|
Opere pubblicate: 19994
|
Info sull'Opera
Cecilia.
Marina lesse avidamente e non intese. Rilesse. Al passo: «Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice», si fermò. Prima non le aveva notate. L'occhio suo si fermò su quelle parole, e le mani, che tenevano il foglio, tremarono. Ma per poco. Ella proseguì a leggere e le bianche mani tremanti parvero pietrificate. Giunta alle parole «m'inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio» chiuse il manoscritto tenendovi dentro l'indice della mano destra e rimase immobile in piedi, con la testa china sul petto. Riaperse il manoscritto, lo rilesse per la terza volta. Poi lo depose e prese la ciocca di capelli. Le sue mani si movevano lentamente, non avevano più nulla di nervoso. La fisonomia era marmorea; non v'erano scritte né incredulità, né fede, né pietà, né paura, né meraviglia. Un passo pesante nel corridoio. Marina si trasformò. I suoi occhi scintillarono, il sangue le corse al viso, chiuse con impeto la ribalta dello stipo e si slanciò alla porta. Era Fanny che aveva un passo da corazziere. «Vattene» disse Marina. «Ah, Signore, che furia, cos'è accaduto?» «Nulla, non ho bisogno di te stasera, vattene a letto» ripeté Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se ne andò. Marina stette in ascolto de' suoi passi finché la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo. Esitò a riaprirlo, ne considerò i geroglifici, le figure enigmatiche d'avorio intarsiato nell'ebano, che avevano in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una nera corrente infernale. Si decise e riabbassò la ribalta. Trasalì; lo stipo era stato chiuso in furia e lo specchietto era andato in pezzi secondo la volontà di Cecilia. Rilesse l'ultima pagina del manoscritto, si sciolse i capelli, ne tolse in mano una treccia e l'accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si rassomigliavano affatto. Prese il guanto. Come n'era fredda la pelle! Metteva i brividi. No, neppure il guanto andava bene: era troppo piccolo. Marina ripose nel segreto il manoscritto, il libro, il guanto, i capelli, la cornice con i pezzi dello specchietto e premette forte sull'uncino. La molla scattò, il piano risalì a posto. Ciò fatto, cadde ginocchioni, appoggiò le braccia sulla ribalta dello stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava di riflessi dorati le onde diffuse dei capelli, parve allora la sola cosa viva nella camera. La fiamma aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languori inesplicabili; si veniva lentamente abbassando come se fosse ansiosa di calare all'orecchio di Marina e sussurrarle: «Che hai?» Ma neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rosa, si sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata non aveva più sensi né voce. Il cuore le batteva appena; il sangue stesso, forse, era quasi fermo. La sua forte intelligenza e la sua volontà, chiuse nel cervello, fatto intorno a sé un gran silenzio, combattevano il fantasma uscito dallo stipo aperto davanti alla graziosa persona col truce proposito d'infiltrarlesi nel sangue, di avvinghiarlesi alle ossa, di suggerle la vita e l'anima per mettersi al loro posto. In altri momenti lo scetticismo che Marina teneva dall'uso del mondo non l'avrebbe nemmeno lasciata accostare da qualsiasi fantasma; ma quel sottile velo di scetticismo che copriva sempre il pensiero in tempo di calma come una crittogama di acque stagnanti, si era squarciato e disperso nell'incomprensibile turbamento di spirito che l'aveva assalita tornando al Palazzo. La sua prima impressione nell'afferrare la strana idea suggerita nel manoscritto era stata di sgomento. L'avea vinta subito con un atto di volontà, con il proposito di esaminar freddamente, d'intender ogni parola. Raccoltasi poi nella meditazione intensa di quanto aveva letto, udì una imperiosa voce interiore che le disse: «No, non è vero.» E subito dopo diffidò di questa voce stessa che non parlava più. Ella non poteva aver valore che per essere la conclusione di efficaci argomenti attraverso i quali fosse passato il suo pensiero con la rapidità del fulmine. Bisognava farlo tornare indietro, fargli rifare, passo passo, la via. Quella donna non era sana di mente. Lo diceva la tradizione, lo confessava lei stessa, lo significava la concitazione, il disordine febbrile delle sue idee, quand'anche il concetto sostanziale dello scritto non bastasse per sé a dimostrarlo. Questo concetto di una seconda esistenza terrena aveva esso almeno qualche cosa di originale che potesse far sospettare un'ispirazione superiore, far prendere sul serio le visioni di Cecilia? No, era una ipotesi antica come il mondo, notissima, che l'infelice poteva assai facilmente avere udita o letta, che aveva trovato, al dì del dolore, nella propria memoria. Allora essa l'aveva afferrata, ne aveva tratto il suo ristoro, ne aveva vissuto: l'idea era diventata, a questo modo, sangue del suo sangue. Visioni? Le pareti avevano risposto alla povera demente ciò ch'ella chiedeva loro con la più grande energia di volontà e di immaginazione. Avean risposto con fuoco, sì. Con chiarezza? No. Che significavano i capelli, il guanto, lo specchio? perché far paragonare la mano, i capelli morti con la mano e i capelli vivi? Sperava costei di rinascere o di risorgere? Lo scritto era dunque un frutto del delirio. Solo qualche ricordo della vita anteriore che si destasse ora nell'animo di lei, Marina, potrebbe dimostrare l'opposto. Apriti, anima! Ella interrogò se stessa sui ricordi accennati nel manoscritto come chi si curva sopra un pozzo buio e profondo e chiama e sta in ascolto se qualche voce, se qualche eco risponda. Camogli? Nessuna eco, nessuna memoria. Genova? Silenzio. Suor Pellegrina Concetta, Renato? Silenzio. Palazzo Doria, palazzo Brignole, Busalla, Oleggio? Silenzio, sempre silenzio. Così talvolta, ad alta notte, in qualche sala d'aspetto ingombra di gente e male illuminata da un fumoso lume a petrolio, si grida una sequela di nomi di paesi e di città lontane; nessuno si