La signorina confida in Dio per toccare il suo sogno; comprende? Non vuol dirle: "se mi ami fa questo". Mai! Vuole che le loro due anime vivano chiuse una nell'altra, in comunicazione continua, onde poco a poco, inavvertitamente, ogni giorno, ogni momento, la Fede possa entrare in Lei, amico mio. Forse non dovevo dirle questo.»
«Oh!» esclamò Steinegge con voce soffocata, protestando.
«Forse non dovevo, no; ma adesso quando Lei ha detto "non capisco" mi si è mosso dentro qualche cosa che ha mandato sossopra la mia prudenza; ho pensato: qui bisogna parlare, bisogna fargli sapere, un sacrificio così ha da essere apprezzato, non gli parlerò come prete, ma come amico. E come prete non Le parlo; Le dico solo che io non avrei mai consigliato questo sacrificio, e che ho venerazione per Sua figlia.»
Steinegge si buttò indietro il cappello sulla nuca e giunse le mani, le scosse nervosamente guardando il cielo; poi se ne coperse il viso, appoggiò i gomiti alle ginocchia.
«Avevo capito» mormorò «la prima sera... ma poi adesso... credevo che fosse contenta...»
Don Innocenzo si chinò a raccogliere le parole inintelligibili.
«Cosa?» diss'egli affettuosamente.
«Credevo che fosse contenta» ripeté l'altro senza toglier le mani dal viso. «Adesso prego con lei... vado anche in chiesa... ho perdonato a tutti, credevo che bastasse.»
Il curato fu per buttargli le braccia al collo e dirgli: "Sì, va in pace, per te, povero tribolato, per te, semplice e umile cuore, basta. Tu sei come un figliuolo mandato da suo padre nel mondo a lavorare, che, ferito, perseguitato da' suoi compagni, torna senza aver appreso né guadagnato nulla verso la casa paterna, batte piangendo alla porta che i servi gli han chiusa in faccia come a un indegno. Suo padre ha veduto, ha saputo tutto; ma non vuoi, santo Dio, che lo raccolga e lo consoli?". Fu per dirgli così, ma si guardò l'abito e si trattenne, mordendosi le labbra; si strinse le parole nel cuore gonfio.
Steinegge, improvvisamente, scattò in piedi.
«Andiamo da lei, amico mio» diss'egli «andiamo da lei subito. Io farò tutto, andiamo subito.»
«No no no» rispose don Innocenzo. «Non accetterebbe un atto compiuto per amor suo e non per convinzione. Ci pensi, non parli alla signorina del nostro colloquio d'oggi, poiché mi dice che prega, preghi, domandi a Dio una parola nel cuore e se questa parola viene, allora sì, allora dica pure a Sua figlia: "Sappi, ho pensato, ho pregato e credo". Prima no. E adesso mi permetta di tornare prete, di dirle: «son qua tutto per Lei: parleremo, leggeremo, discuteremo... diremo male dei preti, se vuole!»
Don Innocenzo aggiunse sorridendo queste parole, perché gli pareva di veder Steinegge incerto.
«Scusate» disse questi «scusate molto, amico mio; noi non leggeremo e non discuteremo. So che i Vostri ragionamenti mi farebbero male, perché io ho uditi e letti nella mia vita troppi ragionamenti su queste cose della religione, benché io non sono filosofo né letterato. Io temerei udire da Voi argomenti uditi ancora, mi capite? argomenti che io ho inteso mettere in polvere altre volte e che mi farebbero cadere il cuore come, scusate molto la mia franchezza, se Vi vedessi armato di carta pesta. Io credo che avrei migliore impressione da una critica come ho letto pochi giorni sono in un libro tedesco recentissimo, un libro di un tale Hartmann, molto empio per Voi, dove si dice che il cristianesimo finirà come ha cominciato, der letzte Trost, l'ultimo conforto dei poveri e degli afflitti. Questo mi ha colpito come una gran luce sulla Vostra fede. Notate che secondo lo scrittore tutto il genere umano dovrà un giorno trovarsi afflitto dalla vanità delle cose e della vita. D'altra parte Voi non potete avere ragionamenti che prendano gli uomini come tenaglie. Voi terreste il mondo in pugno, Voi avreste il pensiero per Voi e le passioni contro di Voi. Ma è il contrario che succede; Voi avete molto più gente di passione che gente di pensiero, molte più donne che uomini, più popolo che intelligenze. No, quello che potete prendere è il cuore, credo: quando avete preso il cuore e lo tirate a Voi, bisogna bene che tutto l'uomo venga. Così sta per accadere a me, perché il mio cuore non è in mio potere. Anche Voi, amico mio ne avete una parte: anzi, posso dirvi una cosa? la Vostra faccia, che io amo, così buona sopra il vostro abito, è un molto più forte argomento per me che tutta la Vostra teologia.»
