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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

MALOMBRA (III Parte ) Un sogno di primavera - 2

di Antonio Fogazzaro

2. Quid me persequeris?

Egli dormì poco quella notte. Da S. Ambrogio la gran voce solenne delle ore gli riempiva la stanza, si confondeva al suo sopore inquieto, mettendovi l'aspettazione del domani sconosciuto. Verso l'alba si addormentò profondamente e non si svegliò che a giorno inoltrato. Una luce grigia entrava dalla finestra. Pioveva.
Silla si sentiva rotta la persona come se avesse fatto quella notte venti leghe a piedi per domare un'agitazione febbrile, cresciuta invece con la spossatezza del corpo. Gli venne l'idea di uscire per una lunga corsa sui bastioni ma poi non ne fece nulla. Rimase un pezzo seduto sul letto a guardar dalla finestra il cielo freddo, uggioso come di febbraio, i tetti lucidi, e contro le scure finestre opposte, i fili tremoli della piova che sussurravano sulle tegole come uno strascico di veli leggeri e schiamazzavano nel cortile sotto i canali.
Guardava, si può dire senza pensare o, almeno, pensando senza il governo della volontà, disordinatamente. Era la penombra di un sogno in cui le idee duravano a muoversi a caso come ospiti stupefatti di stanze signorili dove il padrone non compare. Egli sentiva però nel cuore qualche cosa che la sera precedente non c'era ancora, un misto di stanchezza e di eccitazione, una sorda sofferenza che si ravvivava quando negli occhi intenti alla piova gli entrava lo sguardo immaginato di Edith. Era un triste dubbio che gli faceva male. Le nuvole grigie lo sapevano, la piova lo diceva e lo ripeteva:
«Piangi, piangi, non ti ama, non ti ama.»
Egli durava fatica a difendersi dallo stolto sospetto che anche Edith avesse cangiato dalla sera precedente, come il cielo; che la notte, il sonno, altri pensieri avessero spenta la sua inclinazione nascente, se pure questa inclinazione non era un abbaglio visionario. Sarebbe andato da lei quel giorno stesso a portarle Un sogno; gliel'aveva promesso. Come ne sarebbe accolto?
Teneva presso di sé quasi tutta l'edizione del suo libro, un gran fascio di copie, polverose al di fuori, candide, intatte al di dentro, come vecchie monachelle innocenti. Ne tolse una e pensò alla dedica che avrebbe dovuto scrivere. Ne preparò otto o dieci. Quale gli pareva fredda, quale pretensiosa. Finalmente scrisse sulla guardia del libro:

Alla Primavera blanda
C.S.

