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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

MALOMBRA (II Parte ) Il ventaglio rosso e nero - 2

di Antonio Fogazzaro

4. Intermezzo

Era corsa una settimana dall'arrivo di Edith e dei Salvador al Palazzo. La contessa Fosca pretendeva d'aver avuto, i primi due giorni, una gran soggezione sia per il muso lungo del cugino, sia per il muso lungo delle montagne. Guai, diceva lei, se le fosse mancato il conforto di Marina! Sarebbe partita subito. E concludeva che a questo mondo non bisogna mai disperar di nulla, fuorché di veder Cesare pettinato. Adesso si trovava proprio come in paradiso; Cesare si era sbottonato, gli altri si erano sbottonati, aveva potuto sbottonarsi anche lei e - oh Dio - si respirava. Adesso non c'era pericolo che la contessa Fosca avesse soggezione. O per complimenti a Marina o per blandizie a suo figlio, o per rabbuffi al conte e a Steinegge, o per apostrofi strambe ai domestici, o per esclamazioni e soliloqui, la sua voce era sempre in aria. In questo non somigliava di certo alla gentildonna veneziana del Palma, ch'ella giurava e spergiurava, Palma o non Palma, essere il suo ritratto fattole a tradimento un trent'anni addietro, probabilmente quando era andata al ridotto da dogaressa del 500. Nepo recitava al conte in tono oratorio, per abituarsi alla Camera, delle lunghe tirate d'economia politica, gli raccontava di aneddoti politici della capitale. A Marina parlava di mode e di tutte le contessine e le marchesine che aveva conosciuto a Torino, riferendo i dialoghi tenuti con loro e avendo cura di intercalarvi spesso «Voi Salvador, voi Maria, voi Emma, voi Fanny ecc.» Le dedicava pure le sue goffe spiritosaggini insolenti; le nascondeva i libri, le mutava un guanto, faceva dondolar Saetta quando andavano sul lago. Sfoggiava senza pietà per Marina le toelette più irresistibili, a tinte austere la sera, tenere la mattina; tanto tenere che qualche volta Nepo, profumato come era, pareva un boccone di crema alla vaniglia. E il glorioso corno degli avi magnanimi, quel corno

che valeva assai più che una corona

si era sciolto,

Benché re de tutti i corni,

in una minutaglia di cornetti burla, piovuta sui bottoni, sulle spille, sui fazzoletti del pusillanime nipote, malgrado la spiccata antipatia della contessa Fosca per questo emblema che le suggeriva dei motti democraticissimi. Steinegge, a cui la contentezza sprizzava da tutti i pori, era il cavaliere ufficiale di Sua Eccellenza che aveva molta bontà per lui. «Il cucchiaio che va a spasso con la scodella» diceva la contessa quand'egli le dava il braccio. Però prima di accordargli tanta confidenza si era fatto spiegar che non era austriaco né amava gli austriaci; e ci volle del buono perché potesse capacitarsi che l'è todesco e no l'è todesco «Vorrete dire che è todesco, ma non tiene dai todeschi?» esclamava la povera donna. E finiva con dire: «Mi fido, mi fido.» Ne domandò allo stesso Steinegge, al quale, poi, accordò sincera amicizia, giungendo fino a raccontargli certi aneddoti molto scabrosi con sì poca prudenza che Steinegge, se Edith era vicina, fremeva.
Steinegge pareva rabbonito con la stessa Marina, forse perché tra pochi giorni avevano a separarsi partendo egli con Edith per andare a stabilirsi a Milano; ed era questo un piacere comune. Marina prendeva qualche volta a braccetto Edith per fare un giro in loggia o in giardino. Edith non sembrava lieta di questi favori e se ne schermiva. Il suo contegno con Marina era freddo quanto glielo consentiva la sua condizione di ospite: e non mancava in quel riserbo un'ombra di alterezza. Non si poteva accusarne il sangue tedesco. Per la contessa Fosca, Edith mostrava viva simpatia, e anche pel conte Cesare, benché in tutt'altro modo. E il conte Cesare era affettuoso con lei, aveva combattuto i suoi propositi di immediata partenza, le si apriva più assai che a suo padre: le parlava della sua vita solitaria con l'amarezza pacata che copre dolori profondi, e le diceva di sentirsi scossa la salute ferrea goduta sin allora. Con i Salvador, tanto agli antipodi della sua natura, il conte si mostrava paziente oltre il prevedibile. A Marina non rivolgeva quasi mai la parola. I loro sguardi non entravano direttamente l'un nell'altro in nessun caso; correvano obliqui a incrociarsi in un punto X più o meno lontano, come certe linee ipotetiche di teoremi geometrici. L'umore di Marina era dei più mutabili. Da lunghe ore di calma taciturna passava ad impeti di nervoso brio. Civettava un momento con Nepo a segno di stordirlo, di levarlo da terra; poi non lo guardava più, non gli rispondeva. Viveva, si può dire, d'aria; e non era mai stata così bella. Sotto le due bende ondulate di capelli che scendevano curve fin presso le sopracciglia, quasi a nascondere un segreto pensiero, i suoi grandi occhi gittavano fuoco assai più spesso del solito. Nella sua persona, musica inesprimibile di curve armoniose dall'orecchio finissimo alla punta del piede arcuato, si vedeano alternarsi l'energia e il languore di una vita nervosa, esuberante. Insomma ella era come un nodo di ombra, di luce e di elettrico; che cosa chiudesse, nessuno lo sapeva.
Quasi ogni giorno si facevano gite sul lago o sui monti. Era la contessa Fosca che metteva fuoco, per così dire, alla brigata, senza farne mai parte. Ne aveva abbastanza di girar per casa! Perdeva spesso la tramontana sulle scale o nei corridoi. Allora chiamava Catte, chiamava Momolo. Catte era già pratica d'ogni buco quanto un vecchio topo; ma il povero Momolo non ne poteva venire a capo e non era infrequente il caso che all'appello della contessa rispondesse quasi di sotterra la sua voce lamentevole. «Pronto, Eccellenza; ma non so da che parte». Gli Steinegge erano andati due volte alla canonica e don Innocenzo avea fatto anche lui una visita al Palazzo. Quanto al dottore, non vi si era più veduto.
Bella e allegra compagnia era quella che pranzava nel tinello. Motti, burle, grossi equivoci, galanterie bernesche, botte e risposte di taglio e di punta, sussurri maligni, risate, strilli, mugolii di mangiatori disturbati, s'urtavano, s'incrociavano, si mescolavano sotto le volte basse. Un tocco di campanello troncava netto quel tripudio di ranocchi indiavolati; poi scappava fuori daccapo una voce, un'altra, una terza, tutto il concerto. La Giovanna se ne crucciava inutilmente. Chi faceva le spese di tanto chiasso era per lo più Momolo che sapeva dir solo «andiamo, andiamo, da bravi». Da Momolo, i beffeggiatori passavano al parlare veneziano, a Venezia stessa; ma allora bisognava sentire e veder Catte, riconoscere che cinque o sei lombardi son pochi davvero per azzuffarsi a parole con una brava calèra del buon sangue veneziano. Con quattro frustate in giro li faceva stare indietro tutti, poi ne sceglieva uno e lo tempestava di motti e di frizzi, voltandogli addosso le risate della compagnia, sprecando un tesoro di spirito e concludendo, inebetita la vittima, che non c'era gusto.
«Andate là» diceva qualche volta Fanny «stiamo più allegri noi che i sciori.»
Allora si chiudeva il torrente delle risate e si aprivano i mille rivoli del pettegolezzo. Tutta la compagnia bisbigliava. Alla Giovanna quei bisbigli non piacevano; ma Catte sosteneva che a nu, poarini, era lecito, lecitissimo ascoltare alle porte, leggere le lettere, dar ordine alle tasche ed ai cassetti dei padroni. Non vanno alla commedia i padroni? Dunque anche la povera servitù ha da potersi godere la sua matta commedia, già che in casa la danno per niente. E se non la vogliono dare, ciò, la si prende. Quello non è rubare; agli occhi e alle orecchie non ci resta attaccato niente. Se si mette la mano in un cassetto è a fin di bene e non per brutte cose, e, dopo, uno si lava nell'acqua dei padroni.
La commedia in scena era questa: S. E. Nepo e il suo matrimonio. Quella gente aveva fiutato il titolo in aria per istinto. Si era ancora al prologo; un prologo occulto da cogliersi negli sguardi, negli atti, nelle parole più indifferenti, forse in qualche colloquio recondito in cui gl'interlocutori credevano non essere uditi neppure dall'aria. Catte ne aveva parlato lungamente a Fanny, rispondendo agli elogi che la cameriera civettuola faceva della bellèssa di Nepo, della bianchèssa di quelle mani da popòla e della sua gran scichèssa in generale. Catte le aveva rappresentata la cosa come un gran beneficio cui la Provvidenza, aiutata dalle Eccellenze Salvador, stava per recare a donna Marina. Ella magnificava non poco le ricchezze de' suoi padroni, i due palazzi di Venezia, di qua e di là dall'acqua, la colossale villeggiatura con i porticati lunghi come le procuratie, i reggimenti di statue, i granai capaci di sfamare tutti i topi e i pitocchi di Venezia, e la famosa aia grande come la Piazzetta. Fanny beveva queste notizie e le spandeva tra i colleghi: «Che senta, che senta! La dice così e così». Pareva che stesse per ereditar lei tutta questa roba. Gli altri facevano spallucce. Che ne importava loro? E chiedevano a Fanny s'ella credeva di andar a far la principessa. Fanny, piccata, rispondeva: «Che sciocchezze!». Principessa no, ma intanta non sarebbe più stata ad ammuffire in quel mostro d'un sito, fabbricato dal diavolo per i suoi figli. Allora le si faceva osservare che il matrimonio non era poi mica ancora sicuro; e qui cominciavano le congetture, si avviavano delle conversazioni come questa:
«Lui già è innamorato morto.» «Ho visto io ieri che alzandosi da tavola lei aveva impolverata la punta d'uno stivaletto.» «Ouf, mica vero.» «Come, mica vero? Ce lo dico io. E poi si mangian su cogli occhi.» «Invece no. Lei non ci guarda quasi mai. È lui che è sempre lì a questo modo!» «Storie!» «Già si sa che la signora Fanny non vuol credere.» «Perché non voglio credere, signor Paolo?» «Non ha preso su qualche mezza oncia, Lei, dal signor conte?» «Ebbene, cosa c'è dentro?» «Qualche bacio?» «Bugie, bugiacce! Non ha vergogna? Nessuno me ne ha fatto dei baci a me.» «Eh lasciate dire, benedetta. C'è la libertà qui. Prima se lassa far dopo se lassa dir; voi non c'entrate. E poi cos'è un bacio. Tempo buttato via.» «Oh che süra Catte!» «Cosa dice Momolo? Che si faccia l'affare o no?» «Cosa volete che dica? Bezzi cercan bezzi.» «Ehi, guarda un po', è mica da merlo quella risposta lì. Già, l'è così la storia. Lui le fa l'asino, tanto per parere; e lei che ci vuol bene al padrone qui come al fumo negli occhi, lei se lo lascia fare tanto per cavarsela; ma l'è tutta una macchina dei vecchi. Han denari come terra e voglion fare un mucchio solo.» «Tacete, ha ragione qui lui! Stamattina la contessa ha preso una rabbia, perché sono andata in sala mentre l'era sola col signor conte e poi è venuto il Sindaco e non andava mai via, mai via e mai via, che bisognava vedere! Certo la ci voleva parlare e non ha potuto, perché poi sono tornati a casa gli altri. È chiara, neh, süra Catte?» «Come questo caffè, vecia.»
Catte aveva poi dei colloqui intimi con Fanny nelle passeggiate vespertine che facevano insieme. Donna Catte