Pronunciando la parola "teologia" Steinegge arricciò il naso come se fiutasse qualche putredine.
«Che spropositi!» disse don Innocenzo con le sopracciglia aggrottate e la bocca ridente.
«Non spropositi, no!»
«Spropositi, spropositi. Non è vero che non abbiamo argomenti. Naturalmente una fede religiosa fondata sul mistero, non si può dimostrare con argomenti logici che stringano come tenaglie. Non si può trattare questo problema come i problemi di geometria; ma vi ha pure un procedimento che porta avanti verso il mistero, un procedimento assai più rapido e potente del Vostro gottoso procedimento logico che dopo tutto, caro Steinegge, non ha mai trovato da sé solo niente di molto grande. Vede, prendiamo pure la distinzione triviale della mente e del cuore; diciamo invece se vuole, l'intelligenza e l'amore, e ricordiamoci che non son mica due parti dello spirito. Vi è forse un pezzo di sole che scalda e un altro che splende? Bene. Loro signori filosofi, quando cercano la verità, dicono: noi abbiamo queste due gambe, una delle quali fa passi e slanci smisurati e sarebbe anche capace di saltare qualche ampia fenditura della via. Noi non vogliamo correre questo pericolo, noi vogliamo sentirci sempre la terra sotto i piedi. Noi non la terremo in freno questa gamba sinistra, questa gamba sentimentale, non la riporteremo al bisogno indietro appoggiandoci sull'altra, no, ma ce la taglieremo via senz'altro e andremo con una gamba sola, adagino, sin dove potremo. E così fanno, caro amico; vanno a conquistar il cielo e la terra con una gamba sola, e lo chiamano positivismo. E questa gente guiderà il mondo? Male lo guiderà.»
Don Innocenzo si alzò in piedi, infuocato in viso, con gli occhi pieni di luce, bello.
«Io poi Le dico» proseguì più calmo «che il pensiero umano non può, non deve occuparsi di ricerche religiose senza una preparazione morale. Senza cuor puro nessuna visione delle profondità di Dio. Bisogna che lo strumento di ricerca, il pensiero, sia ben predisposto; che abbia, stia attento, tutta la sua originale potenza di tendere al bene, ai principii del bene che sono poi anche i principii del vero. Ogni passione, a cominciare dall'orgoglio, determina un movimento diverso, altera quella tendenza; e allora, dove si va? Lo vediamo dove si va. Ecco perché l'insegnamento morale ha preceduto nella nostra religione l'insegnamento dogmatico. Ed ecco il primo grande aiuto del cuore nella indagine religiosa: ne determina la direzione dal punto di partenza. Partite con l'orgoglio, con la sensualità; andrete logicamente verso la negazione, il nulla, il male, perché vi è una terribile strada logica che conduce là. Partite con il cuore puro e anche, dirò, con le opere pure, accordo necessario, e andrete verso il vero. Ma come? Con la logica sola? No. Con il cuore, con il sentimento solo? Ma neppure, no certo; con tutte le facoltà dell'anima, con la ragione, con la immaginazione, con l'amore. Parlo, sa, ora, dei mezzi umani di ricerca, lascio da parte la grazia. Non si tratta d'indurre né di dedurre, ma di slanciare grandi ipotesi davanti a noi. Ci vuole fantasia per questo, calore e purezza di sentimento, ci vuole sopra tutto la facoltà più sublime dell'anima nostra, che non so come venga spiegata dai razionalisti, la facoltà d'intravvedere per subitanei chiarori interni...»
«Io non ho questa cosa» disse Steinegge.