move; nessuno risponde. Aspettano un altro treno. Ma chi sa se vi hanno viaggiatori per quella linea che non hanno udito perché dormono nei loro mantelli, laggiù all'altro capo della sala, seduti dietro la gente ritta? «È una pazzia» si disse Marina, «e io che mi stillo il cervello a questo modo, sono ridicola! Ridicola!» ripeté ad alta voce e balzò in piedi. La parola uscita dalle labbra le parve più aspra della parola stessa concepita nel pensiero. Più aspra, non solo; anche eccessiva e falsa. Ne rimase ferita come se non l'avesse pronunciata lei. In pari tempo le entrò prima nel cuore, poi per tutte le membra una agitazione sorda, un'alternativa di stanchezza e d'impaziente ardore, una cupa resistenza alla volontà. Meraviglioso il caso che l'aveva portata, nel fiore della gioventù e della bellezza, da Parigi, a quella stanza disabitata da settant'anni! Meraviglioso il caso che aveva appiccato l'anello all'uncino del segreto, sì che ella potesse leggere: «Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice!» Delirio! Ma dove era una traccia di vaniloquio in quello scritto? Concitazione sì, disordine sì, ma una prigionia di cinque anni, un concetto così straordinario nella mente! Concetto antico! Ma non sarebbe questa una ragione di credere? Marina tremò, le parve sentirsi chiamare, pregare da tante anime ignote che avevano avuta questa fede, le parve seguire un momento il loro slancio. E il sangue le correva sempre più tempestoso, la intelligenza, la volontà venivano mancando. Non ricordava Camogli né Genova, Renato né Pellegrina Concetta, non un giorno della esistenza precedente, non un'ora; ma quanti istanti! Quante volte non le era balenata la ricordanza di istanti perduti fra le tenebre d'un passato ignoto! Quella sera stessa, le campane! Le corse un ghiaccio pel sangue, un'oppressione indicibile la strinse alla gola. Ebbe allora lo sgomento di affogare, l'istinto di salvarsi. Abbracciò quest'idea che non poteva esser lei Cecilia, perché c'era del sangue d'Ormengo nelle sue vene; ma il cuore implacabile disse: «No, che importa il sangue? Tu odii, hai sempre odiato tuo zio, la vendetta è più squisita così; Dio, perché tu la compia meglio, ti ha posto dentro, irriconoscibile, alla famiglia del nemico.» Ma ella adesso aveva paura, voleva sottrarsi alla lotta; diè di piglio al lume e passò nella camera da letto. Le finestre erano aperte; un soffio di vento le spense la candela. Volle riaccenderla, ma non sapeva che si facesse, e non vi riuscì. Si gittò spossata alla finestra per aver ristoro. Colà le tornò subito a mente come, la sera del suo arrivo al Palazzo, guardando da quella finestra, nella notte, avesse creduto riconoscere un antico sogno, una immagine sinistra, apparsale altre volte nelle ore gaie della sua vita mondana. Fu l'ultimo colpo; una commozione senza nome le oscurò il pensiero e la vista, credette udire mille sussurri levarsi intorno a lei, mescolarsi per l'aria, confondersi in una voce sola; si portò ambe le mani alla fronte e cadde a terra. Nell'oscuro lume delle stelle diffuso sul pavimento davanti alla finestra giaceva la bianca persona come sciolta dal sonno. Chi avrebbe detto che vi fosse là una donna svenuta? Nel palazzo tutti dormivano; i grilli e gli usignoli cantavano allegramente; i soffi brevi e vivaci della chiara notte di aprile entravano curiosi per le finestre aperte, frugavano, bisbigliavano dappertutto; e da una barca lontana indugiatasi più delle altre sul lago veniva il canto spensierato: E cossa l'è sta Merica? L'è un mazzolin di fiori Cattato alla mattina Par darlo alla Mariettina Che siamo di bandonar. Solo lo zampillo del cortile raccontava in aria di mistero agli arum una storia lunga lunga ch'era ascoltata con religioso silenzio. In tutto il cortile non si moveva fronda. Era forse la storia della donna svenuta là presso, ma non riusciva possibile a orecchio umano intenderne sillaba, né sapere, perciò, se la donna vi fosse chiamata Marina di Malombra o Cecilia Varrega. Conseguenza di quella notte fu per Marina una violenta febbre cerebrale di cui nessuno poté indovinare la causa. È quasi impossibile che l'inferma non si sia fatta sfuggire durante il delirio qualche allusione al fatto straordinario onde avea riportato impressioni sì gravi; ma quelle allusioni dovettero essere assai rade e vaghe, perché non fecero sospettare di nulla. La volontà gagliarda di Marina, benché sconnessa e rotta dal male, lavorava ancora per un impulso ricevuto prima. Essa voleva tacere. La presenza del conte Cesare era il più terribile cimento per lei. Quando vedeva il conte, e anche solo all'udirne i passi pel corridoio vicino, l'ammalata diventava furibonda, urlava, smaniava senza articolar parola; per modo che, dopo i primi giorni di malattia, le visite dello zio cessarono. Questa ripugnanza fu molto commentata dai domestici e dalle comari pettegole di R... Si fabbricarono parecchie novelle assurde. La interpretazione più creduta fu che il conte voleva sposare Marina, contro la inclinazione di lei, e che la ragazza n'era impazzita. Il chiarissimo professore B..., chiamato da Milano in aiuto del povero pitòr che non sapeva più in qual mondo si fosse, credette di dover tastare il conte su questo delicato argomento dell'antipatia violenta che l'ammalata gli dimostrava, e lo fece con moltissimo garbo, mettendo avanti l'interesse medico della questione. La risposta del conte non fu altrettanto diplomatica. «Mia nipote» diss'egli «mi deve forse qualche beneficio; non però tanto grande da odiarmi per questo. Ella è una giovane molto intelligente e io sono un vecchio quasi rimbambito; ho motivo di credere che siamo, in molte cose, agli antipodi; malgrado tutto questo non mi è mai passato pel capo di sposarla, come probabilmente vi avrà detto il nostro medico, il quale beve come una spugna tutto quello ch'è stupido; e non lo fa apposta. Tornando a mia nipote, le nostre prime impressioni reciproche furono disgustose più del necessario; però ci abbiamo versato su molto zucchero, e, per parte