Subito dopo ne fu malcontento, sentì che bisognava dire di più, farle intendere quel che sentiva. Sul libro stesso? No, non era conveniente. Perché? Non trovò un perché abbastanza imperioso e scrisse sotto la dedica:
«La Primavera blanda è amata da uno scrittore oscuro cui nessuno ama. Per lei, per lei sola egli potrà esser grande e forte, vincer la fortuna e l'oblio. Se n'è respinto, si lascerà cadere a fondo».
Appena scritto volle troncare con un lavoro pacato quell'agitazione che lo spossava. Ricorse a un vecchio manoscritto, suo fedele compagno, che gli cresceva sotto lentamente, fra gli altri lavori, nutriti in parte con la meditazione astratta, in parte con la esperienza quotidiana degli uomini e della vita. Erano studi morali dal vero. Pareva a Silla che la letteratura moderna fosse soverchiamente scarsa di questi libri, in cui parecchi grandi scrittori del passato hanno ritratto l'uomo interno con tranquillità scientifica e con arte squisita di stile. E gli pareva che in tale studio i fatti e le osservazioni contemporanee dovessero raffrontarsi a fatti e osservazioni antiche, onde misurare il valore morale, relativo e assoluto, della nostra generazione. Per lui il valore delle trasformazioni religiose e politiche, degli stessi progressi scientifici e materiali si risolveva nella somma, non di verità o di prosperità, ma di bene e di male morale che ne discende; perché se il bene in generale è lo scopo a cui tutta la molteplice attività umana intende, il bene morale è la sua legge stessa, la condizione della sua potenza durevole; senza dire che per mezzo di esso, termine d'una equazione misteriosa, l'uomo si accosta alla essenza della verità e della bellezza assai più che per mezzo della scienza e dell'arte. La quale arte egli giudicava a questa stregua medesima, pure disprezzando, come puerile e falsa, la teoria dell'insegnamento morale diretto. Teneva ch'esatte cifre misuratrici del valore morale esistessero veramente, ma fossero impenetrabili in questa vita allo spirito umano; non pregiava come elemento di ricerca quelle delle statistiche, in cui le unità vengono aggregate arbitrariamente per certi caratteri comuni, affatto esterni e propri, per alcuni rami di statistica, più della legge che dei fatti umani; tutti più o meno disformi tra loro nell'aspetto, e di cui non si può cogliere la vera misura morale che là dove si generano, dove la statistica non sa entrare, dove la osservazione psicologica può trovare argomento di classificarli in modo affatto nuovo, affatto impensato, da sconvolgere molte tabelle e molte opinioni. Preferiva perciò a grossolani indizi aritmetici l'opera degli osservatori morali, attenti a cogliere negli atti, nelle parole umane i motivi interni; l'opera di pensatori acuti nel coordinare queste osservazioni praticate da molti in ogni campo della vita, nel dedurre giudizi quasi scientifici. Voleva che le osservazioni si facessero e si esponessero con la massima precisione possibile; attribuiva perciò poco valore a quelle che sono nei romanzi. Ingegno non lucido, mistico di tendenze, potente per certe intuizioni fugaci piuttosto che per nerbo suo proprio e costante, egli aveva idee poco definite, poco pratiche; ardente spiritualista e perciò proclive a considerare di preferenza, nell'umanità, la origine e il fine; amava, anche in tenue materia, appoggiarsi a qualche grande principio generale. Era quindi male atto alla fredda osservazione scientifica, se pure ella è completamente possibile in tali argomenti e se il solo vero frutto da sperarne non è la conoscenza dell'osservatore stesso.
Ma egli non obbediva soltanto a un concetto filosofico; cercava pure in quel lavoro certa consolazione delle offese recategli dal mondo. Tenuto in poca stima dai suoi congiunti che l'avevano per un sognatore ozioso; negletto dagli amici che si dilungavano da lui, amico inutile, seguendo la propria fortuna o le cure domestiche; ferito da inciviltà disdegnose di critici, di letterati, di editori, si compiaceva di studiare questi tipi familiari, sine ira et studio, con equa temperanza. Era il suo conforto orgoglioso tenerli sotto la penna e perdonar loro.
Stava ora lavorando a un saggio sull'ipocrisia. Inconscio seguace d'idee preconcette e assolute, voleva dimostrarvi che la menzogna e la debolezza morale sono caratteristiche di questo tempo, salvo a dedurne in seguito che discendono dalle sue tendenze positiviste, ossia dall'essersi oscurato nelle anime il principio metafisico del vero; e che le verità conquistate nell'ordine fisico, infinitesimali raggi di quel principio, non hanno né possono avere il menomo valore di sostituirlo quale generatore di salute morale. Molto più grave gli pareva questo prosperare della menzogna in tanta libertà di parola e d'azione. Perché ne trovava infetta la vita sociale e politica, come le arti, le lettere e le industrie stesse, nelle quali discende a complice abbietta d'inganno persino la scienza. Osservava ne' suoi conoscenti il fenomeno frequentissimo dell'ipocrisia a rovescio, ossia la dissimulazione dei sentimenti più retti e più nobili, delle opinioni più ragionevoli; l'opposto linguaggio che erano usi tenere sulle persone e le cose, secondo il numero e la qualità degli uditori. Ne induceva che se le vere opinioni umane avessero improvvisamente a scoprirsi, il mondo sbigottirebbe di trovarsi tanto diverso da quello che crede. Una sì larga infusione di falsità volontaria, corrompendo interamente le parole e le azioni umane, deve generare il falso, che è quanto dire il male, nell'organismo della società, poiché questo si modifica senza posa per le parole, per le azioni umane. Silla preferiva la sincerità, anche nell'errore, a qualunque men disonesta ipocrisia. Citava esempi in appoggio al suo assunto, e aveva ora per le mani il suo amico Steinegge.
Steinegge era un esempio singolare di rettitudine morale accoppiata alle opinioni più false in ogni argomento. V'erano nei suoi errori un candore, una sincerità leale senza pari. Egli non poteva neppur credere, in fatto, alla menzogna né alla disonestà negli altri benché dicesse male, in astratto, di mezzo mondo. Parlava da scettico e sarebbe caduto in ogni trappola di briccone volgare. Il suo calor generoso si apprendeva altrui, la sua schiettezza provocava schiettezza; e le opinioni, violente e zoppe, lungi dal nuocere, non si reggevano in piedi. Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo, ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso, vantatore, malato d'umori vaganti che lo molestano, sempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri. Steinegge era molto migliore di questo tipo. Sotto il suo cerimonioso abito nero del secolo decimonono v'era un gran cuore barbaro, pieno di idee sbagliate e di sangue sano. Silla pensava a lui con la penna inerte sulla carta e lo sguardo a' fili tremoli della piova. Non poteva continuare la sua tranquilla analisi psicologica; gli pareva di offendere quell'uomo ingenuo che gli voleva tanto bene, e certo non avrebbe sospettato mai che l'amico suo gli volesse praticare una vivisezione sul cervello e sul cuore. Se lo vedeva là ritto davanti col suo onesto viso cherusco e gli occhietti scintillanti, gli udiva dire con impeto soffocato: "La meritate voi?".
E lui, Silla, si alzava in piedi, gli rispondeva: "La meriterò. Sarò il suo sostegno, la sua difesa e il suo orgoglio. Non si troverà in me un atomo di falsità mai, non un pensiero ond'ella sia esclusa. Combatterò per le alte cose ch'ella ama, sotto gli occhi suoi, virilmente".
Poi quella voce gli faceva delle altre domande. Egli si commosse nel pensiero di tante fredde difficoltà amare, pronte per lui da ogni parte. Immaginò un altro colloquio intimo con la propria madre. Ella gli diceva con indulgente calma tante cose savie che a lui non sarebbero mai venute in mente, lo sgomentava e lo rincorava insieme con la sua pacata scienza della vita, con l'elevato concetto del dovere e la ferma fede nella volontà umana e nella provvidenza. No, non era facile l'avvenire. Dai suoi parenti materni non poteva attendere appoggio se non lasciando gli studi per il commercio. Gli avevano già detto chiaro che non sperasse essere incoraggiato da loro a vivere ozioso, a leggicchiare e scribacchiare senza costrutto. Gli pagavano il modico assegno di cui viveva stentatamente, frutto di una somma di ragione di sua madre che essi avevano trattenuto presso di sé salvandola dal naufragio di Silla. Più di così non era da aspettarsi da costoro che avevano edificato del proprio la canonica e le scuole comunali del paese dove filavano seta e villeggiavano. Ceder loro? Si sentiva portare in aria dallo sdegno, solo a pensarvi. Avrebbe dovuto, accasandosi, trarre denaro dal proprio ingegno. Come? I suoi libri non gli avevano ancora fruttato un soldo, e il loro successo non lasciava presagire migliore fortuna per l'avvenire. Avrebbe tradotto qualche ora al giorno, dal francese e dall'inglese, a un tanto la pagina; ma era poi sicuro di trovar lavoro? Come correva la sua fantasia! E la grigia piova tremola gli ripeteva in fondo al cortile, per le grondaie, sui tetti lucidi:
"Piangi, piangi, non ti ama, non ti ama."
Si alzò e uscì di casa.
Più tardi egli non seppe ricordar bene che avesse fatto durante le lunghe ore trascorse da questo punto al momento in cui pose piede in casa Steinegge. Camminò trasognato, sui bastioni deserti, sotto i platani grondanti e per vie remote della città, senza riconoscerle; attraversò quartieri opposti a quello abitato dagli Steinegge. Si trattenne lungamente in un piccolo caffè tetro, dove due vecchi giuocavano al domino e la padrona, seduta accanto ad essi con un grosso gatto grigio sulle ginocchia, guardava piovere nella via stretta. Dietro il banco un orologio scandeva col suo tic-tac minuti interminabili.