«D'intravvedere idee superiori alla potenza ordinaria della mente in cui sorgono, sorprendenti per lei stessa. Allora comincia intorno a questa ipotesi il paziente lavoro logico della ragione per veder se combaciano con le verità note e tra loro, per modificarle, abbandonarle ove occorra. Certo neppur con questo procedimento si spiegano i misteri, ma si ottiene però qualche volta il risultato mirabile d'indicarli dove la Rivelazione ci dice che realmente sono, presso a poco come quel pianeta indicato da un astronomo là dove poi fu visto. E allora sopravviene la fede, se non è giunta prima. So cosa rispondono i suoi razionalisti.»
«Ooh!» disse Steinegge come per iscusarsi.
Un veemente soffio calò stridendo sui rovi del sasso, mise nel bosco una follìa frenetica, uno strepito che impediva di udire le parole. Don Innocenzo sempre acceso in viso, non potendo parlare, scoteva l'indice teso verso Steinegge, intendendo di dire che la risposta dei razionalisti non valeva nulla; poi alzò la testa, quasi a guardar in faccia quel diavolo di vento saltato senza riguardo in mezzo alla discussione per soffocarvi le buone ragioni, come un gran chiasso e un voto di volgo sovrano. Appena poté, proseguì a parlare.
«I razionalisti rispondono che questo modo di argomentare può essere buono per chi lo adopera, ma non prova nulla, non può servire a stabilire la verità. Stoltezza. Per essi non può servire, che sono induriti nel loro gretto sistema impotente, per altri sì. Noi parleremo e leggeremo, caro amico. Io spero di arrivare a persuaderla, con l'aiuto di Dio, che vi è una bellezza nella verità in cui si commuove e si appaga, non il cuore solo, ma tutta l'anima umana; una bellezza che noi possiamo vedere solamente in ombra e per immagine, ma con qual divino piacere! Vedere, sia pure in confuso, gli occulti accordi, le convergenze fra il creato e l'increato, per esempio fra i misteri più eccelsi della Divinità e i misteri più reconditi delle anime! Meditiamo e contempliamo insieme, sì. E adesso basta; non Le dico altro.»
«Caro amico» rispose Steinegge sospirando «può essere che Voi parlate molto bene, ma Voi non conoscete me. Questo che mi proponete sarebbe assai buono per un giovane, il quale sente bisogno di muovere il suo pensiero, ha una grande curiosità di mente e si compiace più di aver fatto da sé una piccola scoperta con travaglio, che di aver comodamente preso molto sapere preparato sul suo tavolo. Oh, io ho conosciuto e un poco sono stato anch'io così una volta. Adesso io sono un vecchio stanco; io ho la testa piena di opinioni contro di Voi, che forse non sono giuste perché gli uomini e i libri dai quali le ho prese non valevano forse molto, ma che non potrei mandar fuori con ragionamenti perché non ho la forza. Io devo dire il vero, che alcune sono già partite da quando mia figlia è con me; io non so come sono partite; per ragionamenti no certo. Potrò dividermi amichevolmente anche dalle altre, potrò dir loro: tacete, perché mia figlia vuole; tacete interamente, quando io dirò questo e quando io farò quest'altro, perché non vi posso scacciare, ma sono risoluto a non ascoltarvi. Forse allora, col tempo, partiranno anche sole. Permettete, amico mio; io credo che avrò molta maggiore compiacenza facendo così, che se Voi mi persuadeste con dimostrazioni. Cosa posso io dare a Edith se non do questo? Cosa posso io lasciare a mia figlia quando muoio, se non le lascio una memoria interamente dolce, interamente cara? Guardate, non mi è mai passato per la mente, quando vedeva Edith andare a confessarsi, che sarei diviso da Lei nell'altra vita, perché non andava anch'io a inginocchiarmi davanti a un prete: è quello che più mi ripugna, ma se Edith lo desidera...! Oh, ma come, come mi ha nascosto questo!»
Alzò le mani giunte al cielo, le scosse nervosamente.