mia, non sentivo più quel sapore. Del resto io credo, caro professore, che quando uno ha messo il suo cervello a rovescio, se dice nero, bisogna intender bianco.» La scienza del prof. B..., aiutata dall'umile ignoranza del suo collega, vinse il male. Dopo un mese e mezzo Marina comparve in loggia. Era pallida, aveva gli occhi assai più grandi del solito e velati da un languore attonito. Si sarebbe detto che il vento dovesse curvarla come un sottile getto di acqua. Il vigore e la bellezza tornarono rapidamente, ma un osservatore attento avrebbe notato che l'espressione di quella fisonomia era mutata. Tutte le linee apparivano più decise; l'occhio aveva tratto tratto degli stupori insoliti, oppure un fuoco triste che non gli si era mai veduto. Quel velo di dissimulazione, in cui Marina si era venuta avvolgendo, scomparve. La memoria delle sue piccole ipocrisie d'una volta la irritava. La sua eleganza, prima correttissima per non offendere l'austero zio e per accordarsi con l'ambiente, pigliò un accento strano, provocatore. Candidi stormi di biglietti stemmati, cifrati e profumati si incrocicchiarono daccapo nel regio antro postale di R... Uno stillicidio di drammi e di romanzi francesi si avviò dalla libreria Dumolard al Palazzo. Il piano gittò a tutte le ore, fosse o no il conte in biblioteca, un fuoco vivo di Bellini, di Verdi e di Meyerbeer e Mozart. Meyerbeer e Mozart erano i soli due maestri cui Marina perdonava d'esser tedeschi; al primo in grazia della sua cittadinanza francese, al secondo in grazia del solo Don Giovanni. Ricominciarono le corse sfrenate pel lago e pei monti, malgrado venti e piogge, di giorno e di notte; corse nelle quali il Rico faceva con entusiasmo la parte di guida, di cavaliere devoto e di cane fedele. Inoltre, con grande stupore degli abitanti di R..., Marina si pose a frequentare la chiesa, dove in passato non aveva mai posto piede. Per vero dire questo suo risveglio di pietà era assai bizzarro, perché alla messa festiva non la si vedeva mai comparire. Andava in chiesa quando non c'era nessuno, talvolta di mattina, talvolta di sera. Un giorno che la trovò chiusa andò risolutamente dal curato a cercar la chiave. La serva del curato ebbe a rimaner di stucco aprendo l'uscio alla «Signora del Palazzo», e più ancora udendosene chiedere la chiave della chiesa. Il suo primo istinto fu di chiuderle la porta in faccia, non che di rifiutare la chiave; ma le labbra osarono solo dire che ne avrebbe riferito al padrone, al quale corse subito raccomandandogli di trovare un pretesto per non dar la chiave a quella strega. Il padrone la rimproverò aspramente e andò egli stesso ad aprir la chiesa a Marina, che aveva già conosciuta in qualcuna delle sue rade visite al Palazzo. Non è difficile immaginare come procedessero, in tale stato di cose, le relazioni fra zio e nipote. Essi potevano paragonarsi a due punte metalliche fortemente elettrizzate, che non s'accostano mai l'una all'altra senza scambiare scintille che vorrebbero essere folgori. A viaggiare Marina non ci pensava più. Durante la sua convalescenza il medico gliene aveva parlato, facendole presentire, per incarico avutone, l'assenso del conte. Ella rispose che non intendeva affatto muoversi dal Palazzo, che l'aria le faceva benissimo e che il signor dottore non ne capiva niente. Ella e il conte non si vedevano, si può dire, che a pranzo, ma si combattevano sempre. Persino le suppellettili del palazzo erano penetrate di quella sorda inimicizia e parevano pigliar parte quando per l'uno quando per l'altra. Certe finestre, certi usci si pronunciavano due o tre volte al giorno. Marina li faceva aprire, il conte li faceva chiudere. Un povero vecchio seggiolone del corridoio dei paesaggi vi perdette il suo decoro e la sua quiete. Quasi ogni giorno un decreto lo traslocava in faccia a un grande Canaletto, e un altro decreto lo ricacciava al posto di prima. Fanny, nell'esercizio delle sue funzioni, portava sempre alto il nome e i voleri della sua «signora»; gli altri domestici accampavano quelli del padrone; la buona Giovanna cercava di metter pace, ma non riusciva spesso che a guadagnarsi qualche impertinenza di Fanny, e se ne struggeva in silenzio. Il conte abborriva i profumi, per cui Marina ne usava un po' più che non permetta il buon gusto. Libri francesi dimenticati qua e là per la casa ridevano in viso al vecchio gallofobo che ne fremeva sino al vertice de' capelli. I fiori più belli del giardino sparivano appena sbocciati, malgrado il tempestare del conte contro il poco vigile giardiniere e contro Fanny a cui gli piaceva attribuire quei guasti. Con lei, naturalmente, non si imponeva ritegni; per poco un giorno non la gittò nel lago. Fu una fortuna per Fanny, perché il conte, pentito di quell'eccesso, non mandò ad effetto il suo proposito di farla inesorabilmente cacciare. Però i rabbuffi spesseggiavano sempre e violenti, molte volte più del ragionevole, perché miravano a passar lei da banda a banda e cogliere Marina. A fronte di questa il conte, di solito, si frenava, fosse per la memoria di sua sorella che aveva molto amata, o per un sentimento cavalleresco, o per timore di uscire da' giusti limiti. Il nuovo contegno della giovane aveva provocato sulle prime recisi rimproveri fatti da lui con un tono tra il grave e l'acerbo, ribattuti da lei con freddezza nervosa, piena di recondita emozione. Il conte si ritrasse tosto da quella via pericolosa e si appigliò al sistema del silenzio accigliato; silenzio carico di elettricità, interrotto soltanto, come si è già detto, da fugaci scintille, da lampi di sdegno per parte dell'altra. Qualche volta scoppiavano dei mezzi temporali che lasciavano il tempo scuro di prima. Il povero Steinegge non godeva punto fra questi due litiganti: Marina trovava modo di offenderlo a ogni momento. «Signor conte» diss'egli un giorno al conte Cesare «so che ho la disgrazia di dispiacere molto alla signora marchesina. È forse la mia vecchia fisonomia che non posso cambiare. Se la mia presenza può aumentare i vostri