Picoleta ma furbeta

sapeva divertirsi alla commedia per conto suo e recitare per conto degli altri. Perché mai cercava ella, così acuta e sarcastica, il favore della scipita Fanny? Perché la blandiva con tutti i possibili cocolezzi? Perché la faceva sempre parlare di donna Marina? Essa la strizzava come un limone, ed ebbe presto finito di spremerne il sugo, che non era molto davvero, benché contenesse ogni sorta di cose. Le informazioni e i giudizi di Fanny, accomodati e cuciti da Catte a modo suo, erano porti a S. E. la contessa Fosca che li accoglieva con gravità solenne come avrebbe fatto, in argomenti di Stato, uno dei Cai antenati di suo marito. Ella seppe così che Marina era amica intima di Fanny e le confidava tutto; che godeva di una salute regolarissima e non aveva in tutta la persona un difetto, una cicatrice, che non aveva potuto soffrire il signor Silla; che portava biancheria di seta; che leggeva una quantità di libri gialli e rossi; che era mite come un'agnellina. Fanny aveva detto qualche altra cosa, una cosina ghiotta che Catte offerse alla contessa con molta arte, con uno straordinario sfoggio di segretezza, ecco: pareva a Fanny che la marchesina fosse innamoratissima di Sua Eccellenza il conte. Ma la contessa con quell'aria di dabbenaggine spensierata, sapea osservare e se ne intendeva di questi argomenti. All'udire la grande notizia alzò gli occhi in viso a Catte, la guardò un poco e disse solo:
«Sei vecchia, tu?»
«Gesummaria, Eccellenza!»
«Anch'io, sa!»