Questi minuti eterni venivano sempre accelerando il passo; all'accostarsi del momento prestabilito battevano via a precipizio come il suo cuore.
Giunto, per la più lunga via possibile, alla nota porta, non vi entrò né si fermò. Gli parve che il suo destino l'attendesse là dentro. Andò avanti per qualche centinaio di passi, poi, bruscamente, tornò indietro, passò la soglia disprezzandosi, paragonandosi a un fanciullo ridicolo che desidera da lontano la donna amata e la teme da presso. Si volse alla portinaia senza parlare. Ella lo conosceva e disse alzando la testa dal lavoro: «In casa».
Salì le scale adagio, aggrappandosi nervosamente alla branca. Suonato il campanello si sentì chetare i nervi, si meravigliò seco stesso d'essersi lasciato tanto turbare dalla fantasia.
«Oh! Oh! Caro amico! Date! Oh! questa è una grande fortuna con questo tempo tedesco. Date!» vociferò Steinegge, che gli aveva aperto e gli toglieva di mano a forza l'ombrello e il cappello.
«Buon giorno, signor Silla» disse Edith quietamente. Ella era seduta presso la finestra e lavorava. Aveva alzato il viso, né roseo, né pallido, per il breve saluto e s'era volta quindi a guardar dalla finestra il "tempo tedesco".
Entrava lassù dallo sterminato cielo bianco una gran luce quasi nervosa. Sul tavolo, spoglio del suo bel tappeto azzurro e nero, posavano due o tre grossi volumi, un calamaio e un manoscritto aggruppati presso la sedia da dove s'era alzato Steinegge.
«Voi vedete» disse Steinegge «questo Gneist è un grande uomo, grandemente stimato in Germania. Bisogna leggere un articolo di questa Rivista Unsere Zeit. Voi sapete? Oh, ff! Ma io sono un piccolo uomo, e quando ho tradotto cinque o sei pagine, non è possibile andare avanti; è questo. Voi, Voi dovreste imparar presto il tedesco e tradurre il Self-Government per la Vostra nazione. Io lavoro per il signor conte perché io devo mangiare, ma io getto questa fatica in un pozzo, e poi io traduco in francese molto male. Io credo che guadagnereste molti denari perché tutti gl'italiani comprerebbero. No? Voi non credete? Voi non credete? Ooh! Questo mi meraviglia molto, caro amico. Se avessi denari, farei tradurre per speculazione a mie spese. No? Ah, no. Questo mi meraviglia molto. Sedete. Voi avete un libro?»
«È un libro che mi permetto di offrire alla signorina Edith» rispose Silla, posando il volume sullo scaffaletto accanto al busto di Schiller, e guardando Edith.
«Oh, molte grazie, caro amico» disse Steinegge.
Edith posò le mani sul lavoro e volse il capo a Silla.
«Grazie» diss'ella, tra attonita e curiosa. «Che libro è?»
«Il libro di cui Le ho parlato iersera.»
«Iersera?»
«Guardalo dunque!» disse Steinegge porgendole il volumetto con un leggero atto d'impazienza, il primo forse che gli sfuggisse parlando con sua figlia.
«Ah, il suo libro Un sogno! Lo leggerò volentieri, certo. Lo leggeremo insieme, papà, per riposarti del tuo Gneist. Ti prego.»
Gli rese il libro, senza sfogliarlo, non senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sotto, e si ripose al lavoro.
«Io sono sicuro che sarà bellissimo e che ci troveremo grande piacere» disse Steinegge, rosso rosso, per cercare di supplire alla freddezza di sua figlia. «Versi?»
«No.»
«No? Io credeva che Voi foste poeta.»
«Perché?»
«Scusate, mio caro.» Steinegge prese con ambo le mani, ridendo, il braccio del suo interlocutore. «Per la Vostra cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione in Torino a un giovane, il quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non in prosa, non a posto. Non fate versi Voi?»
«Mai.»
«Questo è un racconto?»
«Sì.»
«Sarà stato molto lodato, io credo, dal pubblico e dai giornali, non è vero? Avrà fatto rumore?»
«Sì, il rumore di un sasso che cade in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola persona, neppure tra le poche a cui l'offersi, che l'abbia accolto come si accoglie un forestiere raccomandato da qualche amico, un visitatore onesto, civile, senza ingegno forse, ma non senza cuore, posso dirlo, il quale vi domanda solo di essere udito quando vorrete Voi.»
«Come mai? Questa sarà invidia, io credo.»
«No, no, no. Ci sono uomini e libri sfortunati che spirano antipatia persino a' cuori più gentili.»
«Questo è vero, mio caro amico, questo è vero sempre.»
«Mi pare che un autore non lo dovrebbe credere» osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro.
Silla tacque.
«Perché, Edith?» chiese Steinegge.
«Perché questa opinione gli deve togliere la fede, la forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle sue opere.»
«No» disse Silla. «Per un pezzo si dura saldi, anzi, più la fortuna ci combatte, più la si disprezza, più si lavora, più si cerca di appagare noi stessi, la nostra coscienza. Le ferite stimolano quasi, danno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fianco, e allora non c'è più che da cader bene, a fronte alta, senza chieder pietà.»
«Sarà vero, ma direi che bisogna diffidar molto della nostra fantasia, e badar bene di non attribuire alla fortuna quello che non le va attribuito. Non Le pare? Non è più virile di crederci poco alla fortuna?»
«Oh» esclamò Steinegge «come non vuoi credere alla fortuna? Saresti tu esule, quasi povera, e sola con un vecchio poltrone se non ci fosse la fortuna?»
Gli occhi di Edith scintillarono.
«Papà!» diss'ella.
Egli non ebbe il coraggio di confermar colla voce, ma confermò col capo, ridendo silenziosamente, quello che aveva detto.
Edith si alzò e gli si avvicinò.
«Scusi, signor Silla» diss'ella appassionatamente. «Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà. Puoi tu ignorare» soggiunse rivolta a quest'ultimo «che non v'ha per me felicità maggiore di vivere con te, sempre con te solo, amar te, servir te, sentirmi protetta da te, sapere che tu mi vuoi bene?» Ella disse questo in italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo padre la interrompeva con esclamazioni e gesti, batteva con le mani su Gneist e sul tavolo; ogni muscolo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava per essere vinto. Trarre l'orologio, esclamare «Oh, C... che mi aspetta», correre a pigliarsi il cappello, fare un gran gesto di saluto a Silla e infilar la porta, fu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per trattenerlo, egli era già in fondo alle scale, senza ombrello. Ella rimase sospesa un momento pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d'avviarsi alla sua sedia presso la finestra, s'indugiò a disporre meglio le lucernine e i fiori sul piano del caminetto.
«Signorina Edith» cominciò Silla con voce alterata.
Ella si voltò, gli tese la mano e disse:
«Buon giorno.»
Silla tacque un momento, poi soggiunse:
«Scusi. Le rubo un minuto di più. Volevo dirle che solo adesso, dopo molte incertezze e ripugnanze, comincio a credere alla fortuna.»
Edith tacque.
«Può intendermi, signorina Edith?»
«Signor Silla, Lei è amico di mio padre e quindi è amico mio. Io non capisco perché Lei mi faccia tali discorsi. Non conosco bene la Sua lingua, ma se Lei vuole far dire alle parole più del dovere, questo non è bene e io non voglio.»
Ella disse «non voglio» con altera energia, con agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto.
Silla s'inchinò.
«Non intendo» rispose «far dire alle parole più del dovere e non me ne rimprovero una sola. Del resto, ero venuto per dire a Suo padre che domani non posso pigliar lezione. Vorrebbe Lei avere la estrema bontà di avvertirnelo?»
«Lo farò certo.»
«Mille grazie. Buon giorno, signorina.»
Egli andò e riprese il suo povero libro sullo scaffaletto.
«Perché?» disse Edith.
Egli sorrise scotendo la testa come per dire «che Le ne importa?»
«Mio padre l'ha veduto» diss'ella, quasi timidamente, ma senza emozione. Silla posò il libro sul tavolo e, fatto un saluto profondo, a cui ella rispose appena, uscì.
Edith, rimasta sola, tornò a sedere presso alla finestra e riprese sulle ginocchia il fazzoletto che stava orlando per suo padre. L'ago era caduto a terra e n'era uscito il filo. Ella volle infilarlo di nuovo. Le tremavano le mani; era impossibile venirne a capo. Allora chinò il viso come se lavorasse, e andò poco che due grosse lagrime caddero sulla tela. Si alzò, depose il fazzoletto, andò a pigliare Un sogno, aperse stando in piedi presso il tavolo e, tosto vista la dedica manoscritta, voltò senza leggere, alcune pagine. Quindi, sfogliando pagina per pagina, tornò alla dedica, vi si fermò. Per quanto tempo!
Finalmente chiuse il libro con violenza, andò a metterlo sullo scaffaletto dietro il busto di Schiller. Se ne pentì, lo riprese, lo pose accanto al busto dove l'aveva messo prima suo padre. Aperse il balcone e si appoggiò alla ringhiera.
Pioveva sempre e tirava vento. I ciuffi verdognoli degli alberi che rizzavano il capo tra casa e casa, lontano, si dondolavano malinconicamente. Una cortina biancastra chiudeva l'orizzonte tutto all'ingiro; dal lembo inferiore trasparivano le campagne fosche. Era un grande spettacolo di tristezza appassionata. Ma Edith non guardava né vedeva. Era venuta a cercar l'aria libera, viva, rinnovatrice di tutto, gradiva il battere delle fitte punterelline fredde. Si tolse di là dopo lungo tempo e andò a scrivere la lettera seguente a don Innocenzo.