piccoli differenti di famiglia, ditemelo! Io vado.» Il conte gli rispose che, per ora, in casa sua ci comandava lui; che se il principe di Metternich offrisse al signor Steinegge il posto di direttore delle sue cantine di Johannisberg, si permetterebbe al detto Steinegge di partire, altrimenti, no. Circa un anno dopo la scoperta del segreto, Marina ebbe dal libraio Dumolard, insieme a quattro o cinque novità francesi, un libro italiano. Era un racconto stampato dalla tipografia V... - Portava per titolo: Un sogno, racconto originale italiano di Lorenzo. - Possiamo aggiungere che la copia spedita a Marina e trattenuta da lei per noncuranza, era la trentesima spacciata in due mesi dalla pubblicazione. Marina non aveva punto stima de' libri italiani e pochissima voglia di legger questo. Se lo lesse fu per una storditaggine di Fanny che glielo portò una mattina a bordo di Saetta invece dell'Homme de neige. Giunta nella sua rada prediletta della Malombra, si accorse dell'errore, e dopo la prima dispettosa sorpresa, si rassegnò a tentar di leggere. Il soggetto del libro è questo: Un giovanotto spossato ed esaltato da soverchie fatiche cerebrali, ha un sogno di straordinaria vivezza nel quale egli crede vedere rappresentato sotto forme allegoriche il proprio avvenire. I fatti, interpretati da lui secondo questa convinzione, vengono confermando la prima parte del sogno. Passano quindici anni. Tutta la prima parte del sogno, serena e lieta, si è avverata. Ora è la seconda parte, di cui si aspetta il compimento. Questa seconda parte predice un amore impetuoso, violento, un delirio dello spirito e dei sensi onde il protagonista dev'essere tratto a catastrofi spaventose. A trentasei anni, costui, padre di famiglia, uomo grave che vive ritirato dal mondo per la segreta paura del suo sogno, si trova con grande angoscia preso d'amore per una donna cui fu avvicinato da necessità ineluttabili. Questa donna è per altezza d'animo un ideale più facile a trovarsi oggidì nella vita che nei romanzi. Essa divide la passione di lui malgrado sforzi eroici di volontà. Lottano ambedue per dividersi, per salvarsi; ma il cielo, la terra e gli uomini cospirano per farli cadere. Sull'orlo dell'abisso in cui troveranno la sventura, il disonore e fors'anco la morte, sfugge all'uomo il segreto della fatalità misteriosa che lo perseguita e cui non vale a resistere. In quel momento supremo la donna magnanima si sdegna di cedere al destino e non al proprio cuore, non alla felicità dell'amante. Con lo sdegno la sua coscienza religiosa si rialza. Gli amanti si dividono innocenti. L'uomo a poco a poco dimentica, vive tranquillo e felice. La donna muore. Il racconto è scritto con pochissima esperienza della società e delle cose, ma con qualche acume d'osservazione psicologica. Le descrizioni della natura sono tollerabili, l'elemento fantastico non vi è adoperato troppo male. Insomma, se non vi fosse tanto calore virtuoso, se non vi mancassero affatto gli studi fotografici di appartamenti e di vesti, non che le prove che l'autore conosce un poco anche il nudo, se lo stile fosse più facile e borghese; sovra tutto se vi si dicesse bono e bona invece di quel buono e buona che bastano a rivelare un povero ingegno, un uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di gusto affatto indegno di comparire tra gli scrittori odierni, una testa da parrucca; se tutte queste condizioni si fossero avverate e se l'autore si fosse date le mani attorno, Un sogno avrebbe probabilmente trovato miglior fortuna. A Marina parve andare a sangue, perché quando l'aperse l'ombra violacea della montagna copriva gran tratto di lago oltre la rada; quando lo posò, il sole brillava per le vette dei boschi pendenti sopra il suo capo e l'ombra violacea moriva a pochi passi dalla sponda in un bel verde smeraldo. Tornò al Palazzo con la mente piena di quel libro. Avrebbe voluto conoscerne l'autore, parlargli. Credeva egli in quello che aveva scritto? Credeva si potesse resistere al destino e vincerlo? Se il destino era stato vinto, poteva dirsi destino? Se non poteva dirsi destino, v'hanno dunque spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, rappresentandoci il falso colle apparenze del vero e rappresentandocelo in modo da colpire fortemente la nostra fantasia? Nessuno rispondeva a tanta furia di domande e Marina voleva risposta. Non indugiò un momento. Senza neppur pensare a chi né come avrebbe diretta la lettera, buttò giù d'un fiato otto fitte paginette di una calligrafia inglese alquanto irregolare, battezzata già da miss Sarah per angloitaliana. Le otto paginette sfolgoravano di brio. Marina vi aveva preso un tono di maschera elegante che sa mescolare con garbo aristocratico le parole ironiche alle serie, e colorire la grazia con l'alterezza. Sottoscrisse «Cecilia» e, dopo un istante di incertezza, aggiunse il seguente poscritto: Vorrei pur sapere se credete possibile che un'anima umana abbia due o più esistenze terrestri. Se l'etereo autore di Un sogno non usa di colombe né di rondinelle postali, come si potrebbe sospettare, mandi semplicemente la sua risposta al dottor R.... ferma in posta. Milano. Poi Marina scrisse quest'altro biglietto alla signora Giulia De Bella: Aiutami a fare una piccola follìa ben timida e ben savia. Sono tutta meravigliata di aver letto, non so più bene se per amore o per forza, un romanzo italiano. Arriccia il tuo nasino ma ascolta. Questo romanzo è un buon signore timido con i guanti troppo scuri e la cravatta troppo chiara ch'entra impacciato nel tuo salon, saluta mezza dozzina di persone prima di te, oscilla un quarto d'ora tra una poltrona, una seggiola e uno sgabello, e si decide finalmente pel posto più lontano dalle signore. Ma poi, quando parla, non somiglia a nessun altro del tuo circolo. Ha delle idee, del fuoco, è un uomo. Ne hai, cara, degli uomini nel tuo circolo? Se ne hai, pardon. Non importa punto conoscere il nome né la persona dell'autore che ci si dice semplicemente Lorenzo. Potrebb'essere borghese, Matteo e