5. Il ventaglio rosso e nero

Una mattina la contessa Fosca e il conte Cesare si trovarono soli a colazione. Tutti gli altri erano andati a vedere il posto della futura cartiera insieme all'ingegnere Ferrieri, al Finotti e al Vezza, ritornati, il primo per gli affari, gli altri due per vedere un Orrido vicino, pochissimo conosciuto, dove s'era combinato di andare il giorno dopo.
La contessa Fosca pareva ancora più gaia del solito, aveva la parrucca per isghembo e lanciava al conte delle occhiate serie che non s'accordavano con il suo cicaleccio scherzoso. Parlava di cento cose, saltando di palo in frasca. Il conte le rispondeva a monosillabi, a brevi parole buttate là per voltar da sé la corrente. A ciascuna di queste risposte la contessa cambiava argomento, senza maggior frutto. Non se ne mostrava stizzita. Tutt'altro; anzi era sempre più amabile, tanto che il conte tra i suoi già, certo, sicuramente, le lanciò due occhiate di cui la prima alquanto lunga voleva dire: «che diavolo c'è?» e la seconda, assai breve, «ho capito». Poi non la guardò più.
La contessa tacque un momento, si buttò indietro sulla spalliera della seggiola e si pose a giuocare frettolosamente col suo ventaglio verde, facendosi svolazzar i nastri della cuffia intorno al faccione ridente.
«Che peccato, Cesare?» diss'ella.
«Ma!»
«Che peccato non esser più giovani!»
«Oh, sicuramente.»
«Si sarebbe andati a spasso anche noi, e invece ci tocca di star qui a guardarci come due trabaccoli marci in cantiere.»
Il conte non poté trattenere un movimento combinato di tutte le rughe del viso.
«Eh» gridò la contessa «pensate voi se io sono andata giù un pochetto, d'essere un bel capo, voi? Che arie!» Qui la contessa, vociferando sempre, si versò da bere.
«Eh, perché mi fate quegli occhi? Credete che spanda? Non ho mica la tremarella, sapete. È la tovaglia di santa Costanza, questa? Perché, digo, credo che siate di quel tempo. Dunque, cosa si diceva? Mi avete fatto perder la testa con le vostre smorfie. Oh Dio che caldo! E star qui con voi! Era ben meglio che fossi andata a vedere questa maledetta cartiera. Quelli si divertono! Via, siate buono! datemi una pesca. Se si divertono! Grazie, tesoro. Dite sì o no che si divertono?»
«Non lo so.»
«Non lo so? Io sì che lo so. Bello quel non lo so!»
«Vi piace quella pesca?»
«No, non val niente. Cosa c'entra la pesca? Lasciate star le pesche, caro voi. Che uomo che si perde con le pesche! Cosa dicevamo?»
«Io? Niente.»
«Niente fa bene per gli occhi e fa male per la bocca. Parlate, dite su. È un'ora che parlo io. Mi fate compassione. A questo modo scoppierete. Contate su. Perché non volete che quei ragazzi si divertano?»
«Udite» disse il conte sorridendo «io mi sono divertito molto da un'ora a questa parte e siete voi che mi fate compassione. Voi volete passare piano piano un'acqua un po' larga e profonda e andate su e giù per la riva, cercando il ponte che non c'è. Non vi resta che saltare, cara cugina. Saltate pure, non vi farete male.»
La contessa diventò scarlatta, e spinse via bruscamente il suo piatto su cui posava un calice pieno di barolo. Il calice si rovesciò sulla tovaglia, il conte trasalì, cacciò fuori tanto d'occhi e Sua Eccellenza esclamò:
«Niente, caro. Nozze! Ecco».
Il conte sbuffava. Ci vollero tutte le tradizioni cavalleresche della sua casa per trattenerlo dal prorompere contro l'avventata cugina. Le macchie lo irritavano come se avesse avuto per blasone la pulitezza. Suonò furiosamente il campanello e gridò al servo: «Via tutta questa roba! Subito».
Fu una cannonata che gli portò fuori in foco e strepito quel groppo di collera e lo lasciò vuoto, tranquillo.
«Vi è passata, caro?» disse la contessa dopo che fu sparecchiato.
Il conte non rispose.
«Anche a me» soggiunse tosto Sua Eccellenza. «Parliamo dunque di questo affare. Sentite, Cesare. Voi a quest'ora, col vostro gran talento che avete, mi conoscete. Io sono ignorante, sono una povera scempia, ma de cuor. Sono tutta cuore. Quando si tratta delle mie viscere, della mia creatura, mi rimescolo tutta, quelle poche idee mi vanno in un mucchio, non vedo più niente, non so più niente. Sono una povera femmina così. Aiutatemi voi, Cesare, consigliatemi voi, guardate voi, dite voi, tutto voi, tutto voi. Voi siete del sangue del povero Alvise. È Alvise che mi dice di mettermi nelle vostre mani per nostro fio, per il mio Nepo.»
Pronunciato questo nome, la contessa, intenerita, si asciugò gli occhi con un immenso fazzoletto.
«Perdonatemi, Cesare» diss'ella. «Sono madre, sono vecchia, sono insensata.»
La voce singhiozzante della signora non era piacevole e non divertiva affatto il conte Cesare, che aveva tirato indietro per isghembo la sua seggiola, e, posta una gamba a cavalcioni dell'altra, la dondolava in su e in giù, guardando la gentildonna veneziana del Palma.
Gli era nuovo quell'aspetto lagrimoso di sua cugina, e gli piaceva ancora meno degli altri. Dopo qualche momento di silenzio in cui la contessa si tenne il fazzoletto sul naso e sull'occhio sinistro, il conte voltò il capo verso di lei e continuando nel maneggio della gamba e ribattendo col dito medio della mano destra Dio sa che nota sulla tavola, disse:
«Dunque?»
«Dunque, oh Dio, qui vedo certe cose che mi fanno paura. Mi capite. Anche in delicatezza non posso tacere. I ragazzi son ragazzi, si sa; ma noi altri dobbiamo aver giudizio anche per loro.»
«Avete paura? Ma ditemi un poco, non era la vostra intenzione questa?»
«La mia intenzione, benedetto? Ma no che non era la mia intenzione. La mia intenzione era di farvi conoscere mio fio, di fare che gli voleste bene, che gli deste dei buoni consigli anche su questo punto del prender moglie. Mi ha rifiutato due o tre partitoni, proprio coi fiocchi, non so perché. Ho cercato, ho fatto cercare se avesse qualche intrigo, qualche pasticcio. Niente, non ha niente. Non è mica un frate, grazie a Dio, e avrà fatto anche lui, si sa, quello che fanno tutti i ragazzi, sfido! però con prudenza, con giudizio, da vecio. D'impegni neppure l'ombra! Dunque? Questa cosa non mi lascia dormire. Io non posso parlare. Egli crede che si cerchi solo l'interesse. Oh Dio, madre sono, e devo pensarle tutte. Lui non vede che il cuore, lo spirito, il talento, la bellezza, il suonare, il cantare e tante altre cose fatte di aria e niente come queste. Cose ottime, ma non bastano. Pensai che forse per ora non volesse legarsi. Ma no: seppi di certo che l'idea l'aveva; un'idea, là, per aria. Son dunque venuta, vi torno a dire, perché gli deste dei buoni consigli. Marina? Ecco il mio torto. Non ho pensato che poteva innamorarsi di Marina. Sentite, Cesare. Io sono Betta dalla lingua schietta. Parliamoci candidamente, benché la sia vostra nipote. Quella ragazza ha fatto un gran cambiamento. Nepo e io l'abbiamo conosciuta a Milano. Con tutte le sue ricchezze, con tutte le sue grandezze, a mio fio non é piaciuta niente affatto. Gli pareva superba, aristocratica. Perché mio fio, in punto aristocrazia, ha tutte le vostre idee, che si usano adesso, dopo che c'è l'Italia. Mio fio non è mica uno di questi spuzzette che vi tiran di naso se non avete quattro quarti. Allora vostra nipote non gli piacque troppo. Non mi è dunque neppur passato per la testa che cambiasse il vento. E ho avuto torto perché adesso, lasciatemelo dire, la è proprio una gioia, un bombon. E poi le sue disgrazie! Non ho pensato alle sue disgrazie, non ho pensato al cuore che ha mio fio. Per il cuore Nepo è tutto me. Il gran cuore, figlio caro, è un peso che tira a fondo, chi ha gran cuore...»