Milano, 30 aprile 1865

Onoratissimo signore ed amico,
accetteremo la cara amichevole offerta di venir qualche giorno in casa Sua. Le siamo tanto tanto grati! Mi pare che il signor conte non potrà offendersi se non andiamo al Palazzo; avrà bisogno di riposo dopo tanta confusione, tanta gente in casa per il matrimonio. E mio padre e io abbiamo pure bisogno subito di quiete e di verde. Scusi il cattivo italiano; non so come esprimere il mio concetto. Voglio dire che abbiamo bisogno di quel silenzio e riposo che si trova nei campi verdi, atto a quietare certi pensieri non del tutto sani e farne nascere altri così freschi e semplici, così vogliosi di aria pura come le foglie degli alberi e dell'erba. È quasi certo che partiremo posdomani.
Da qualche tempo mio padre non ha progredito come speravo e io sono in sospetto doloroso di me stessa. Io temo di non aver scelta la buona via e di non avere adoperato bene il grande amore di mio padre per me; mi viene nel pensiero che sarebbe forse stato meglio entrare risolutamente su quel terreno sin da principio, richiamare, pregare, esigere, e che non avrei perduto parte della mia influenza, come dubito averla perduta ora con le mie cautele forse troppo mondane, con mostrargli che sono tranquilla e contenta come se non avessi nessuna nube nell'anima.
Ho creduto, onoratissimo e caro signore, di domandare consiglio a un buon vecchio prete dal quale sono andata a Pasqua. Egli mi ha consigliato di fare speciali divozioni alla Vergine e a molti santi. Credo umilmente che questo è buono; ma io ho bisogno di sapere come fare, come parlare con mio padre tutti i momenti e non può essere poco importante se commetto errore o no. Non mi pare di poter avere aiuto superiore se non adopero anche, il meglio che posso, la mia ragione. Dio mi ha molto concesso perché mio padre ora viene in chiesa e so che sicuramente prega; ma questo è stato ottenuto assai presto, in principio. Egli ascolta molto volentieri parlare di cose religiose, come cerco io qualche volta, e pare allora disposto alla fede; ma se si tocca di quelle pratiche in cui entra necessariamente il sacerdote, io vedo quanto egli soffre di non esprimere la sua ripugnanza violenta. Forse nei primi tempi e forse ancora adesso egli vincerebbe, se io lo pregassi, questa ripugnanza: ma debbo io pregarlo? Posso io mettere alla tortura il mio spirito? Può esser mai questo il mio dovere filiale? E ne verrebbe un frutto buono, accetto a Dio? Quando penso le grandi sventure che ha sofferto mio padre e il suo lungo vivere fra uomini che non curano le cose dell'anima e penso la sua onestà di ferro, il tenerissimo amore ch'egli ha per mia madre ancora adesso e per me, la fede in Dio che gli è tornata, io sento di riverire mio padre come una persona santa, benché non pratica come io e tanta piccola gente che io conosco; e mi pare male costringerlo ad atti che il suo cuore non desidera. Questi sono i miei intimi combattimenti.
Ho bisogno, onoratissimo signore, della Sua parola viva, nella quale è un grande lume, una forza. E sovra tutto desidero che mio padre si trovi con Lei qualche tempo. Mio padre ha veramente simpatia per Lei, sentimento impossibile a conciliarsi con altri suoi. Questo è per me come un muto indice scolpito al principio di una via.
Credo che vi sarebbe poca sincerità in me se Le dicessi ora che io ho bisogno del suo aiuto pure per me stessa.
Lei sa come io comprendo il mio dovere verso mio padre. Sono convinta che, comprendendolo io così, così è. Io devo essere intera per mio padre, il quale non ha nessun'altra persona al mondo. Per lunghi anni egli ha vagato tutto solo sulla terra, soffrendo fatiche, ingiurie e fame, mentre io vivevo a Nassau come una damigella ricca, senza mandargli neppure un saluto. È poca cosa, per compensarlo di questo, tutto l'affetto umano ch'è nel mio cuore. Io non mi esprimo qui come vorrei; Le spiegherò meglio tutto questo a voce nella Sua casetta solinga tra i prati innocenti.
Le dirò ch'io sono stata per un momento un misero cuore fragile, aperto alla sorpresa, e che il mio spirito, rialzatosi con violenza, è ancor intorbidato di dolore, di paura e anche di alcuna dolcezza, di alcuna compiacenza nel soffrire almeno una piccolissima cosa per il mio povero vecchio padre. È una confessione affatto non religiosa che io farò a Lei, onoratissimo signore, per trovarvi gradevole umiliazione e sollievo, ombre del divino che sono, io credo, anche nelle confessioni umane; e altresì per sciogliermi dalla poesia bruciante del segreto. Mi perdoni questa lunga lettera. Mi pare, scrivendo a Lei, acquistare maggior fede e maggiore speranza. Quello che io sento e vedo della religione in Italia non è spesso secondo il mio cuore, forse perché io sono un freddo carattere tedesco; se v'è qui dentro fumo d'orgoglio, me lo dica, è la mia mala inclinazione; certo io trovo nella Sua parola un raro suono d'intimo argento, a cui tutta l'anima mia si apre.
Preghi Dio per noi e ci voglia bene.