biondo. M'è venuto invece il capriccio di una corrispondenza letteraria e ne posso avere tanto pochi dei capricci, che li soddisfo tutti subito. Y. che scrive a X.! Deve essere delizioso, specialmente se X. risponderà a Y. Potrebbe accadere che X. fosse una consonante di spirito; questa divertirebbe assai la povera Y. che si annoia come una regina. Ora X. non ha nemmanco a sapere di dove gli piova la mia lettera; vedi se non è una follìa savia! Tu dunque, amica mia, farai gettare alla posta l'accluso dispaccio diretto all'autore di Un sogno presso la tipografia V... Ma, come pensi bene, non basta. Ti compiaceresti di far cercare fra qualche giorno alla posta se vi fossero lettere per il dottor R... e di spedirmele se ve ne sono? Gli ho dato, contando sopra te, questo indirizzo, il meno compromettente possibile. La cosa è tanto innocente che potresti desiderar di chiedere il permesso di tuo marito per farla. In ogni caso taci il mio nome. Vi sarà poi qualche cosa per te. Ti manderò un pezzo di lago pel tuo giardino di via Bigli, per le manchettes della S... e per le mani illustri del professor G... I miei omaggi à ton très-haut seigneur et maître, se lo vedi. Addio, cara. Sto rileggendo un libro vecchio, l'Amour di Stendhal. È scritto au bistouri. Marina La signora De Bella, che aveva fatto per curiosità qualche follìa meno savia di questa, rispose tra scherzosa e corrucciata, minacciò l'amica con la punta della sua morale di gomma e conchiuse accettando; con la riserva sottintesa di leggere le lettere prima di spedirle. Ell'era, sovra tutto, una donna di coscienza. La risposta dell'autore di Un sogno non si fece attendere lungamente. Egli vi sosteneva con maggior cuore che vigore logico le opinioni espresse nel suo romanzo intorno alla fatalità e alla potenza invincibile dello spirito umano che vuole. Dimostrava come, negli avvenimenti a cui deve necessariamente concorrere la volontà dell'uomo con atti che toccano la sua coscienza morale, questa volontà sia un elemento principale che ne determina la forma; un'incognita variabile che introdotta nei calcoli fondati su leggi naturali fisse ne rende sempre incerto il risultato. Negava poscia l'azione prestabilita e necessaria della volontà che assente al male. Posto in sodo come basti alla dimostrazione della libertà umana che l'uomo possa sempre decidersi per il bene, sosteneva che lo può. Diceva che può sempre attingere l'impulso determinante al bene, dal fondo dell'anima sua stessa, da un punto di misterioso contatto con Dio ond'entra in lei una forza non calcolabile. È un gran torto, soggiungeva, della psicologia moderna, di non avere sufficientemente osservato i fatti interiori che vengono in appoggio di tale contatto. Colà sta la grande guarentigia della libertà umana. Quest'azione divina ch'entra dunque innegabilmente nell'origine delle azioni umane, non si oppone ella per sua natura al male morale, e non esclude, a priori, che sia mai necessario? Il mistico scrittore cercava poi dimostrare che neppure alla prescienza divina potrebbe appoggiarsi una teoria fatalista, perché prescienza e divinità sono due termini contraddittori, inconciliabili, come tempo e infinito, e nulla se ne può dedurre. Tutti questi argomenti erano posti innanzi con una ingenua foga che poteva salvare l'autore di Un sogno della taccia di pedante, ma generava il sospetto che egli volesse convincere, oltre alla sua corrispondente, se stesso. Spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, proseguiva, ve ne hanno certo, e possono anche illudere con le apparenze della fatalità. Tutto fa credere che, come noi esercitiamo un potere sopra gli esseri che ci sono inferiori, così siamo soggetti, entro certi limiti, all'azione di altri esseri che ci superano in potenza. Siamo forse soliti attribuire al caso quello che è opera loro. I sogni profetici, i presentimenti, le subitanee inspirazioni artistiche, le illuminazioni fugaci della nostra mente, i ciechi impulsi al bene e al male, certe inesplicabili allegrezze e malinconie, certi movimenti involontari della nostra memoria, sono probabilmente opere di spiriti superiori, parte buoni, parte malvagi. Tali considerazioni, scriveva Lorenzo, cadono tutte se non si ammette Dio. Esprimeva quindi la speranza che Cecilia non fosse atea, nel qual caso, avrebbe, a malincuore, troncato ogni corrispondenza con lei. Veniva in seguito alla pluralità delle esistenze terrestri. Lorenzo credeva alla pluralità delle esistenze. Lo stato dello spirito nel corpo umano è indubbiamente, diceva, uno stato di repressione, uno stato di pena, la quale non può riferirsi che a colpe commesse prima della incarnazione terrestre. I dolori degli innocenti e, in genere, la distribuzione ineguale del dolore e del piacere tra gli uomini, senza riguardo ai meriti e ai demeriti della vita presente; la sorte delle anime che escono pure dalla vita dopo un'ora della loro venuta ottenendo quel premio che ad altri costa lunghi anni di lotte durissime, non possono meglio spiegarsi che con l'attribuire alla nostra esistenza attuale un carattere di espiazione insieme a quello di preparazione. Ammesso il principio della pluralità delle esistenze, l'autore di Un sogno diceva che la ragione umana non può andare più avanti, e che il problema se le nostre vite anteriori sieno state terrestri o siderali va lasciato alla fantasia. La lunghissima lettera, un volume, finiva col voto molto poeticamente espresso che la corrispondenza misteriosa avrebbe continuato. La signora De Bella venne presto a capo, con le sue dita industriose, della busta, ma non resse a tanta filosofia e dalla prima pagina saltò alla chiusa: poi scrisse sulla sopraccarta: «Sono sicura ch'è perfettamente morale; è così pesante!» Marina invece divorò lo scritto. Sorrise appena dell'ingenuità di quell'uomo che rispondeva con tanta foga a un'incognita. Palpitò leggendo il nome di Cecilia a capo della lettera e nella chiusa. Naturalissimo che ci fosse; ma pure n'ebbe una impressione profonda. Passato qualche tempo, riscrisse dissimulando affatto le sue vere impressioni. Non parlava più in questa seconda lettera di fatalità né di esistenze precedenti; come per trarre scintille di spirito dal suo corrispondente, se ne aveva, lo veniva pungendo in mille modi. Scherzava sulla pedanteria della sua risposta, sulla sua pietà, sulla goffaggine del suo pseudonimo: gli chiedeva con un tono di curiosità impertinente se vi fosse qualche cosa di vero nel suo racconto, se avesse pubblicati altri lavori, perché si tenesse celato. La lettera fu ricevuta da Corrado Silla un quindici giorni prima della sua partenza per il Palazzo. Noi sappiamo come rispose. 