«La prima sera, sì, m'era venuto in mente e anche il mattino dopo, quando l'ho accompagnata a Messa, qui nella Vostra chiesa: ma poi ella era sempre così affettuosa, così tenera con me! Mi parlava spesso di religione, ma solo raccontando i suoi pensieri, i suoi sentimenti, come se questa cosa riguardasse lei e non me. Io ascoltava con gran piacere, come Voi che siete Italiano e volete restare italiano ascoltereste mia figlia, se vi parlasse del nostro mondo tedesco, della nostra poesia e della nostra musica. Quando ho cominciato a venire in chiesa, a pregare con lei, godeva sì, ma pareva quasi temere che io mi tediassi, che io facessi per compiacere a lei. Solo di una cosa mi pregava con passione: ch'io perdonassi.»
«E ha perdonato?» disse don Innocenzo.
«Io ho fatto i più grandi sforzi» rispose Steinegge commovendosi. «Io ho, non perdonato, dimenticato quelli che hanno fatto male a me; e anche per gli altri...» La voce gli morì in gola soffocata. «Ho fatto quel che ho potuto» diss'egli.
Don Innocenzo, pure commosso, tacque. Forse la coscienza lo accusava di ricordare con soverchio sdegno, egli prete, certe offese troppo men gravi di quelle patite dal povero Steinegge, cristiano senza saperlo, più cristiano di lui.
Il vento parlava per le macchie, per i capi frondosi degli alberi: lo si vedeva correre sul velluto dell'erba, cangiarne il verde.
«Bel tempo!» disse Steinegge, lottando ancora con l'emozione.
«Bello» rispose il curato.
Steinegge stette un po' silenzioso, poi abbracciò appassionatamente don Innocenzo, lo baciò sulla spalla, gli disse con voce inintelligibile:
«Andiamo da Edith.»
«Bene, ma non gliene parli per adesso, aspetti e poi mostri che la Sua risoluzione è spontanea.»
Steinegge, per tutta risposta, prese il braccio del suo interlocutore, glielo strinse forte e si pose in cammino.
Fatti pochi passi, udirono Marta che gridava in su dall'orto della canonica. «Oh, signor curato! Oh, signor curato!» C'era della gente nell'orto, uomini e donne. Don Innocenzo sorpreso, affrettò il passo.
V'erano la Giunta, il presidente della Congregazione di Carità e il capitano della guardia nazionale venuti per parlare al curato delle esequie del conte che dovevano seguire l'indomani mattina. Era corsa voce di grossi legati ai poveri del paese. Il capitano, un ex garibaldino barbuto, aveva prese informazioni dirette al Palazzo. C'erano infatti 70.000 lire per un asilo d'infanzia e 30.000 lire per tre doti annue alle ragazze povere del paese. Il capitano avea subito fatto il suo programma di onoranze funebri al generoso testatore e intontitone il sindaco e il presidente della Congregazione di Carità, chiamandoli con amichevole compatimento "gran villanacci p..." perché essi imbarazzati e non avendo la menoma idea di "quel che si fa adesso", come diceva lui, esitavano, si guardavano in faccia, brontolavano che non erano pratici che la era "pazzia" buttar via dei denari per un morto che finalmente, diceva il sindaco, al Comune, propriamente al Comune, non aveva lasciato nulla. Per movere quei due fossili il capitano avea dato fuoco all'opinione pubblica, li avea portati con un gruppo di amici suoi dal curato, a domandarne l'autorevole parere. Costoro attorniavano don Innocenzo, parlandogli tutti in una volta, gridandosi l'un l'altro di tacere, discutendo un guazzabuglio di progetti e di emendamenti. Guardia nazionale, piccola tenuta, alta tenuta, una salva, tre salve, musica del tal paese, musica del tal altro, discorso in chiesa, discorso al cimitero. Don Innocenzo ottenne a stento che si chetassero e lo seguissero in casa. Allora si fecero avanti cinque o sei ragazze, le più briose civettuole del paese, che avevano prima assalita Marta e ora affrontarono il signor curato, rosse, rosse, con gli occhi ancor lucidi di riso. Venivano a nome delle ragazze del paese, a domandar fiori da farne ghirlande pel feretro del loro benefattore. Marta aveva dato loro un rabbuffo, aveva detto ch'erano "sfacciatone" di venir lì dal curato a portar via fiori, magari per metterseli in testa o per donarli a quel mucchio di amorosi che avean sempre alle sottane. Una delle ragazze le aveva risposto per le rime tra le risate della compagnia. Il curato non badò alle occhiatacce né ai borbottamenti di Marta, abbandonò senza difesa i suoi poveri fiori.