E.S.


Silla discese le scale con amara calma, gonfia di ironia verso se stesso, come se godesse ad ogni scalino calcare qualcuna delle stolide illusioni, delle folli fantasie portate lassù pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virile, alzando fronte e cuore contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova ripeteva "piangi", ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza volta gli falliva la speranza di un amore in cui, placato l'angoscioso grido dell'anima, sentirsi forte, sentirsi puro, sicuramente e per sempre, non vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un'ultima caduta senza rimedio nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: "Vedi come è bello? Non l'avrai". Ma avrebb'egli pianto come un bambino, come un vile? No, mai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di pensare quello che altri si sarebbe proposto; combattere, vincere Edith con lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante. Essere amato, lui? Impossibile, lo sapeva bene.
Nella via, a pochi passi dalla porta degli Steinegge incontrò un editore di seconda riga, a cui era stato presentato e raccomandato, come autore, pochi giorni prima. Colui guardò da un'altra parte, passò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questo, adesso? Si strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questo, poteva ben disprezzare quel signore che si credeva lecito d'essere incivile con gli autori di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finché avesse sangue nel cervello e nel cuore. E ne aveva ancor molto, ricco di vigorosi pensieri, di dolcezza e di collera. Egli sentiva d'avere molte cose a dire in servizio del vero, molte belle e forti pagine di cose, prima di scendere ignorato e sdegnoso, alla fine della sua giornata, nel sepolcro, con l'altera coscienza di essersi serbato equo a un Dio ingiusto.
Concetto fiero e superbo che, sorto nella solitudine del suo spirito, metteva stupore in lui stesso, gl'infondeva una forza demoniaca. N'era stato tentato altre volte, ma lo aveva respinto sempre. Adesso gli cedeva, se ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle entrarvi, come soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne.
Andò a sedere nella navata di mezzo, presso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni dell'abside. Silla, raumiliato a un tratto, appoggiò sul banco le braccia e sulle braccia il capo, chiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid me persequeris?
Allora si fece dentro a lui un gran silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l'ombra delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello stesso interno del Duomo, quella mente colossale nel poema di granito che si effonde magnifico al sole, mente ordinata, solida e misteriosa come la mente della Divina Commedia, divenne allora del tutto muta per lui. Un senso di uggia pesante l'oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva scuotere quel mantello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passato, quando, fanciullo, veniva in Duomo con sua madre, immaginando al suono dell'organo i deserti di oriente, le palme, il mare, la vita contemplativa. Niente, niente, niente; la memoria era intorpidita, il cuore vuoto e senza eco. Qualcuno gliel'aveva percosso col fuoco, disseccato. Egli seguiva con l'occhio assopito i pochi forestieri che venivano dall'abside col cappello in mano, lenti, guardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tedio, vapori di sonno salivano dal pavimento, le porte, tratto tratto, sbadigliavano. Era come una plumbea calma in fondo ad acque morte, che non sentono il passar dei secoli. Silla non ripeté la sua domanda, poiché non gli si voleva rispondere. Cercò deliberatamente nella memoria qualche profana imagine voluttuosa. Si rivide nella lancia Saetta, fra le grandi onde accorrenti, in faccia a Marina che gli piegava incontro il viso, disegnandosi sul chiarore abbagliante del lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i piccoli piedi appoggiati a' suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva "finalmente!", gli prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella notte profonda... Si alzò e uscì di chiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.


3. «Ho pianto in sogno»