«Ebbene?» interruppe il conte a cui pareva tempo di concludere.
«Ebbene, non dovrei parlar così a Voi che siete suo zio, il suo secondo padre, ma Vi ho già detto la confidenza che ho. Ecco, non so se si possa lasciar andare avanti questa cosa. Vedo il diritto, vedo il rovescio, vedo questo, vedo quello, vorrei e non vorrei. Oh Dio, che strucacuor!»
La contessa si portò ancora il fazzoletto agli occhi. In quella un uscio si aperse, e comparve Catte recando la tabacchiera di Sua Eccellenza. Costei si voltò inviperita e gridò tutto d'un fiato con voce stridente:
«Cavève vu, che ve lo go dito tante volte che no vogio che stè a secar co se parla!»
Catte posò la tabacchiera sopra una seggiola e si ritirò in fretta.
Il conte restò ammirato delle mobili emozioni di sua cugina, la quale, ripiegato lentamente il capo, si riportava il fazzoletto agli occhi.
«Adesso» diss'egli «posso dire una parola io?»
«Oh, benedetto, se l'aspetto come la manna del cielo!»
«Tutte queste cose che avete visto Voi, io non le ho viste; forse sarò miope. Ma lasciamo stare. Non è poi necessario che due persone perdano prima il sonno, l'appetito e la testa, per poter poi vivere insieme passabilmente. A ogni modo, non ci vedo chiaro neppur io in questa faccenda.»
Gli occhi languidi e lagrimosi della contessa si ravvivarono di botto. Ella si posò il fazzoletto sulle ginocchia.
«Io non so vedere» seguitò il conte «quale razza di felicità possa uscire dalla unione di Vostro figlio e di mia nipote.»
«Ciò!» esclamò Sua Eccellenza sbalordita.
«Mia nipote ha molto ingegno e una testa delle più bizzarre che Domeneddio e il diavolo possano mettere insieme quando lavorano a chi più può.»
«Ma che spropositi, Cesare!»
«Niente affatto. Non lo sapete ancora che la marca di fabbrica di quei due signori si trova in tutte le cose di questo mondo? Bene; mia nipote avrebbe bisogno di un marito d'acciaio, forte e brillante. Vostro figlio non è d'acciaio sicuramente. Oh, io non lo disprezzo per questo. Gli uomini di acciaio non si trovano mica a dozzine. Io credo che vostro figlio, il quale, tra parentesi, non ha le mie idee sull'aristocrazia, non sia il marito che ci vuole per Marina.»
La contessa Fosca, ch'era venuta slacciandosi la cuffia, dondolando il capo, e soffiando, rispose:
«Cos'è questo fare? Cos'è questo parlare? Cos'è questa roba? sapete che mi fate venir caldo? Non ho capito bene il vostro discorso, ma se mai fosse contrario a mio fio, come mi è parso, ho l'onor di dirvi con tutto il rispetto al vostro talento, che non intendete niente. Andate a Venezia a domandare di mio fio; sentirete. No, che non è d'acciaio; d'oro è. Di acciaio sarete voi e anche di stagno se occorre. Venite fuori con certe cose che mi fanno proprio uscir dai gangheri. D'acciaio? Si è mai sentito? D'acciaio si fanno le penne, anima mia.»
La contessa interpose qui un breve silenzio e alcuni gravi colpi di ventaglio.
«Che roba!» continuò. «Non ve ne intendete. Oh, non ve ne intendete, figlio caro. E quella poveraccia di Marina, neppur quella conoscete, signor orso. Eh, no no, caro.»
E giù quattro colpi di ventaglio.
Intanto il conte la guardava con uno stupore troppo espresso per essere del tutto sincero.
«Ma allora» diss'egli «è vero, io non comprendo niente. Se avete queste idee, perché diavolo Vi fa paura che vostro figlio faccia la corte a mia nipote?»
«Sentite, Cesare, io avrò tutti i difetti e tutti i torti del mondo, ma son sincera. Mi prenderete in mala parte se parlo schietto? C'è anche questa, che se mio fio lo viene a sapere che vi faccio certi discorsi, poveretta me, non ho più bene, non ho più pace. Mi raccomando, Cesare. Volete che ve lo dica? Questa cosa mi fa groppo in gola, stento a buttarla fuori. È una umiliazione grande, è una cosa contraria al mio carattere, ma i fatti sono fatti, il dovere è dovere.»
La contessa posò il ventaglio sul tavolo, si ripose il fazzoletto in tasca, si riannodò la cuffia, e poi ricominciò lenta e grave:
«Ecco qua. Pur troppo la famiglia Salvador di adesso non è più la famiglia Salvador di una volta. Il povero Alvise è stato molto disgraziato nei suoi affari; e poi abbiamo avuto il 48, e s'è fatto quel che s'è fatto. Non faccio per dire, ma se non era la roba mia i Salvador sarebbero andati a pescar moleche. La roba mia, quando Alvise mi sposò, era tanta. Magari fosse vissuto ancora, benedetta l'anima sua! Si sarebbe in malora; ma contenti. Di quei pensieri, di quelle fatiche, di quelle privazioni ho avuto, figlio caro, che non Vi dico niente. Sempre mangiacarte per casa. Le campagne in man dei ladri; il fattore, capo. Mangia tu che mangio anch'io. Con duemila duecento campi in Polesine, mi toccava di comperare il riso per famiglia; non Vi dico altro. Oh Dio, che vita! Basta, a forza di stenti e di sacrifici, si drizzò la barca. Ma a questo punto dipende da Nepo che non si torni indietro; tutto dipende dal matrimonio che farà Nepo. E adesso ditemi, Cesare; se colla vostra bontà, se col vostro gran cuore non aveste raccolto quella povera Marina, come vivrebbe? Ditemi, benedetto, come vivrebbe?»
«Col suo, vivrebbe.»
«Col suo?»
La contessa Fosca aprì tanto d'occhi.
«Sicuramente. La liquidazione della sostanza di mio cognato ha dato ottantamila lire d'attivo.»
«Bene, pane e acqua, parliamoci schietto.»
«Io non sono veramente così gran signore da dir questo. Io apprezzo ottantamila lire. A me basterebbero.»
«Bene, diremo: pane, acqua e pomi. E poi bisognerebbe vedere se vi basterebbero. E poi prendete una sposina giovane, bella, tutta fuoco, piantatevi a Torino o a Milano con dei maledetti nomacci di questa sorta, lunghi come da qui a Mestre, con una fila mai più finita di palle e di corni, perché ci hanno a essere anche quelli, vestitela, spogliatela, divertitela, scarrozzatela e anche... sto per dire... sì insomma, arrischiate di far crescere la famiglia, e mi saprete dire, coi vostri ottantamila cossa xeli, quanti salti farete. Io vi parlo col cuore in mano, perché vi considero di famiglia, Cesare. La mia prima idea era quella di portar via Nepo sul momento; ma cosa avreste detto di me? Ho pensato di parlarvi prima come farei a un fratello; e così ho fatto.»
«Vi ringrazio molto dell'onore» disse il conte. «Voi mi fate onore assai più che non crediate. Il consiglio che io vi do è di partire subito.»
La contessa tacque, ferita al cuore.
Si udirono in quel silenzio mortale due mosche azzuffarsi dentro una zuccheriera.
«Eh certo» diss'ella. Pareva che Sua Eccellenza, dopo tante ciarle, si fosse trovata a un tratto senza fiato.
«Del resto» disse il conte «è molto possibile che non partirete. Dipenderà da mia nipote.»
«Come, da vostra nipote?»
«Sicuramente. È la mia coscienza che mi ha imposto di darvi quel consiglio, perché non credo che mia nipote e vostro figlio si convengano. Ma voi non avete questa opinione, neppure vostro figlio pare che l'abbia, e potrebbe darsi che non l'avesse neppure mia nipote, la quale è perfettamente in grado e in diritto di avere una opinione. Allora capite bene che io non potrei né vorrei far prevalere la mia.»