6. Una partita a scacchi «Sì, il Cristianesimo, lo capisco bene» disse il conte, pigliando in mano un alfiere e guardandolo attentamente. «Non so chi sia la bestia che vuol tenerci così al buio.» Le imposte erano socchiuse e le tendine calate. Silla si alzò per fare un po' di luce. «No, Vi prego; vengano loro, questa gente! Volete aver la compiacenza di suonare? Lì, presso alla porta, quel bottone, due volte. Il Cristianesimo! Oh, io non Vi propongo di scrivere contro il Cristianesimo. Voi mi dite che finalmente il principio d'eguaglianza è stato portato nel mondo dal Cristianesimo. Cosa volete dire con questo? Che prima del Cristianesimo non vi fossero democrazie? Io intendo che il nostro libro consideri il principio di eguaglianza dov'è più mostruoso, ossia nel campo politico; e fra gli altri pregiudizi da fare in polvere vi sarà anche il pregiudizio che l'autore di questa brutale eguaglianza politica sia stato Cristo. Del resto, sentite: uguali davanti a Dio sarà benissimo; quello è un punto di vista molto lontano; ma uguali tra di noi! Ci vuole una grande durezza, una grande miopia fisica e intellettuale per sostenere che siamo uguali tra di noi. Se vi è qualche cosa che colpisce gli uomini è la loro disuguaglianza naturale nel corpo e nell'anima. Il mio cuoco è molto più simile ad Annibale e a Scipione Africano di un gorilla, ma non è loro eguale; e tutti i retori dell'89 e gli ambiziosi leccapopolo di poi non lo faranno diventare tale. Scacco al re.» «Non si può. Ma, scusi, ci son pure negli uomini i grandi caratteri fondamentali comuni che tutti conoscono e tante altre uniformità più nascoste. Io credo che gli uomini si rassomiglino moralmente assai più di quel che pare. E queste uniformità non devono essere riconosciute dalle leggi, non giustificano il principio di eguaglianza e le sue applicazioni ragionevoli? C'erano democrazie anche prima del Cristianesimo, sì; tutti i principii del Cristianesimo c'erano, si può dire, anche prima; ma esso ha loro fornito, volere o non volere, una base, uno stimolo e un ideale. Guardi l'immensa importanza attribuita a qualunque anima: guardi il precetto dell'amore tra gli uomini; nulla uguaglia più potentemente dell'amore!» «Scusatemi, vi è ancor molto fumo di gioventù in questo che dite. Lasciamo stare che la democrazia moderna è fatta di cupidigia e di superbia, non di amore; io Vi dico che l'amore tende a mantenere la ineguaglianza! io Vi dico che più un servo ama il suo padrone, più un soldato ama il suo generale, più una donna ama un uomo, più un debole ama un forte, più un piccolo ama un grande, più queste disuguaglianze sono rispettate. È la cupidigia, è la superbia che tende a distruggerle.» «Ma Lei suppone l'amore da una parte sola» esclamò Silla «dalla parte dell'inferiore. Lo supponga un po' anche dall'altra.» «Sicuramente lo suppongo. Volete Voi dirmi che Dio per amore si è fatto uomo? Io non entro in questo campo. Io dico che chi ama, se è intelligente, non si spoglia, non può né deve spogliarsi della funzione sociale che gli spetta. Io dico che la Vostra religione, se aiuta a far rispettare le disuguaglianze create dalla legge umana, molto più deve far rispettare le altre che portano la impronta di una volontà superiore. Ha ben altro a fare il Vostro amor del prossimo che impastare repubbliche democratiche, predicar l'eguaglianza fra i pedoni e gli altri pezzi, perché son tutti di legno e abitano un solo scacchiere! Mio caro, è mezz'ora che Vi ho detto: scacco al re.» «Non si può: c'è il cavaliere.» Il conte chinò sullo scacchiere il suo testone selvoso. «Già!» diss'egli. «Non ci si vede. Ma guardate un po' s'è venuto nessuno! No, non voglio che apriate Voi.» Si alzò e suonò egli stesso. «Mi perdoni,» disse Silla «è necessario che io Le faccia una domanda.» «Fate.» «Secondo Lei, è anche la nascita... fra le disuguaglianze da rispettare?» «Per Dio! Lo credo bene. Vi regalo delle centinaie di gentiluomiciattoli d'adesso per un quattrino al paio, ma non capite che la disuguaglianza degl'individui crea la disuguaglianza delle famiglie e che le grandi famiglie sorte per un potente impulso e tenute alte lungo i secoli, hanno una funzione organica nella società umana, sono in certo modo esseri superiori che vivono quattro, cinque, seicento anni e dispongono perciò di una forza assai più grande della comune, possono conservare lungamente molte buone abitudini, contrapporre l'interesse della patria a quello di una generazione passeggera, acquistare in pro dello Stato una esperienza straordinariamente lunga, servire di guida e di esempio al popolo?» «Ha suonato?» disse il cameriere entrando. «Chi diavolo vi ha detto» esclamò il conte «di tener le finestre chiuse a questo modo?» «Non sono io che ho chiuso; deve essere stata la signora Fanny.» Il conte calò un pugno sul tavolo. «Dov'è questa signora Fanny?» «Credo che sia giù lì nel cortile.» «A far che, nel cortile?» Il cameriere esitò un momento. «Non lo so» diss'egli. Il conte si alzò, andò ad aprire bruscamente la finestra, guardò giù, brontolò un'esclamazione piemontese e disse al cameriere: «Vengano su tutt'e due.» Il cameriere s'inchinò. «Ah, non lo sapevate!» esclamò il conte. Quegli, mogio mogio, uscì. «Pare impossibile!» disse il conte. «Quell'asino di dottore che fa la ruota intorno alla cameriera di mia nipote. In giardino come due colombi!» Un minuto dopo entrò il pitòr tutto rosso, ed