«Ah Dio, Silla, che orrore!» disse la signora De Bella entrando come un nembo di seta in cui due piedini nervosi tempestavano a colpi sordi. «Buona sera. È un pezzo che mi aspetta? come va?» Ella gittò sulla spalliera d'una poltrona la sua pelliccia bianca e porse a Silla una manina nuda, luccicante d'anelli. Anche la sua bocca ridente, i suoi occhi celesti scintillavano. Ella era in tulle nero e sott'abito di seta azzurra, scoperte le spalle e le braccia che aveva bellissime, senza un braccialetto, né un medaglione, con due grandi anelli di turchesi e perle agli orecchi, un fiore azzurro in seno, un altro nei capelli biondi, molto incipriati, raccolti sopra la nuca come un gruppo di grossi serpenti. Aveva un profumo tepido di veloutine che parlava della sua pelle morbida.
Silla s'inchinò.
«Come va? Che bravo Silla! Non si pentirà d'esser venuto, sa? Ho tante cosettine carine carine a dirle. Sieda! Ma che orrore, neh! Come, non era in teatro Lei? Ah, non c'era. Senta bene. Adesso verrà qualcuno. Sa, dopo teatro ho dei buoni amici che vengono a prendere il thè. Stasera ci sarà M... che, quando viene, fa sempre un po' di temporale sul mio piano. Lo conosce? Non ha niente del pianista tipo, ma suona bene. Lei prenderà un posticino vicino a me: vicino vicino. - Cara! (Si ricordi, parleremo).»
Ella si alzò e andò incontro a una signora annunciata in quel momento, che al primo entrare artigliò Silla con una occhiata fredda e poi si rivolse sorridendo a salutar la padrona di casa.
«Che orrore, eh?» disse donna Giulia.
Presentò Silla e riprese:
«Che orrore, cara te!»
«Io lo sapevo prima. Hai visto la Mirellina?»
«Euh, euh! Doveva venir qua stasera. Ma come hai fatto a saperlo?»
Il cameriere tornò ad annunciare. Entrarono quasi di seguito parecchie signore e parecchi cavalieri. Le signore cinsero Giulia di un grazioso cicalio di salutini, di risatine discrete, di parolette sfumate morbidamente. Le curve spalle bianche raccolte in mezzo alla sala parata di raso azzurro, sotto la opaca luce aurea che si spandeva dai globi smerigliati delle lampade, parevano petali caduti là da un'alta invisibile magnolia grandiflora. Degli occhialetti scintillanti di curiosità oblique, delle sgraziate braccia nere s'insinuavano nel gruppo cercando un sorriso, una stretta di mano di Giulia. La sua testolina bionda oscillava, come la testa di un uccellino vispo. Il gruppo si sciolse, si disperse nella sala.
Silla aveva incontrata quella gente in altre case, tempo addietro, quando soleva frequentare la società molto più che non facesse ora. Le signore appartenevano alla nobiltà di secondo ordine e alla alta borghesia. Giovani e belle quasi tutte, avevano in gran parte l'aura di nascosti amori passati e presenti, di cui la gente sapeva quel tanto che basta ad accendere le fantasie sensuali, a mostrar loro negli occhi d'una donna certi languori, certi ardori che forse non ci sono. Tre o quattro di quei giovani stessi che prima attorniavano le dame e poi s'erano aggruppati intorno all'una e all'altra di esse, venivan creduti amanti felici di altrettante signore presenti. Nessuno l'avrebbe indovinato al loro contegno, salvo forse a qualche rapido sguardo di sospetto geloso, saettato di quando in quando da un capo all'altro della sala. La meno prudente era una nobile signora sui quarant'anni, scollata sino a mezzo il dorso, sfoggiatamente elegante. Ell'era venuta dopo le altre, sola, un momento prima del suo amante, un giovane ufficiale d'artiglieria. Quando l'infelice parlava a qualche signora, colei lo mordeva cogli occhi.
Faceva caldo là dentro, benché fossero aperte due larghe porte che mettevano in due altre sale illuminate: la sala dei grandi ricevimenti, gialla, grandissima, zeppa di suppellettili e quadri antichi: e la sala da musica, rosso-cupa, dove s'intravvedeva la voluttuosa Baiadera di C..., in marmo di Carrara. Nella sala azzurra v'era un tepore profumato di bellezza viva, segretamente disposta ad amare. Quei vapori salivano al cervello di Silla e, sopravvenendo dopo lunghi mesi di vita solitaria e studiosa, glielo offuscavano, gli dicevano quale fosse la felicità intensa, la vera, la sola, sia pur fugace, che è offerta all'uomo, sia pur da un cattivo genio; essere follemente amato da una di quelle donne altere con lo squisito condimento di tutte le eleganze e della colpa.
«La Mirellina non si vede» disse qualcuno.
Era la terza volta che si ripeteva questo discorso, ma la nobile signora venuta per l'ultima non l'aveva inteso.
«Che orrore, neh, Laura?» le disse la padrona di casa.
«Cara...» rispose donna Laura che badava ad altro. «Giboyer, neh?»
«Oh giusto!» rispose Giulia ridendo. «Non parlo mica della commedia.»
«Laura non poteva vedere» osservò un'altra signora.
«Ah, sicuro, perché ci stai sopra.»
«Ora capisco!» esclamò donna Laura. «Altro che orrore. Me l'ha detto mio marito. Vi vedevo tutti guardare e non capivo il perché. Vedevo un ciuffo de' capelli rossi di don Pippo e un braccio nudo dall'altra parte.»
«Io però» osservò un'altra signora dopo aver dato un leggero colpo di ventaglio al suo vicino che le sussurrava qualche cosa all'orecchio «io trovo che la Mirellina ha avuto torto di andar via.»
«Si è tradita da sé» soggiunse un giovane elegante che afferrava sempre l'occasione di tradurre le frasi degli altri, tanto per parlare.
Ne seguì un dialogo animato fra tutti. Chi biasimava, chi scusava questa "Mirellina" ch'era partita dal teatro perché il suo amante v'era comparso con una signorina di ventura. Si parlava molto ma evitando ogni espressione troppo viva riguardo alla dama, velando e smorzando le parole per non offendere, senza volerlo, alcuni dei presenti di quelli che avevano simili intrighi.
«È stato un capriccio di Pippo» disse un giovinotto. «Ella ne ha perdonati tanti a suo marito; dunque?...»
Ci fu un breve silenzio, come quando taluno dice cose poco opportune.
«E lei, chi è, propriamente?» chiese la signora che non aveva capito bene.
Parecchie voci le risposero; qui non c'eran più riguardi. Era una russa, no, un'inglese, no, un'americana. Ciascuno degli uomini pretendeva essere informato meglio. Si chiamava Sacha Ferline. Nome falso. Era venuta a Milano a studiare il canto, stava all'Hôtel de la Ville, e spendeva moltissimo: in questo eran tutti d'accordo. Don Pippo n'era innamorato. Tutt'altro! Alcuni parlavano di certe attrattive, sorridendo misteriosamente. Le signore pigliavano un'aria seria, si parlavano tra loro con gli occhi maliziosi.
Il cameriere annunciò la signora Mirelli.
Fu un soffio agghiacciato. Giulia, che stava preparando il thè, corse rossa rossa incontro a donna Milla Mirelli, una bella piccina, rotonda, pallida, con gli occhi neri.
«Oh, cara, cara!» diss'ella. «Non ti speravo più.»
«Che vuoi? Mio marito ha mandato a chiamarmi a teatro per Max. Sai com'è mio marito. Max aveva tossito una volta, non era niente. Intanto io mi son tutta rimescolata... Buona sera, Laura... E son venuta a compensarmi da te... Buona sera, Emilia... Ho fatto bene? Buona sera, buona sera.» Tutti si erano ricomposti, facevano ressa intorno a donna Mina per salutarla, con un fervore insolito. Giulia tornò al suo thè. Dame e cavalieri rimasero in piedi, conversando di certe cose, della commedia, del principe di Piemonte che vi assisteva, di madamigella Desclée a cui le signore facevano qualche piccola censura. Gli uomini approvavano per cortigianeria; in cuor loro andavano tutti pazzi della Desclée. Silla che l'aveva udita una volta sola, ne prese la difesa; parlò del suo sguardo magnetico, del sorriso, della voce intelligente, di quel je t'aime dolce e grave che faceva pensare alla voce della regina Yseult nel verso di Maria di Francia:

La voix douce et bas li tons.