«Andate alla Sensa, Cesare? Dopo tutto quello che vi ho detto...»
Il conte si alzò e la interruppe.
«Volete favorire nella mia biblioteca? Ho la debolezza di trattare sempre gli affari in quel luogo.»
La contessa voleva replicare qualche cosa, ma suo cugino, aperto l'uscio, le accennò che passasse. Intascò poi la tabacchiera posata da Catte e seguì la contessa. Quando Sua Eccellenza si fu accomodata in un seggiolone della biblioteca, il conte si mise a camminare su e giù per la sala, muto, con la testa bassa e le mani in tasca, secondo il suo solito. Sua Eccellenza lo guardava senz'aprir bocca, sbalordita. Fatti cinque o sei giri, il conte le si fermò in faccia, la guardò un momento e disse:
«Che vi pare di trecentoventimila franchi?»
Il viso di Sua Eccellenza diventò paonazzo. Ella balbettò qualche parole inintelligibile.
«Trecentoventimila miei e ottantamila suoi fanno quattrocentomila. Che vi pare di quattrocentomila franchi?»
«In nome di Dio, Cesare, cosa volete dire? Non capisco!»
«Oh, voi capite perfettamente» disse il conte con un accento inesprimibile. «È un mistero pel quale non vi mancava né la fede né la speranza prima di parlare con me. Io ve ne ringrazio molto. Voi mi avete fatto l'onore di credere che provvederei con sufficiente larghezza al collocamento di mia nipote, benché non ne abbia alcun obbligo ed ella non porti il mio nome. Non è questo?»
Sua Eccellenza si slacciò da capo la cuffia e proruppe:
«Sa Lei, sior, cosa ho l'onore di dirle? Che a questo modo si tratta con i facchini e non con le dame. Mi meraviglio che in quella fresca età Ella non abbia ancora imparato a trattare il mondo. E mi meraviglio che con i suoi strambezzi, con i suoi zimarroni, e con la sua zazzera La creda di poter fare e dire tutto quello che Le salta in testa. Ella sarà nobile, caro, ma non La è cavaliere. Credete che, se si trattasse di me, non Vi direi: Teneteveli i Vostri bezzi? Credete che rimarrei un'ora di più in questa casa dove mi si manca di rispetto? Ringraziate Dio che di me non si tratta, perché io non ho bisogno né di mio fio, né di altri, e del mio ne avanza e non saprei che farmi dei Vostri trecento pun! né dei Vostri quattrocento, pun pun! E io, povera insulsa, che vengo a parlarvi come a un fratello! Ringraziate Dio, Vi dico, che sono vecchia e userò prudenza con mio fio; se sapesse che gli si attribuiscono mire d'interesse sarebbe capace di sacrificare il suo cuore, la sua felicità e tutto quanto.»
Il calore di quest'arringa non era punto simulato. La contessa Fosca, dopo aver condotto suo cugino al punto che voleva lei, si reputava offesa di sentirselo a dire. E c'entrava forse nel suo dispetto quest'altra piccola delusione, che il conte non avesse detto addirittura, com'ella sperava: «Marina è mia erede».
Il conte stette mansuetamente ad ascoltare le sfuriate di sua cugina, come se non fosse affar suo: e si appagò di rispondere:
«Il vino che versate lascia macchia; le parole no.»
La contessa non parve udirlo. Ella si era già alzata e muoveva brontolando verso l'uscio. Suo cugino in piedi, chino sul petto il capo formidabile, la guardava sorridendo: forse perché Sua eccellenza pareva una papera che, offesa da qualche villano nel suo pasto o nei pacifici colloqui con le amiche o nella contemplazione solitaria, dopo una schiamazzata e una corsa se ne va grave e degna ma tuttavia commossa, mettendo ad intervalli le voci brevi e sommesse dello sdegno suo che si placa. Quando ella fu presso all'uscio, il conte si scosse.
«Aspettate» diss'egli.
Sua Eccellenza si fermò e girò un poco la testa a sinistra.
Il conte le venne alle spalle, porgendole un oggetto che teneva con la mano e batteva con la destra.
Sua Eccellenza girò la testa un altro poco e gittò un'occhiata obliqua alle mani del conte; dopo di che girò tutta la persona. Era una tabacchiera aperta che il conte le tendeva. Sua Eccellenza esitò un poco, fece una smorfia, e disse bruscamente:
«È Valgadena?»
Il conte, per tutta risposta, ripicchiò la tabacchiera con due dita.
Sua Eccellenza porse il pollice e l'indice, soffregandone i polpastrelli uno contro l'altro, con inquietudine voluttuosa; li immerse quindi nel tabacco morbido e disse con voce alquanto rabbonita:
«La fu una grande indegnità, sapete, Cesare.» S'accostò alle nari la sua presa. «Una cosa orribile» diss'ella.
E fiutò il tabacco. Lo fiutò una, due, tre volte, abbassò il capo sulla tabacchiera, aguzzò le ciglia e afferrò la sinistra del conte.
«Ohe» diss'ella «anche ladro siete?»
Il conte rise e le diede la tabacchiera dicendo:
«Siamo intesi, non manca più che l'assenso di Marina.»
Sua Eccellenza uscì e gli chiuse, con poco garbo, la porta in faccia. Passando per la loggia vide le due barche di casa che tornavano. Allora Sua Eccellenza si affrettò di salire nella sua stanza per lasciarvi il suo ventaglio verde e pigliarne un altro nero a fiori rossi, con il quale tornò in loggia e si affacciò, facendosi vento, alla balaustrata.
Le due barche brillavano al sole, sul lago verde, a qualche centinaio di metri. I remi scintillavano nell'entrare e nell'uscir dall'acqua. Un gaio miscuglio di voci e di risa veniva all'orecchio di Sua Eccellenza, quando più quando meno forte, secondo il vento. Quelle barche parevano farfalline cadute nell'acqua, che vi si dibattessero faticosamente agitando le ali, lasciando dietro a sé due lunghe, sottili tracce convergenti. Saetta precedeva con la bandiera ammiraglia; un po' a sinistra si vedeva la coperta bianca del battello. Marina, Nepo, il Finotti ed il Vezza venivano con Saetta; nel battello stavano gli Steinegge, il Ferrieri e don Innocenzo, che s'era imbattuto per caso nella brigata e s'era unito a' suoi amici e all'ing. Ferrieri, anche perché questi, conosciutolo per il parroco del paese, gli aveva fatto un po' la corte. Nel battello si conversava tranquillamente. Edith difendeva la sua lingua nativa contro l'ingegnere che l'accusava, un po' volgarmente, di asprezza. Ella sosteneva che l'idioma tedesco è capace di una particolare dolcezza a tempo e luogo, come nella poesia, e ha pei movimenti dell'anima parole dolci come Liebe, weh, fühlen, sehnen, che acquistano dal prolungamento della vocale un suono misterioso e profondo. Diceva queste cose interrottamente, timidamente, nel suo italiano freddo, irrigidito. Mentre ella parlava, suo padre guardava don Innocenzo, guardava l'ingegnere, guardava persino il barcaiuolo, con certi occhi scintillanti che dicevano: «Eh, che vi pare?». Don Innocenzo ascoltava con attenzione vivissima e andava rimasticando fra i denti le parole tedesche citate da Edith, esagerandone l'accento onde persuadersi che fossero armoniose, mettendo degli hm, hm, di dubbio. L'ing. Ferrieri s'imbarazzava nella discussione più che non convenisse a un uomo di spirito; rispondeva breve e anche a sproposito alle chiamate che venivano dalla lancia.