esclamando «Che combinazione! che combinazione!» disse di essere giusta venuto per fare una partitina... «Con Fanny» interruppe il conte. Il dottore rise molto e disse che il conte aveva voglia di ridere. Non pareva, però, a guardarlo; e il dottore, ridendo di meno, lo guardava sempre. Disse poi che la signora Fanny non aveva volsuto venire perché era stata chiamata dalla sua padrona. «Cedo il mio posto al dottore» disse Silla, alzandosi. Il dottore protestò che non voleva assolutamente, che gli bastava di stare a vedere e che già il conte a giuocar con lui non si divertiva. Ma Silla insistette; temeva una scena e non gli garbava di assistervi. «Tornerò» diss'egli «ripiglierò la partita più tardi.» Uscito lui, Fanny, tutta imbronciata, porse il viso per la porta e disse: «Cosa comanda?» «Che veniate avanti.» Fanny aperse l'uscio un po' più, ma non si mosse. «Che veniate avanti!» gridò il conte. Ella fece un passo. «E che non v'immischiate di aprire né di chiudere imposte nelle mie camere! E che non perdiate tanto tempo in giardino dove non c'è niente per voi!» Il povero dottore, sulle spine, aveva insinuata la punta del naso fra il re e la regina, e fissava fieramente il pedone avanzato del re nemico. «È la marchesina...» cominciò Fanny provocante, facendo girar la maniglia dell'uscio. «Dite alla marchesina di venir qua» interruppe il conte. Fanny se ne andò battendo l'uscio e brontolando. «Sciocca!» disse il conte, ritirando la sua regina dalla seconda casa dell'alfiere del re avversario, dove l'aveva portata senza avvedersi che un cavaliere la minacciava. Fece un'altra mossa e soggiunse: «Non le pare, dottore?» «È magari un po' leggerina, sì, già» rispose vigliaccamente il pitòr, spingendo due passi il pedone della regina e offendendo il pedone del re avversario. «Tenga bene a mente, caro dottore» disse il conte «non si perda colle pedine, specialmente quando giuoca in casa mia; non Le tornerebbe conto davvero.» Il dottore fece fare al suo cavaliere un salto fantastico. «Cosa fa?» disse il conte. Quegli si batté la fronte, ritirò il pezzo e disse ch'era ottuso per il gran caldo, ch'era partito di casa alle undici e aveva fatto quattro o cinque visite sotto il sole bruciante. «Oh!» esclamò il conte trasalendo e guardando l'orologio. «E io che dimenticavo! Debbo andar a incontrare alcuni amici.» Al dottore non parve vero di poter troncare quella partita penosa. «Tralasciamo, tralasciamo» diss'egli «verrò bene un'altra volta.» Ed ecco da capo Fanny. «La signora marchesina desidera sapere» disse ella «cosa il signor conte vuole da lei.» «Ditele che la prego di voler finire, in vece mia, una partita a scacchi con il signor dottore.» «Ah Signore» esclamò questi «che non si disturbi mica per me!» «Andate» disse il conte. Gli occhi del dottore, poi che rimase solo, brillarono. «Ah che non mi perda con le pedine?» disse egli tra sé, fregandosi le mani. «Per la tua bella faccia! Togli su.» Aveva poc'anzi ottenuto da Fanny un appuntamento per quella notte alla cappelletta, un luogo solitario, a riva del lago, poco discosto dal Palazzo. Fanny avea promesso che vi sarebbe venuta con la lancia dopo mezzanotte. Era irrequieto, girava pel salotto, cercava uno specchio per vedersi felice e farsi delle congratulazioni. Non c'erano specchi là, non c'erano che i vetri aperti della finestra, dove gli riuscì d'intravvedere una languida immagine del suo viso beato. Guardò giù nel cortile dove era stato visto dal conte a colloquio con Fanny, e mormorò: «Maledetta finestra!» Il conte attraversava il cortile e saliva imperterrito la scalinata arsa dal sole, fra le grandi ombre ferme dei cipressi, lo stormire, il luccicar delle vigne corse dal vento meridiano. Il dottore gli diede un'occhiata e, sicuro del fatto suo, se la svignò in cerca di Fanny. Intanto il pedone della regina bianca e il pedone del re nero, stretti corpo a corpo per obliquo e immobili, si domandavano se vi fosse pace o armistizio o Consiglio di guerra. Ma né loro né altri in tutto il campo ne sapeva nulla. Si diceva bensì, tra i neri come tra i bianchi, che la campagna era male condotta, senza energia, e che l'azione militare era subordinata a una azione diplomatica molto varia, molto estesa, a cui prendevano parte successivamente, per diversi scopi, parecchie Potenze. Infatti la era una partita come quelle che i venti giuocavano qualche volta sul piccolo lago, sfiorandolo appena, facendovi correr su le veloci, da opposte parti, piccole macchie brune, mentre la guerra grossa urlava in alto, sopra le cime delle montagne fra i nuvoloni pieni di mistero e di inimicizie. «Sono qui» disse Silla entrando, e si fermò sui due piedi. Come mai non c'era nessuno? Si accostò allo scacchiere. La partita non era terminata: tutt'altro; dopo che l'aveva lasciata lui non s'erano fatte che due mosse. Si guardò attorno e, visti sopra una sedia il cappello e la mazza del dottore, suppose che almeno costui sarebbe tornato presto e si mise alla finestra. Pensò alle parole del conte sulla uguaglianza politica, sui privilegi della nascita. Era una fosca nube che sorgeva davanti a lui. Veramente, non aveva studi speciali in questi argomenti, ma dall'Università in poi era stato nutrito d'idee opposte a quelle del conte, avea respirato la vibrata aria democratica della società moderna e ora non credeva quasi possibile che un repubblicano come il conte avesse simili convinzioni. Adesso intendeva certe frasi, discorsi precedenti del conte, di cui, a prima giunta, non aveva potuto afferrare il senso e rimproverava se stesso di aver troppo leggermente accondisceso a farsi suo collaboratore. Quando il conte gli aveva manifestato il tema del lavoro che aveva in animo di affidargli e a cui proponeva questo titolo: Principii di politica positiva, Silla avea bene espresso le sue riserve sulla questione che vi si dibattesse fra la repubblica e la monarchia, ma non aveva pensato a quest'altro dissidio. Il conte aveva subito accettate queste riserve, dichiarando che mai, in nessun caso, gli avrebbe