Steinegge era impaziente di vedere Edith, non per parlarle, ma per leggere attraverso quel viso, per assaporare meglio la compiacenza segreta di aver in cuore una buona, insperata notizia da confidarle alla prima occasione; presto, senza dubbio. Ella non era nell'orto. Steinegge si congedò con profonde scappellate dalle autorità e corse su nella camera di sua figlia.
Non era neppur lì. C'erano però sul letto il suo cappellino, i guanti e un piccolo album. Steinegge l'aperse, vide uno schizzo preso dalla riva del lago, sotto i pioppi. Riconobbe subito i denti pittoreschi dell'Alpe dei Fiori, quelle stesse cime che otto mesi prima, coperte di nuvoloni minacciosi, avean fatto dire a Edith: andiamo nella tragedia. La disegnatrice avea scritto in un angolo «Am Aarensee». A Steinegge venne subito in mente la canzone malinconica:

Ach tief im Herzen da sitzt ihr Weh,
Das weiss nur der vielgrüne Wald.

Il paesaggio morto, freddo, a luci di neve e ombre di piombo, ricordava più lo spirito afflitto che il bosco verde. Steinegge si accorò, sentì confusamente che il male doveva essere più profondo di quanto gli avesse detto don Innocenzo. Dov'era dunque Edith? Perché non poteva egli porgerle subito almeno una consolazione, almeno il premio del sacrificio ch'ella aveva compiuto? Il chiasso che si faceva in salotto e nell'orto, le voci rozze dei contadini, le risa spensierate delle ragazze lo irritavano. Se Edith udisse tutto quello strepito, come si sentirebbe amaramente sola! Gli parve di udir camminare nell'orto, e andò alla finestra. Era Edith, uscita dal salotto dove stava apparecchiando la tavola prima che entrasse il curato con le autorità. Steinegge la rimproverò amorosamente di stare al sole senza ombrellino, volle portarglielo malgrado le sue proteste; ma sceso nell'orto, non la vide più. La cercò in casa, non v'era; finalmente la scoperse presso il cancello dell'orto che parlava con le ragazze affaccendate a spogliare i rosai. Non la chiamò ne le portò l'ombrellino, temendo riuscire importuno, figurandosi che non amasse ora trovarsi con lui.
Si ritirò dietro l'angolo della casa per non farsi nemmeno vedere da sua figlia. Gli parve, guardando l'orizzonte lontano, che sarebbe andato via per sempre, avrebbe rinunciato a Edith pur di tornare indietro a quel momento in cui Silla avea portato il suo libro. Sì, sì, come ricordava adesso le proteste appassionate di lei! E dire che tanto male, tanto dolore veniva dalla cecità sua, dal non aver egli mai capito l'angustia segreta di sua figlia!
Intanto nel salotto si giunse a un accordo. Le voci si chetarono, si abbassarono, il curato e gli altri uscirono nell'orto discorrendo tranquillamente.
«Niente di meglio» diceva don Innocenzo, soddisfatto, guardando Steinegge.
«Ma!» rispose il capitano «a me l'ha proprio detto il signor commendatore Vezza. Io non gli domandavo niente; mi disse lui che stasera il signor Silla va via e che non bisogna credere a tutte le chiacchiere.»
«Oh!» esclamò Steinegge con due occhi scintillanti di lieta sorpresa. «Perdonate se io entro nei vostri discorsi. Come vi ha detto veramente il signor Vezza?»
Il capitano ripeté quanto aveva detto prima, soggiunse poi quel che sapeva dello stato di Marina. Seguirono i commenti degli uditori, ciascuno dei quali aveva un'ipotesi diversa.