Nella lancia remava il Rico, regnava e governava donna Marina elegantissima nel suo abito di flanella color tortora, tutto liscio, abbondante e fedele in pari tempo alle linee della bella persona, come se ne fosse stato il solo vestimento. Dalla cintura di cuoio giallo chiaro le cadeva sul fianco sinistro una minuta pioggia di catenelle d'oro. Un piccolo medaglione d'oro le pendeva sul gran nodo della cravatta di seta color marrone. Un cappellino rotondo pure color marrone, a penna d'aquila, le posava sul delicato viso un accento di capriccio altero. Portava i guanti del colore della cintura, e stringendo i cordoni verdi del timone appuntava i gomiti indietro, rivelava intera l'eleganza del busto, il disegno delle gambe di cui l'una si ripiegava indietro, l'altra slanciava verso il Rico la punta d'uno stivaletto tutto scuro picchiettato di bottoncini bianchi. Ell'aveva il Finotti a destra e il Vezza a sinistra. Nepo se ne stava seduto malinconicamente a prora. Marina lo trattava male quel giorno, il povero Nepo. L'aveva guardato una volta sola, entrando nella lancia, per fargli comprendere che cedesse il posto migliore ai nuovi ospiti. I due commendatori non avevan fatti complimenti, le si eran seduti a' fianchi con prontezza giovanile, il Finotti acceso in volto di fuoco mefistofelico, il Vezza irradiato dallo stesso placido sorriso di cui lo illuminava talvolta la visione beatifica di una coscia di tacchino ai tartufi. Non riconoscevano più la Marina fredda e silenziosa dell'altra volta. Questa nuova Marina sfavillava di spirito e di civetteria. Il commendatore politico avrebbe dato, non dico il suo collegio, ma tutti gli amici suoi per essere, un'ora, il suo amante; il commendatore letterato avrebbe dato tutte le vecchie bas-bleu conservatrici di Milano che lo tenevano nella bambagia come una reliquia classica. L'uno e l'altro le parlavano della bellezza e dell'amore, tanto per avvicinarsi in qualche modo a lei, per sentir meglio la elettricità della sua presenza; il Finotti con un linguaggio fremente di passione sensuale, mal coperta; il Vezza con la sua rettorica blanda e la sua vanità beata. Parlava di lettere scrittegli da sconosciute lettrici delle sue opere; lettere odorate, diceva lui, di quei vapori che l'amore esala come il vino delicato e bastano a inebriare chi ha i sensi squisiti. Allora il Finotti lo canzonava, diceva di non invidiargli il vecchio vino santo delle sue venerabili amiche di Milano, vino scolorato, vino da conviva satur che sta per levarsi dalla tavola e dalla vita. Egli amava il vino giovane, pieno di luce e d'ardore, che va come un fulmine alla testa, al cuore, alla coscienza, perché quello solo sa dove diavolo sia la coscienza, il vino che ha indosso tutto il fuoco del sole e tutte le passioni della terra, carico di colore e di gas, che fa saltare le bottiglie e gli scrupoli.
«Senta, signor Vezza» disse Marina ex abrupto «rispondeva Lei a quelle lettere?»
Il signor Vezza, che si prendeva il suo dolce «commendatore» col caffè mattutino della serva, come al caffè vespertino della dama e sempre di grande appetito, soffriva della privazione inflittagli da Marina. Ma bisognava rassegnarsi; Marina non accordava a nessuno titoli che non fossero di nobiltà.
«Rispondevo alle belle signore» diss'egli.
«Sentiamo questa meraviglia di finezza» disse Marina guardando con aria negligente il remo del Rico.
«Non c'è finezza, marchesina. Si potrebbe dire che nelle lettere anonime delle belle donne c'è sempre un'ombra di riservatezza e in quelle delle brutte c'è sempre un'ombra di abbandono; ma sarebbe volgarità. È l'istinto che bisogna avere, l'istinto della bellezza. Quando Lei, marchesina, entra in un primo piano, bisogna che lo studente, assopito al quarto sul Diritto Costituzionale qui dell'amico Finotti, trasalisca! Che ne dice Lei, conte?»
Ma Nepo non dava retta alla conversazione. Nepo stava guardando con grande interesse il Palazzo. Pensava se sua madre sarebbe in loggia, se avrebbe in mano il ventaglio verde o il ventaglio nero e rosso o il fazzoletto bianco. Se la contessa non era in loggia, voleva dire che non aveva potuto fare il gran discorso; se c'era, il ventaglio verde significava mala riuscita, il rosso e nero buona; il fazzoletto bianco voleva dire Marina avrà tutto.
Egli si scosse alla domanda del Vezza e rimase a bocca aperta. Non aveva capito. Marina si strinse impercettibilmente nelle spalle e parlò al Finotti. Il Rico, ch'era sempre molestato e canzonato da Sua Eccellenza, voltò la testa e lo sbirciò con due occhi scintillanti di malizia.
«Bada a vogare, imbecille» gli disse a mezza voce Sua Eccellenza. Il Rico rise silenziosamente mordendosi le labbra e tenne fermi sull'acqua i remi grondanti, per aspettare il battello che ad ogni tanto restava indietro. Si udì il Ferrieri discorrer forte. Il Vezza lo chiamò, e non avutane risposta, disse qualche cosa su lui e la signorina Steinegge. Marina porse una boccuccia come per dire «cattivo gusto» e l'altro sussurrò sorridendo.
«Matematico!»
«Va!» disse Marina al Rico.
La prora lunga e sottile guizzò avanti dividendo le immobili acque verdi.
Rade foglie addormentate su quello specchio le venivano incontro, passavano veloci al suo fianco si dilungavano a poppa, si perdevano. Anche il Palazzo le cresceva in faccia, si allargava, si alzava, spalancava porte e finestre; i cipressi, dietro quello, si staccavano dalla montagna e venivano incontro alla barca; la montagna stessa moveva dietro a loro. La macchia nera nel terzo arco della loggia diventava una donna, una matrona, la contessa Fosca con un farfallone rosso e nero sul petto. Si udì lo zampillo del cortile, si udì la voce della contessa:
«Siete qua, benedetti?»
«Siamo qua. Bellissima gita, mamma, allegria perfetta, molti incidenti, nessun accidente. Ossia mi correggo, un accidente solo; mia cugina ha avuto molto spirito e io non ne ho avuto punto.»
Gridando questo, Nepo si adattò solennemente le lenti sul naso e contemplò Marina.
Pareva un altro uomo. Aveva scosse le braccia per far scendere i manichini sino alle nocche delle dita e guardava sua cugina con un sorriso da trionfatore sciocco. Marina fece mostra di non aver inteso la sua impertinenza e si voltò a vedere se veniva il battello. Intanto la prora di Saetta e Nepo e il Rico e i commendatori e la dama e la bandiera entravano via via nella fredda oscurità della darsena, dove la voce di Nepo rimbombava già tra le grandi volte umide e l'acqua verde come una lastra di smeraldo.
Egli scosse il capo per farsi cader le lenti dal naso, saltò vezzosamente a terra con le braccia aperte e le ginocchia piegate, porse la mano agli altri e poco mancò non li facesse stramazzar nell'acqua dalla lancia che il freddurista Vezza chiamava bilancia per la sua sensibilità ad ogni squilibrio di peso. Quando venne la volta di Marina, le stese ambedue le mani, strinse forte quelle di lei; ella corrugò un momento la fronte, saltò a terra e si sciolse. Sulle scale la comitiva incontrò Fanny addossata a un angolo, con gli occhi bassi. Li alzò con un sorrisetto su Nepo, che veniva ultimo. Pareva aspettarsi qualche cosa: ma Nepo, che aveva arrischiato i primi giorni ora una parolina ora una carezza silenziosa, le passò davanti senza neppur guardarla. Ella fece il viso scuro e scese lentamente.