Non era corretto, in quella riunione, il calore del suo parlare. Molti ne sorrisero; pure, a taluna, questo giovane che ragionava con tanto fuoco della grazia e della bellezza non dispiacque. Lo punsero con qualche epigramma a fior di labbro, accentato di freddezza beffarda; ma poi più d'una gli rivolse la parola chiedendogli a bruciapelo, indiscretamente, delle sue opinioni e dei suoi gusti. La contessa Antonietta V..., una brutta sentimentale, amante di Heine e di Schumann, se lo trasse vicino per dirgli in segreto che lo approvava, che la Desclée era la donna da lei più invidiata sulla terra, che quella gente lì non capiva niente. Disse che avrebbe voluto sapere da lui se andassero d'accordo in tante altre cose, lo invitò ai suoi lunedì e finì porgendogli, con un sorriso, la sua tazza di thè vuota.
«Guarda l'Antonietta» disse una signora a donna Mina.
«Adesso comincia a parlar d'amicizia. Non credi?»
«Ma lui, chi è?» rispose donna Mina, distratta.
«Un certo Silla, nipote di filandieri, credo, che fila dei libri clandestini.»
Giulia gittò due parole nell'orecchio a un giovane, che andò quindi spargendole qua e là, sottovoce, e poi s'accostò sorridendo al maestro M... che sorseggiava il suo thè in disparte. Il giovane pareva domandare qualche cosa e il maestro schermirsi. Più persone gli si strinsero attorno insistendo con la voce e il gesto. Donna Giulia gli mandò senza muoversi una delle sue vocine toccanti. Allora colui si arrese e mosse, tra i "bravo" sommessi, verso la sala da musica, gemendo:
«Ma... non saprei... veramente.»
Giulia gittò altre due parole nell'orecchio del suo primo ministro e, passando presso a Silla, gli disse piano e rapidamente, senza guardarlo:
«Lei resti qui con me.»
Tutti si avviarono nella sala da musica.
«Cosa suonerò?» disse il maestro, seduto davanti a un magnifico Érard, con le mani sulle ginocchia, guardando la candela di sinistra.
«Ci suoni Frühlingsnacht» gli sussurrò con la sua voce timida la contessa Antonietta, che suonava ella pure stupendamente.
«Oh, troppo poco» disse l'agente segreto di donna Giulia. «Ci vuole un gran pezzo di concerto.»
A quel tempo regnava ancora Thalberg. Qualcuno propose la sua fantasia sulla Sonnambula.
«Ecco il temporale» disse donna Giulia a Silla, mentre il maestro tuonava sulla tastiera per isgranchirsi le dita, come un Giove invecchiato.
Ella si gittò in una poltrona dove non potevano vederla dall'altra sala. I suoi capelli biondi, le spalle ignude spiccavano mirabilmente sul raso azzurro. Batté con la punta del ventaglio di madreperla e pizzo una scranna vicina. Silla obbedì.
«C'è una signorina» diss'ella «che s'interessa molto di Lei.»
«Di me?»
«Di Lei. La prego, Silla, non faccia il modesto. Non mi piacciono gli uomini modesti. Di lei, sicuro. Una signorina molto bella, molto nobile, molto elegante, di molto spirito, molto amica mia insomma. Faccia un inchino. Questa signorina ha letto il suo Sogno anonimo e le è piaciuto molto, pare, come è piaciuto a me.»
Silla fece un secondo inchino.
«E questa signorina» diss'egli sorridendo «si chiama...?»
«Oh come corre, come corre!» rispose donna Giulia con una risatina sottovoce. «Questa signorina non si può sapere come si chiama. Questa signorina non conosce Lei. Sa appena il suo nome, perché gliel'ho fatto sapere io l'anno scorso dopo quel giorno che ci siamo incontrati in via San Giuseppe. Me lo aveva chiesto pochi giorni prima, ma se non era il nostro amico di Berlino e un po' così...» (Donna Giulia si fece scintillare sulla fronte, con un atto grazioso della mano, gli anelli) «non l'avrei saputo certo. Convien dire che il nome le sia andato molto a genio perché le ha messa attorno una curiosità, un interesse, una cosa insomma! Sa? Voleva conoscere la Sua vita, le Sue abitudini, le Sue relazioni, tante cosettine a cui ci teniamo noi donne. Io le avevo promesso un monte di informazioni, sperando che quest'inverno Lei si sarebbe lasciato vedere un po' di frequente. Ma Lei ha fatto l'orso. Dio, Silla, come ha fatto l'orso! Dunque senta; adesso deve venire spesso, spesso, spesso e lasciarsi studiare un po'.»
Ella gli stese la mano sorridendo e trattenne quella di Silla.
Donna Giulia aveva una bella riputazione di civetta.
Si diceva però ch'ell'era una farfallina d'amianto.
La definizione era attribuita a suo marito che non le si vedeva mai accanto né in casa, né fuori, e che avrebbe giustificato a questo modo, in un colloquio intimo, la sua fiducia indolente. Silla lo sapeva; gli balenò che la signorina ignota fosse una ispirazione poetica, ma egli presumeva troppo poco di sé per affermare risolutamente quest'idea.
«Verrò certo» diss'egli «ma non per una x così nebulosa...»
«No, no, no» lo interuppe Giulia. «Non complimenti. Dio, ne sento tanti, Silla! Dica che verrà molto per la x e un pochino anche per me, non è vero? o per mia cugina Antonietta» soggiunse con un malizioso sorriso «La conosceva?»
«L'ho vista una volta in casa B...»
«Ah, va dalla B..., Lei? Senta, non cerchi mica la x fra le mie amiche, sa! Non sta a Milano.»
«Non sta a Milano?» disse Silla trasalendo.
«No. Zitto adesso. Come è bello questo.»
Il piano cantava:

Ah non credea mirarti.

La lenta melodia saliva saliva affannosamente una via dolorosa, cadeva spossata, rilanciavasi avanti, ricadeva con la sua divina grazia di movenze.
«Dio, come pesta» disse Giulia. «Capisco niente» soggiunse in milanese sospirando. «Senta adesso se non pare una canzone napoletana:

Piangeva sempre ca dormiva sola.»