Edith avea messo un po' di soggezione alle ragazze turbolente. Le raccontarono che il signor capitano aveva suggerito di far venire la ghirlanda da Como o da Milano, ma che loro avean voluto fiori del paese. L'armatura della ghirlanda si stava già preparando; quanto a' fiori, non avevano ancora pensato come li disporrebbero. Edith consigliò un intreccio di frondi d'ulivo e di rose bianche con una croce di viole. Volle coglier le rose ella stessa perché le povere piante non fossero straziate e i bottoni sciupati senza necessità. Udiva gli altri parlare, e, immaginando che parlassero del Palazzo, si pungeva le mani senza avvedersene, tagliava gli steli o troppo lunghi o troppo corti. Era tanto pallida che le ragazze credettero si sentisse male e la pregarono di smettere. Ella confessò d'avere un po' di mal di capo, ma non volle smettere temendo esser chiamata da suo padre, avere a restar sola con lui e non sapergli nascondere il suo turbamento. Sopraggiunsero gli uomini, la salutarono, si fermarono a guardare i fiori, a chiacchierare con le ragazze della loro fortuna, dei tanti matrimoni che si farebbero quind'innanzi in paese. Steinegge era rimasto indietro. Edith lo vide. Egli pareva impaziente che il crocchio si sciogliesse. Camminava in su e in giù, dava un'occhiata ogni tanto alla gente che aveva preso radice, fra i rosai. Anche Marta venne a guardar dall'angolo della casa, facendosi schermo agli occhi con la sinistra. Ella disse poi qualche cosa a Steinegge, il quale accennò a Edith di venire, e le andò incontro porgendole l'ombrellino aperto. La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch'era in collera con lei perché quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenze, si sarà andati in qualche luogo pericoloso, vicino a qualche acqua infida, piena di malinconie, per raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro.
«Oh, papà» disse Edith «non va bene, prima di tutto andar a guardare nel mio album, e poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sono, io, le malinconie; nel lago, nell'Aarensee. E della canzonetta, lì sulla riva, non ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l'anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Lei, signore, che corre poco rispettosamente dietro sua figlia, con l'ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate.»
«Ne metteremo delle altre» disse Steinegge. «Vedi questo sole, questo verde, questo vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminare, oggi. Sei stanca?»
«No, papà; ma dove vuoi andare?»
«Così, a passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?»
«Alle tre» gridò Marta dalla cucina.
«Allora possiamo andare, per esempio, fino alla cartiera.»
«Bravi, bravi! Vengo anch'io» disse don Innocenzo, che avea congedato allora allora tutta la brigata. «Devo parlare all'ingegnere direttore dei lavori.»
Edith salì alla sua camera per il cappellino e i guanti. Quando ridiscese, suo padre ed il curato, che parlavano insieme, s'interruppero. Ella vide loro in viso una contentezza nuova, si fermò, interrogandoli con lo sguardo.
«Andiamo! Presto!» disse Steinegge, e dimentico questa volta delle solite cerimonie, s'incamminò per il primo.
Don Innocenzo colse il destro di sussurrare a Edith: «Non c'è più niente tra quei due: egli parte stasera». Edith aperse la bocca per domandare qualche cosa, ma suo padre si voltò a chiamarla e anche Marta gridava dalla cucina: «Facciano presto che non hanno mica tanto tempo!».
Edith non ebbe più modo di domandare spiegazioni. Solo all'uscir dal cancello il curato le gittò nell'orecchio altre due parole. «Forse il Suo biglietto!» «Il mio?...» rispose Edith. Don Innocenzo fe' cenno di sì e andò a prendere il braccio di Steinegge.
Edith, trasalì. Il curato non le aveva detto che il suo biglietto era stato consegnato. Come mai, dopo quei fatti? Anche questa partenza di Silla era ella una fortuna così grande? Non veniva dopo mali irreparabili? Sì, ma però era un bene, senza dubbio. Pazienza, pensava, se il suo biglietto aveva fatto del bene, pazienza essersi posta senza saperlo, fra così turpi intrighi, aver parlato meglio che amichevolmente a chi se n'era reso indegno. Vi si rassegnava, ringraziava Dio, che si fosse servito di lei per un atto di misericordia. Ma sentiva in pari tempo che il sacrificio proprio sarebbe diventato in avvenire più difficile, tormentoso, che quest'uomo avrebbe tentato riavvicinarsi a lei, discolparsi de' suoi errori. E allora? Allora la lotta sarebbe ricominciata nell'animo suo, quanto fiera! Perché se a Milano avea sperato esser tocca nella immaginazione soltanto e s'era studiata di convincersene con un attento e forse imprudente esame di se stessa, adesso non s'illudeva più: era il cuore che mandava sangue.