Il conte Cesare venne, molto festoso, a incontrare i suoi ospiti a capo della scala e fu gentilissimo con don Innocenzo. La contessa Fosca abbracciò Marina come se non l'avesse vista da dieci anni e non salutò Steinegge che al suo quarto inchino. Marina lasciò subito la sala dove si era raccolta tutta questa gente, e così fece Edith.
Intanto il conte, il Ferrieri e don Innocenzo disputavano, in un canto, della nuova cartiera in relazione all'igiene e alla moralità del paese che, secondo il conte, ne avrebbe guadagnato poco. Don Innocenzo, inesperto entusiasta d'ogni progresso, sbalordito dalla descrizione del futuro edificio, delle macchine potenti commesse nel Belgio, per esso, era più roseo, non voleva veder guai. Gli altri s'erano aggruppati presso una finestra e discorrevano di politica. La contessa voleva assolutamente sapere dal Finotti per quanto tempo gli austriaci sarebbero rimasti a Venezia. Il Finotti che aveva già seduto al centro sinistro della Camera subalpina, andava a Corte, ci godeva favore e non poteva soffrire i ministri, prese subito un'aria d'importanza, di mistero, e disse che a Venezia si sarebbe potuto andar presto, ma con altri uomini. La contessa non poteva darsi pace di questa cattiva direzione della diplomazia italiana, sbuffava, voleva che il Finotti insegnasse la strada buona al re, che la insegnasse ai ministri. Se i ministri non potevano impararla si cambiassero, questi stolidi, si buttassero in acqua. Figurarsi, se a Venezia sapessero queste cose! Già, ell'aveva visto a Milano il ritratto del ministro in capo; a cosa doveva esser buono, la me anima, con quel dio di naso?
Nepo la interruppe, rosso, rosso, dicendole che di politica lei non capiva niente e che la finisse con tante sciocchezze. Fu come un rovescio d'acqua diaccia. Steinegge aggrottò le ciglia, gli altri tacquero. La contessa Fosca, avvezza a questi omaggi filiali, osservò tranquillamente che spesso le donne hanno più politica degli uomini.
«Sempre» disse il Vezza «e il gabinetto di Torino non val niente in confronto del Suo, contessa.» Anche il Finotti e lo Steinegge si stemperarono in complimenti. Nepo si trovò impacciato, si adattò con ambe le mani l'occhialino sul naso, e facendosi vento col fazzoletto, uscì in loggia.
Mentre egli vi metteva piede, Marina pure vi entrava dalla parte opposta.
Ella vide Nepo, parve esitare un momento, andò lentamente ad appoggiarsi alla balaustrata verso il lago, nell'ombra di una colonna: e voltò la testa a guardar suo cugino.
Nepo non poteva dare addietro. Avrebbe voluto parlar con sua madre, saper da lei precisamente come fosse andato il colloquio con il conte Cesare, prima di muovere un passo avanti; ma poiché sapeva che le cose in complesso eran procedute bene, come mai ritirarsi davanti al silenzioso invito degli occhi di Marina! Dicevano chiaro: «Vieni, siamo soli».
Malgrado la sua vanità egli era imbarazzato. Non aveva tentato fino a quel giorno che sartine, modiste e cameriere, limitandosi con le dame e con le damigelle a colloqui fraterni. Il cuore non gli diceva nulla e la mente ben poco.
Andò a mettersi a fianco di Marina, appoggiò le braccia sulla balaustrata e scosse dal naso l'occhialino.
«Cara cugina.» diss'egli.
Le lenti cadendo sul marmo andarono in pezzi. Nepo ne sciolse le reliquie dal cordoncino, le esaminò e le lasciò cadere sul macigno sottoposto sospirando:
«Erano di Fries.»
Recitata questa concisa orazione funebre, ripigliò:
«Cara cugina»
Dietro a lui uscivano sulla loggia le voci della contessa Fosca, del conte Cesare, degli altri, mescolate alla rinfusa in un guazzabuglio scordato.
«Caro cugino» rispose Marina, guardando fuori del piccolo golfo il lago aperto dove i primi fiati della brezza meridiana chiazzavano qua e là di rughe plumbee le immagini dei nuvoloni bianchi e del sereno. V'ebbe un momento di silenzio. Bolliva sempre là in sala il guazzabuglio delle voci scordate.
«Quali deliziose giornate non ho passato qui con Voi, cara cugina!»
«Davvero?»
«Perché, perché non potrebbe esser sempre così?»
Egli aveva trovato il motivo e continuò a voce bassa, con accento enfatico, come se recitasse la perorazione di un discorso parlamentare.
«Perché queste deliziose giornate non possono essere il preludio di una vita deliziosa a cui tutto c'invita, le nostre tradizioni di famiglia, la nostra nascita, la nostra educazione, la nostra simpatia?»
Marina si morse il labbro inferiore.
«Sì» ripigliò Nepo, infervorandosi al suono della sua voce stessa e frenando a stento un gesto oratorio. «Sì, perché anch'io, che pure ho vissuto nella migliore società di Venezia e di Torino e vi ho stretto cordiali amicizie con una quantità di belle ed eleganti signorine, anch'io sin dal primo vedervi ho provato per Voi una simpatia invincibile...»
«Grazie» sussurrò Marina.
«...una di quelle simpatie che diventano rapidamente passioni in un giovanotto come me, sensibile alla bellezza, sensibile alla grazia, allo spirito, sensibile alle squisitezze più recondite e più delicate della eleganza. Perché Voi, cara cugina, Voi possedete tutte queste cose, Voi siete una statua greca, animata in Italia, educata a Parigi, come diceva con meno ragione il ministro dell'Inghilterra parlando della contessa C... Voi potrete un giorno rappresentare con molto splendore la mia casa nella capitale, sia in Torino, sia in Roma; perché io finirò certo per avere alla capitale una posizione degna del mio nome, degna di Venezia. Io Vi parlo, cara cugina, un linguaggio più serio che appassionato, perché qui non comincia ora un romanzo, ma prosegue una storia.»
Nepo si fermò un momento per applaudirsi mentalmente di questa frase in cui il pensiero e la voce correvano insieme ad un tonfo di tanto effetto nella parola storia.
«È la storia» proseguì «di due illustri famiglie, sostegno l'una della più gloriosa repubblica, ornamento l'altra della più illustre monarchia italiana, sorte, la prima nell'estremo oriente, l'altra nell'estremo occidente d'Italia, che strinsero parentela in tempi remoti di prepotenze straniere e di discordie nazionali, quasi preludendo e augurando alla futura Unità; che in tempi più vicini, in tempi calamitosi per i loro due Stati rinnovarono il patto, e che stanno per riconfermarlo ancora in mezzo agli splendidi avvenimenti del nuovo gran patto nazionale.»
Nepo era spossato dall'improba fatica di contenere la sua voce e la sua eloquenza. Chi sa dove sarebbe andato a finire, con le migliaia di frasi che aveva in testa, senza una buona strappata di redini.
«Marina» diss'egli «volete esser contessa Salvador? Io aspetto con piena fiducia la Vostra risposta.»
Marina guardava tuttavia il lago e taceva. Le voci della sala si spensero in quel momento; la contessa Fosca s'affacciò alla loggia. Ella si ritirò subito, rientrò in casa parlando forte; ma gli altri fecero irruzione in loggia.
«Mi appello a Lei, marchesina» gridava il commendator Finotti, seguito dal commendator Vezza che si stringeva nelle spalle sorridendo e ripetendo: «Ha torto, ha torto.»
Soltanto allora Marina si scosse come per uscire dalla corrente dei suoi pensieri, disse sottovoce a Nepo «A domani» e lasciò la balaustrata.
Nepo si voltò corrucciato a guardar gl'interruttori e vide dietro ad essi sua madre, che gli diceva con un lungo sguardo lamentevole e con le braccia aperte:
«Come si fa?»