Ella si commoveva, il suo petto, le spalle si sollevavano, tradivano un flutto interno. Alla ripresa della melodia mormorò:
«Questo lo fa bene.»
Infatti M... eseguiva la variazione del trillo perfettamente. Pareva un tremito melodioso di due ali prigioniere, folli di dolore.
«Non sta a Milano» riprese Giulia, tranquillissima, quando ricominciò più furiosa che mai la tempesta degli accordi. «Oh, sta in una cornice romantica. Si figuri un laghetto perduto tra le montagne, un castello nero nero seduto sulla riva verde, un castellano nerissimo, insomma un'occhiata di Scozia. Io non ci sono stata, sa, ma me lo figuro così. Ci devono essere dei grandi cipressi. D'un solitario poi! Il lago è impossibile, senza ville tranne questa. Se non fa lui un po' di causerie quando c'è vento, silenzio profondo sempre sempre. La mia amica ha una barchettina e gira sola, magari la notte, come una dea selvaggia. Sa, un magnifico posto per un capriccio, per passarvi un quindici giorni in buona compagnia, dormant peu, rêvant beaucoup, leggendo qualche libro amico, dolce e tranquillo, erborizzando sulle montagne, facendo musica la sera, sul lago; non di questa, però! Povera Sonnambula, che eccidio, quel Thalberg! Ma lei, la mia amica, ci fu relegata sola, con uno zio tiranno...»
Giulia balzò in piedi, interrompendosi, e corse nell'altra sala, mentre M... rosso, sudato, coi capelli cadenti sugli occhi, schiacciava gli ultimi accordi. Ella batté, piano, le mani.
«Perfetto» disse.
Vi fu qualche altro sommesso applauso e molti "benissimo" detti più o meno forte secondo la riconosciuta autorità del giudice. Quelli che non capivano affatto si sussurravano fra loro:
«Benissimo, eh?»
«Perfettamente.»
La contessa Antonietta cercava Silla con gli occhi. Egli comparve qualche momento dopo, pallido, trasognato. Andò a contemplare la Baiadera di marmo.
«Che le pare di questa musica?» gli sussurrò a fianco la vocina morbida di donna Antonietta.
Egli si voltò bruscamente, come sorpreso; credette che la signora gli avesse parlato della statua, e rispose a caso:
«Bellissima!»
«Oh, anche Lei! No no, è un orrore. Voglio rifarla io la Sua educazione musicale.»
«Antonietta!» disse donna Giulia. «Mi accompagni un po' di Schumann?»
«Certo cara. Lei stia attento» disse donna Antonietta a Silla, sottovoce; e andò al piano, levandosi i guanti, fra un fuoco vivo di complimenti.
Allora l'ufficiale d'artiglieria, un piemontese, piccolo, snello, con due occhi sfavillanti di brio diabolico, venne a stringere la mano a Silla.
«Tu qui!» diss'egli.
Conoscenti d'Università, si erano poi riveduti, ma di rado.
«Sediamo qui in un angolo» soggiunse l'ufficiale «e chiacchieriamo un po' mentre quegl'imbecilli si rompono la testa col loro Schumann. Come va che ti trovo in società? In tre mesi che sono a Milano non ti ho veduto mai. Qual è la tua?..»
«La mia?»
«Eh, Cr..., sì la tua maîtresse? Sai qual è la mia? È quel pezzo là in bianco e mauve (malva) con quel monte Rosa di spalle. La conosci? È contessa, baronessa, marchesa, che so io, il diavolo che la porti. Cambio presto, è troppo gelosa. Un pezzo da quaranta suonati. Ma è ancora bella donna. Cr... se è bella donna! E come sente! La tua non sarà mica quel gambero che suona, eh!»
«Sei pazzo, taci» rispose Silla.
«È forse la... la... è inutile, io dimentico tutti i nomi; quella bruna in rosa, insomma? Ah no no! quella lì è di B... La padrona di casa, canaglia?»
«Ma no, via, taci.»
«Bravo, a quella lì ci voglio far la corte io. Toujours de l'audace. Ma è impossibile che non ci abbi anche la tua. Cosa si viene a far qui se non si viene a fare all'amore? Guarda che gruppo di belle donne! Posson dar dei punti, per forme, a quel pezzo di marmo lì, ci scommetto; almeno la mia certo; e sono di marmo caldo. Vedi la bruna, che magnifiche occhiate a B.... Guarda tre passi a destra, gira gira adagio finché trova gli occhi di lui, vi getta dentro un bacio e finisce piano piano il suo quarto di giro.»
Intanto donna Giulia cantava con poca voce ma con molta arte un'appassionata musica scritta da Schumann su parole di Reine. Ella usava questa inelegante versione fatta per lei da un poetucolo giovinetto che palpitava presso il piano, guardando la dolce bocca onde uscivano, ebbri di amore, i suoi versi.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
Giacevi nell'avel.
Balzai dal sonno; il pianto
Spandeami a' cigli un vel.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
Ero tradito e sol.
Balzai dal sonno, e tanto
Piansi d'amaro duol.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
M'eri fedele ancor.
Balzai dal sonno; il pianto
Pioveami a fiumi ognor.

«Lasciami ascoltare» disse Silla, e andò all'angolo opposto della sala. Si trovò presso alla signora Mirelli ch'era pallidissima e aveva le lagrime agli occhi. Donna Giulia cantava:

Ho pianto in sogno, ho pianto:
Ero tradito e sol.

Pareva veramente una musica mista a qualche triste sogno, con le sue prime note insistenti dolorose. Diceva a Silla come la piova in casa di Edith: «Piangi, il tuo sogno è finito». Ma egli, sbalordito, credeva di sognarne un altro, amaro anche questo. L'amica di donna Giulia era Marina. Marina avea tanto pensato a lui! Ah, quello sguardo sorpreso al chiaro dei lampi! Forse lo aveva amato. Sperarlo adesso quando egli avrebbe avuto bisogno di dimenticare il mondo e l'anima nelle braccia di una donna, ed ella viaggiava, novella sposa, chi sa per dove! Derisione, derisione! Gli altri erano felici! Gli altri avevano l'amore voluttuoso di cui respirava il profumo, l'amore appassionato di cui ascoltava lo slancio nella musica che mirava su verso il cielo, spossata, in un grido:

Balzai dal sonno; il pianto
Pioveami a fiumi ognor.

Gli altri, gli uomini come quell'ufficiale!
Gli applausi, assai caldi stavolta, lo scossero. Si avvicinò al piano, con la febbre addosso.
Tutti lodavano la musica e le esecutrici che invocarono una parola di lode per il poetucolo, rosso rosso. Egli ebbe da donna Giulia uno special sorriso a cui parve tenesse molto.
«Dunque?» chiese donna Antonietta a Silla, riassettando i guanti alle sue dita affusolate. «Ha pianto?»
«No, perché non piango mai; ma ho sognato di piangere.»
«Malheur à qui n'est pas ému» diss'ella. «Lunedì le faremo sentir qualche altra cosa.»
Ella andò quindi ad abbracciare Giulia.
«Addio, cara» disse.
«Così presto?»
Fu il segnale dello scioglimento. Tutte le carrozze erano state annunziate. Baci, sorrisi, paroline affettuose, ringraziamenti. Silla fu degli ultimi che vennero a stringer la mano a donna Giulia. Ella gliela rifiutò.
«Aspetti lì» disse. «La sequestro per due minuti ancora.»
Si voltò quindi al prigioniero. «Pensare» diss'ella «che io ho fatto una brutta parte per Lei, prima di conoscerla! Non mi domandi niente, non voglio essere indiscreta. Dica un poco, Silla, non piglia fuoco per le mie rivelazioni di stasera? Ne aggiungerò un'altra; quest'inverno la signorina voleva il Suo ritratto. Io ho detto: no, carina, si va troppo avanti. Adesso poi, se ha pigliato fuoco, spengo. La signorina dev'essersi fatta sposa ier sera ed è felice. Lo porti a me, il ritratto. Sempre il venerdì, sa bene, tra le quattro e le sei.»
«Ma...»
«Non c'è ma. Vada, vada che non facciamo dire cattiverie. Venerdì!»
Egli discese le scale dietro la Mirelli, ch'era con donna Laura. Pareva che avessero lasciato in sala il loro viso amabile e presone uno brusco nell'anticamera. La Mirelli parlava piano, in fretta, guardando in basso.
Silla non intese che queste parole:
"Ho capito benissimo."
C'erano cavalli nell'atrio che si impennavano, scalpitavano, facevano il fracasso d'uno squadrone. Gli staffieri chiamavano le carrozze. Silla scivolò in mezzo a quella confusione e uscì solo.
Stava per mettere la chiave nella toppa della sua porta, quando fu accostato da un fattorino del telegrafo.
«Di grazia» disse questi, «un certo signor Corrado Silla la sta in quella porta lì?»
«Sono io.»
«Tanto meglio. Telegramma urgente. Vuole un lapis?»
Silla scrisse la ricevuta sotto un fanale vicino. L'altro se ne andò. Silla aperse il telegramma e lesse:

Il conte Cesare, gravemente infermo, desidera che Ella venga al Palazzo. M. di Malombra, ne La prega. Domani alle 10 ant. Vi sarà un calesse alla stazione.
Cecilia

Egli partì alla mattina.
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