«Edith!» chiamò suo padre perch'ella era rimasta qualche passo indietro.
Ella alzò gli occhi, lo vide a braccio del curato, un lampo di speranza le attraversò l'anima. Balzò a fianco di suo padre.
«Eccomi» disse.
Entravano allora nella strada nuova che spiccandosi dal villaggio recideva i prati sino al fiume: una brutta cicatrice a vederla dall'alto, come di qualche gran fendente calato sul verde: bianca, dritta, fra due righe di pioppi nani, sottili. Piacevole passeggio, però. Era voluttuoso mettersi per quell'ampio mar verde, morbido, magnifico nel suo disordine di fiori, potente nell'odor di vita che ne saliva, nelle ondate d'erba che slanciava da destra e da manca ad assalir l'argine della strada, ad ascenderlo per ricongiungere un giorno sopra di esso la sua pompa, i suoi amori eterni. I piccoli pioppi si movevano al vento; qualche grossa nube bianca vagava pel cielo, e l'ombre ne correano sui prati, sulla celeste lama scintillante del lago, la tingeano di viola.
«È magnifico tutto questo verde» disse Steinegge guardandosi in giro. «Pare di essere in fondo a una tazza di Reno.»
«Vuota» osservò don Innocenzo.
«Oh, questa è un'idea triste, non affatto necessaria. Vi è pure in questa tazza, che Voi dite vuota, una fragranza, uno spirito che exhilarat cor, che rischiara il cervello, non è vero? Io mi meraviglio di Voi: io sono molto spiritualista adesso, amico mio, sono capace di trovare che l'acqua del fiume dove andiamo, bevuta lì sulla riva sotto quei grandi pioppi, contiene sole, ha un sapore di primavera ilare che inebbria meglio del Johannisberg.»
«Si voltino» disse don Innocenzo «guardino la mia casetta come sta bene.»
Stava bene infatti la piccola casetta, al di sopra delle altre e in disparte, bianca sotto il suo tetto inclinato.
«Pare che ci guardi anche lei» osservò Edith «e ci sorrida come una buona nonnina che non si può muovere.»
«Oh» esclamò Steinegge «io sarei felice di viver qui.»
«E io, papa? Pare di sentirsi voler bene da tutto, qui. A Lei, signor curato, ci trovi un nido.»
«C'è il mio» diss'egli. «Bravi, vengano a stare col vecchio prete. Perché no? Non sarebbe una bella cosa? Non starebbero bene in casa mia? Mi par che Marta s'ingegni abbastanza, non è vero?»
Edith sorrideva, suo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine.
«No, no» disse Edith. «Prima, è una cosa impossibile per noi lasciar Milano, e poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un'altra casettina.»
«Veramente? Lei starebbe qui, per sempre, in questa solitudine?»
Edith rispose con gli occhi gravi, meravigliati. Don Innocenzo ammutolì.
«Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese» disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso.
Don Innocenzo si schermì, arrossendo e ridendo, dall'incensata.
«Anche Lei ci sarebbe, non è vero?» diss'egli.
«Oh no, io sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto bene, ma mia figlia non deve, oh no!»
«Perché mai, papà?»
Egli rispose impetuosamente in tedesco, come faceva sempre nel bollore dell'affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz'aspettare la replica di Edith.
«Non è vero» diss'egli «che questo paese non è per una giovane signorina, a meno che non fosse una Nixe?»
«Una Nixe? Chi sa?» disse Edith. «Amo le acque limpide, i prati, i boschi...»
«Oh sì, ma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?»
Il bizzarro uomo si fermò, allargando le braccia e chiudendo gli occhi.
«Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicino, il quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un dito, un solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?»
Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli.
«E adesso vedo... Oh, cosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadente, abbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpide, i prati, i boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco...»
Steinegge aperse gli occhi, prese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed egli, lasciatala, fece quattro gran passi avanti ridendo, e si voltò a guardarla.