6. L'0rrido

Si doveva partire per l'Orrido alle dieci del mattino, c'era da percorrere il lago sino alla sua estremità di levante e poi da salire la valle che lo alimenta con il torrentello di cui appunto sono lavoro le caverne dell'Orrido. Andavano tutti, tranne il conte.
Nepo fu in piedi per tempo e scese in giardino, dove aveva veduto qualche volta Marina passeggiare prima di colazione. Quel giorno ella non venne. Nepo, orbo del suo occhialino, girava a destra e a sinistra, frugando quasi con il lungo naso le macchie e i cespugli, odorando l'aria, palpitando al lontano apparire del giardiniere scamiciato. Marina non si lasciò vedere neanche a colazione; non era cosa insolita.
Venne solo Fanny a pregare Edith da parte della marchesina di voler salire un momento da lei. Scesero quindi insieme al battere delle dieci. Nepo non poté avere da Marina che un «buon giorno» svogliato, buttatogli dall'alto come un mozzicone di sigaro. Ella prese il braccio di Edith e discese in darsena, lasciando addietro la contessa Fosca, Nepo, i tre grandi uomini e Steinegge. Quando costoro entrarono in darsena, Saetta ne usciva con Edith, Marina e il Rico. Vi ebbero proteste. «Buon viaggio» disse Marina «noi procediamo.» La sua voce non poteva essere più dolce, non poteva essere più grazioso il cenno con il quale accompagnò le parole; pure nessuno insistette.
La contessa Fosca guardò Nepo, seria; questi volle fare il disinvolto e gridò un complimento alle crudeli fuggitive. Il Ferrieri e i commendatori parvero molto seccati.
Le due barche si dilungarono verso quello stretto dove il lago fa un gomito e corre ad appiattarsi dietro un alto promontorio selvoso, fra salci e canneti. Saetta precedeva il battello d'un buon tratto, malgrado le voci supplichevoli che partivano spesso da quest'ultimo perché la lancia bizzarra non avesse a correr tanto. Esso pareva un uomo gottoso che anfanasse dietro un nipotino monello sfuggitogli di mano. Marina non mostrava udire quelle voci, e al Rico bastò un'occhiata per intendere che non dovea smettere né rallentar di remare. Presto, di Saetta non apparve ai viaggiatori del battello che un punto bianco, la bandiera, oscillante lontano tra l'azzurrognolo confuso del lago e dei vapori mattutini ancora avvolti alle montagne.
Edith era commossa. Quella gran luce in cui nuotava la barchetta, i milioni di brillanti che il sole spandeva sulle acque increspate dalla brezza, i verdi vivacissimi dei monti vicini, le tinte del fondo sfumate, calde, non le ricordavano più la Germania come i prati stesi davanti alla canonica di don Innocenzo. Ella non poteva parlare; sospirava.
«Qual sentimento prova?» le chiese Marina dopo un lungo silenzio.
«Non lo so; desiderio di piangere» rispose Edith.
«E io di vivere, d'esser felice.»
Edith tacque, sorpresa dal subito fuoco che brillò nel viso e sollevò il petto di Marina.
«Ho molta stima di Lei» soggiunse questa bruscamente.
Edith la guardò attonita.
«So benissimo» ripigliò l'altra «di esserle antipatica; fa niente.»
«Ella non mi è antipatica» rispose Edith con voce ferma e grave. Marina si strinse nelle spalle.
«Va come puoi» gridò al Rico, gettando i cordoni del timone e voltandosi a Edith per parlare. Ma Edith la prevenne.
«So» diss'ella «che non è stata gentile con mio padre, e per questo non posso essere affettuosa con Lei. Vorrei dire la cosa in tedesco, perché in italiano non so se dico bene. Ella tuttavia intenderà il mio sentimento; non ho nessuna antipatia.»
«Ella si stabilisce a Milano?» chiese Marina.
«Sì.»
«Mi scriva, da Milano.»
Edith pensò un momento e rispose :
«Non posso scriverle come amica.»
«Ella è schietta, signorina Edith; non più di me, però; non ho detto di avere amicizia per Lei, ho molta stima. Già non c'è amicizia fra donne. Non domando lettere sentimentali, vuote e false. Cosa vuole che ne faccia? Domando alcune informazioni. Non c'è bisogno di amicizia per questo.»
«Né di stima.»
«Di stima sì. Non domando servigi a persone che non stimo, e sono sicura ch'Ella mi renderà questo malgrado i Suoi risentimenti. Non mi ha già fatto il piacere, stamattina, di venire in barca con me sola?»
«Quali informazioni desidera?»
«Vede? Lo sapevo. Le dirò più tardi quali informazioni.»
Dopo qualche tempo Marina uscì con quest'altra domanda:
«Sua madre era nobile?»
«Sì.»
«Si capisce.»
Edith si fece di fuoco. I suoi occhi intelligenti lampeggiarono.
«Non conosco persona più nobile di mio padre» diss'ella.
«Che Le pare di mio cugino?» domandò Marina senza curarsi di quella risposta, come se non potesse pervenire all'altezza sua.
«Non lo conosco.»
«Non lo ha visto, non lo ha udito parlare?»
«Oh, sì.»
«Rema», disse Marina al Rico, battendo forte un piede sul fondo della lancia. Udendo parlare di Nepo quegli porgeva la sua testolina curiosa e muoveva appena le braccia. All'ordine di Marina rise arrossendo, poi fece il viso serio e diede due gran colpi di remo, cacciando indietro a destra e a sinistra due gran vortici di spume. Tacendo le signore, cominciò lui a metter fuori qualche parola, nomi di paesi e di montagne. Marina aveva ripigliati i cordoni del timone e non gli badava; Edith gli fece delle domande; allora la sua parlantina ruppe gli argini. Dai monti di Val... si udiva, di quando in quando, un fioco squittir di bracchi portato dal vento. Il Rico spiegò ad Edith che quelli non eran cani, ma spiriti, gli spiriti della Caccia selvatica. Chi si fosse abbattuto a vederla doveva morire entro pochi giorni. Edith si compiacque di ritrovare la tradizione tedesca, e domandò se ci fossero strade per quei monti. Il ragazzo rispose che v'erano dei sentieri, fra i quali uno buonissimo che si poteva prendere per ritornare a piedi dall'Orrido al Palazzo.
Intanto la lancia passava davanti a Val Malombra, radeva l'alto promontorio coronato di selve. L'acqua vi era profondissima sotto gli scogli protesi. Il Rico sosteneva che il lago vi s'inabissava dentro caverne smisurate, perché sopra quegli scogli v'era una buia fessura, detta il Pozzo dell'Acquafonda, dove gittando pietre le si udivano schiaffeggiar l'acqua. E cominciò a dire come converrebbe esplorar quelle caverne occulte. Marina si impazientì e lo fe' tacere.
Saetta entrò poco dopo nell'ombra, approdò fra due salici grigiastri, sulla ghiaia bianca di un torrentello che versava al lago, di pozzanghera in pozzanghera, tremole fila d'acqua silenziosa. Dietro ai salici tacevano prati oscuri, freddi; e si celavano a manca insieme al torrente, nelle ombre azzurrognole della valle tortuosa. Ardeva in alto, al sole, il dorso delle montagne; quel buco nero lì pareva la tana del novembre. Quando anche il battello ebbe girati gli scogli del promontorio, si udì la contessa gridare «che freddo! che orrore!», si vide un agitarsi, uno stendere di braccia che infilavano soprabiti, e il conte Nepo che si avvolgeva al collo un fazzoletto bianco.
Il Rico doveva guidar la compagnia all'Orrido, ma prima di partire, sorse la questione della contessa Fosca. Sua Eccellenza aveva creduto che l'Orrido fosse quello lì; interrotta da un baccano di proteste, si meravigliava delle meraviglie altrui; il luogo le pareva brutto abbastanza. E ora cosa si pretendeva da lei infelice? Che sgambettasse per due o tre ore su quel dio di sassi? Che stesse lì ad aspettar gli altri in quella sorbettiera? Nepo sbuffava, la rimproverava di non esser stata a casa. Steinegge protestò con enfasi, il Vezza a fior di labbra, che non avrebbero mai lasciata sola la signora. Né il Finotti né l'ingegnere dissero parola, la conclusione si fu che Sua Eccellenza avesse a recarsi con Steinegge a un'osteria che si vedeva brillare al sole a un chilometro lontano dove la strada provinciale tocca il lago. Il Rico affermava che si poteva calarvi direttamente dall'Orrido per un altro sentiero. Quando il battello si staccò dalla riva il commendator Finotti domandò qualche cosa al Rico e si voltò poi a gridare:
«Coraggio, contessa! È qui vicino l'Orrido!»
«Xelo colù?» chiese Sua Eccellenza agli altri, additando il commendatore.
La comitiva si pose in cammino pel torrente seguendo il Rico che saltava di sasso in sasso come un ranocchio. Prime gli tenevano dietro Edith e Marina, poi veniva il Ferrieri, gran camminatore, gran valicatore di montagne. Alle sue spalle trottava Nepo, tutto sbilenco, sudando per l'angoscia di camminar frettoloso sui ciottoli aguzzi. Egli si studiava d'intenerir Marina sul fatto dei due commendatori di retroguardia che mettevano veramente pietà. «Caro cugino» disse Marina voltandosi indietro e fermandosi. «Vi prego di rappresentar qui mio zio e di tener compagnia ai suoi tre ospiti.»
Nepo e il Ferrieri, capìta l'antifona, rallentarono il passo e si raccolsero, mogi mogi, a' commendatori che avanzavano, il Finotti bollente e ansante, l'altro seccato e scorato. Come videro le signore dilungarsi anche dagli altri due, cadde loro la speranza di raggiungerle e sostarono a respirare un poco, fremendo contro Marina, maledicendo chi aveva messo fuori pel primo la bella idea di venire a quello sconsolato massacro di piedi. Intanto sopravvenne loro il Rico, mandato da Marina perché non avessero a smarrire la strada. Marina stessa non la conosceva, ma se l'era fatta insegnare dal ragazzo e camminava rapidamente senza parlare.
Edith le teneva dietro, silenziosa e nervosa essa pure, ma per altre cagioni. Intorno a lei e più ancora dentro a lei suonava una sola parola: «Italia! Italia!». Da quando era venuta al Palazzo, se si trovava sola, se le sfuggiva un momento il pensiero di suo padre e dell'avvenire, le sfolgorava subito il cuore questa parola: «Italia!». Allora stendeva la mano per toccare qualche cosa di vero, di solido, e guardando l'orizzonte o qualche striscia bianca di strada lontana, palpitava e si perdeva in un desiderio indistinto. Adesso ell'aveva bisogno di fermarsi spesso per guardare a misura che la via saliva, lo svolgersi lento e maestoso delle montagne, in alto il verde pieno di sole che saliva fino al cielo sereno, dietro a lei, al basso, il lago che s'allargava sempre più verso ponente.
«Ah» disse Marina entrando nel sole «ci siamo.»
Ella saltò di gioia tuffandosi nella luce e nel calore. Passava allora fra due campicelli di grano saraceno. Una nuvola di farfalle si alzò dai fiori bianchi del grano, vi aleggiò sopra per breve tempo e tornò a posarvisi.
«Pare neve» disse Marina volgendosi per la prima volta, a Edith.
Ma Edith era rimasta qualche passo addietro.
«Vengono?» le gridò Marina.
«Odo la voce di Suo cugino e del ragazzo», rispose Edith.
Marina fece una piccola smorfia.
«Venga con me» diss'ella.
Il sentiero toccava, due passi più su, un gruppo di stalle seduto sullo spigolo del monte che si gira per andare all'Orrido. Quelle rozze stalle sedevano dentro una larga macchia di fango puzzolente, all'ombra chiara di alcuni noci tutti sforacchiati di raggi di sole. Non ci si udiva, non ci si vedeva anima vivente; tutto taceva. Qualche gerla abbandonata presso gli usci chiusi, qualche pezzo di corda accavallato al pozzale della cisterna, l'aspetto della profonda valle e un sussurro di lontane cascate invisibili accrescevano il silenzio. Il sentiero indicato dal Rico passava tra le stalle; Marina pigliò un altro viottolo che sale dritto a una cappelletta. Ella fe' cenno a Edith di sedere e disse piano:
«Aspettiamo che passino.»
In quella cappelletta era dipinto un Redentore coronato di spine, bruttissimo, a' piedi del quale si leggeva:

Quantunque, o passegger, ti sembri un mostro,
Io sono Gesù Cristo, Signor Vostro.

L'erba intorno brillava ancora di rugiada e di vento puro, vivificante, che faceva lievemente stormire le foglie dei noci.
Edith guardava quell'immagine pia, omaggio di gente semplice al re del del dolore, le veniva in cuore una dolcezza tenera, triste; mille pensieri le venivano in mente sulla fede del povero pittore, del povero poeta, delle donnicciuole che andando ai campi o tornando
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