«Non è una bella visione?» diss'egli.
Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C'era in quel discorso di suo padre una occulta intenzione, un proposito deliberato?
«Dunque sei stanco di me?» diss'ella. «Vuoi viver solo?»
«Come solo?» esclamò don Innocenzo. «Non sente che vivrebbe con me?»
«Io sono stanco, molto stanco di te» rispose Steinegge «ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagnia, qui con il signor curato, per qualche mese dell'anno. Vedi, io non scherzo più adesso, io avrei bisogno di stare molto, molto tempo qui con il signor curato.»
Edith guardò quest'ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartiera, faticosamente, sulla strada male assodata.
«Noi vogliamo cercare una pietra filosofale» continuò Steinegge «una pietra che cangi in oro tutto quello che è brutto, scuro fuori di noi, e, molto più, dentro di noi.»
«E la si trova qui, questa pietra preziosa?» disse Edith, palpitando.
«Io non so, io spero.»
«E perché non la cercherei anch'io con voi?»
«Perché non ne hai bisogno, perché non vogliamo.»
«Ma cosa ne farai di me, papà?»
«Oh, non si sa ancora.»
A queste punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da' suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all'orecchio:
«Non vada troppo avanti.»
«Non posso» rispose l'altro.
Il barroccio passò.
Erano giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomito, scendeva per la sponda destra, lungo i grandi pioppi, fino alla cartiera.
«Lei va» disse Steinegge al curato. «Noi L'aspetteremo qui.»
Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erboso, sino all'ombra d'un macigno enorme ch'entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pure, un poema popolare antico, di quelli che l'ingenuo cuore umano, troppo pieno di amore e di fantasie, versava. Passavano tra i margini sassosi o fioriti, saltando, ridendo, cantando, serene sino al fondo scabro. Blandivan l'erbe, mordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de' fremiti appassionati, si spandevano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall'alto il gaio stormire de' pioppi appuntati al cielo di zaffiro.
«Ah» disse Steinegge.

So viel der Mai auch Blumlein beut
Zu Trost und Augenweide...

Edith lo interruppe:
«Perché, papà, mi hai detto quella cosa?»
«Quale?»
«Che vorresti un giorno esser diviso da me.»
«Oh no, non diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente.»
Disse quest'ultime parole sottovoce, prendendole ambedue le mani.
«Sì, io penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro.»
Si strinse quelle mani sul cuore.
Le labbra, le nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull'erba, sedette accanto a lei.
«Io non posso» diss'egli, quasi parlando a se stesso. «Ho il petto pieno di questa cosa. È vero, Edith, noi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venuta, quando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perché non credevo come te. E il giorno dopo, mentre tu eri a Messa, ti ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la Messa?»
Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere.
«Ho parlato a Dio, l'ho pregato di non mettersi fra te e me, di non togliermi il tuo amore.»
Edith gli strinse convulsamente la mano, serrando le labbra, sorridendogli con gli occhi umidi.
«E tu sei poi sempre stata così tenera, così buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perché sapevo di non meritar niente. Oh no, credi. Mi ha commosso, dunque, di vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felice, ma non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insieme, io pregavo, ringraziavo Dio, vicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuore, qualche cosa di freddo e di penoso, come se io fossi fuori della porta e tu avanti a tutti, presso l'altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi...»
Esitò un istante, quindi accostò la bocca all'orecchio di Edith, le sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte:
«Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch'erano nel mio cuore, forse perché ero geloso di quell'uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non solo, geloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibile, sconosciuto, poteva ferirmi, togliermi un poco della tua stima, del tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con me, dimenticavo, tornavo ilare. Ieri, trovandomi ancora con don Innocenzo, stando nella sua chiesa, ho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesi, quasi senza saperlo. Ho avuto l'impressione, come di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edith, figlia mia.»
Ella, silenziosa, piegò il viso verso di lui, stringendogli sempre una mano fra le sue.
«Sono entrato» diss'egli, a voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella mano, vi fisse le labbra.
«Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di prima, ora che ho nell'anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questo, che io riposo
Segnala questa opera ad un amico

Inserisci una nuova Notizia
Notizie Presenti
Non sono presenti notizie riguardanti questa opera.