proposto di sacrificare le proprie opinioni; che forse, trattando l'argomento in generale e con principii positivi, avrebbero potuto accordarsi molto più facilmente di quanto paresse probabile; che ad ogni modo avrebbero discusso tutto. E s'eran posti immediatamente all'opera incominciando con una esposizione rapida delle vicissitudini della scienza dai Greci in poi. Ma ora Silla sentiva aprirsi un dissenso molto più profondo. Che fare? Accettare una discussione nella quale potrebbe rimaner vinto per mancanza di studi? Era un pericolo grave. D'altra parte, quale fierezza e quale audacia nelle idee del conte, quale disprezzo delle opinioni volgari e della corrente umana! Sarebbe stata un'umiliazione inesprimibile ritirarsi senza lotta, riconfondersi con la moltitudine, lasciando solo quest'uomo nell'attitudine così nobile di uno contro tutti. No, bisogna stare a fronte di lui, e non a fianco delle passioni, dei pregiudizi democratici; sostenere la nobiltà e la grandezza del principio di eguaglianza, con l'aiuto di quello stesso spiritualismo religioso che deve poi regolarne l'applicazione, secondo un ideale elevatissimo di fraternità; ammettere di buon grado gli errori, le ingiustizie, la cecità, le insopportabili pretese del sentimento democratico moderno; ma poi combattere; combattere sopra tutto l'orgoglio aristocratico, i privilegi della nascita. In quest'ultimo pensiero il sangue di Silla si veniva riscaldando, il cuore gli batteva più rapido, buttava fuoco dal petto e fiere parole di passione che non erano dirette al conte. No, Silla, poco a poco, involontariamente, s'immaginava di fronte a donna Marina, la vedeva passare con la sua indifferenza altera, tanto più pungente quanto più la persona era delicata e graziosa, con il suo freddo sguardo che scintillava solo talvolta incontrando quello del conte. A lei Silla dirigeva mentalmente la sua eloquenza. Non ne aveva ottenute tre parole in venti giorni; anche senza parlare ella gli aveva ben fatto intendere che non lo stimava degno né di cortesia né di attenzione. Almeno Silla credeva così, e fino dai primi giorni si era regolato con lei secondo questa idea, opponendo alterezza ad alterezza, non senza soffrirne però, non senza una specie di voluttà amara che in presenza di lei gli stringeva forte il cuore. E ora gli pareva di attraversarle il cammino, di fermarla, volesse o no, di chiederle cosa credesse mai... «Dunque, dottore?» disse una voce dietro a lui. Silla si voltò in fretta. Era ben lei, donna Marina, seduta davanti allo scacchiere. «Io prendo il nero» diss'ella, guardando attentamente i pezzi. Ell'era dunque venuta leggera come una fata, o Silla si era ben lasciato affondare nei suoi pensieri! Egli non si mosse. «Dottore!» disse Marina con accento di sorpresa. Alzò la testa e vide Silla. Aggrottò un istante le sopracciglia, tornò a guardare attentamente lo scacchiere, e disse con la sua voce gelida: «Dov'è il dottore?» «Non lo so, signorina.» «Avvicini un poco le imposte» soggiunse Marina quasi sottovoce, senza guardarlo. Silla finse di non aver inteso, si staccò dalla finestra e passò dietro a lei, per uscire. Ella non alzò il capo, ma quando Silla fu presso all'uscio, gli disse, sempre sullo stesso tono: «La prego, avvicini un poco le imposte.» Silla tornò indietro silenziosamente, senz'affrettarsi, avvicinò le imposte e si avviò da capo alla porta. «Sa giuocare?» disse donna Marina. Silla si fermò, sorpreso. Ell'aveva alzata la testa, finalmente; ma adesso faceva scuro nella camera e non si poteva vedere l'espressione del suo sguardo. La voce suonava tuttavia di fredda insolenza. Silla s'inchinò. Donna Marina aspettava forse che si offrisse per finire la partita con lei; ma questa offerta non veniva. Accennò allora la sedia vuota in faccia a lei e con un gesto della mano destra, senza muovere affatto la testa. Evidentemente quella mano non aveva detto «prego» ma «permetto». Silla si sentì vile. Era forse la sottile fragranza entrata nella camera, la stessa fragranza sentita il giorno del suo arrivo nella galleria dei paesaggi, che ora gli ammorbidiva l'orgoglio, gli diceva, a nome di Marina, tante cose blande. Voleva rifiutare e non poteva. «Ha paura?» disse donna Marina. Silla prese la sedia vuota. «Di vincere, signorina» rispose. Ella alzò gli occhi in viso. Adesso Silla poteva quasi sentire il tepore di quel viso; adesso vedeva bene i grandi occhi freddi che lo interrogavano insieme con le labbra. «Perché, di vincere?» «Perché non so farmi inferiore se non lo sono.» Ella alzò impercettibilmente le sopracciglia come altri avrebbe alzato le spalle, guardò lo scacchiere tenendo l'indice arcuato sul mento, e disse: «Movo io.» Porse la mano, la tenne un momento sospesa sui pezzi. La lama di luce ch'entrava fra le imposte socchiuse le batteva sui capelli capricciosi, sulla guancia pallida, sull'orecchio delicatissimo, sulla piccola mano bianca sospesa in aria, lumeggiata, nell'ombra, di trasparenze rosee, mostrava una bella figura tranquilla, intenta al giuoco. Silla non era così tranquillo, pensava involontariamente, guardandola, che l'avrebbe baciata e morsa. Donna Marina prese il pedone della regina bianca e lo gittò nel bossolo. «Crede proprio di non essere inferiore?» diss'ella. «Non so come Lei giuochi» rispose Silla movendo un alfiere. Ella mise un breve riso metallico guardando l'alfiere nemico, e disse: «Vede, io so invece come giuoca Lei. Lei giuoca prudente. Ha paura di perdere, non di vincere.» A questo punto il dottore spinse l'uscio, e vista la partita impegnata, si fermò. Marina parve non vederlo. Quegli richiuse l'uscio piano piano. «Cosa fa adesso?» proseguì Marina con accento più vibrante. «Perché non esce fuori con la Regina? Perché non attacca sinceramente?» «Io non attacco. Mi basta difendermi, e Le assicuro, marchesina, che lo posso fare abbastanza bene. Perché vorrebbe Lei che attaccassi?» «Perché allora la finirei più presto.» «Secondo.» «Si provi» disse Marina. Silla chinò la testa, con intensa attenzione, sullo scacchiere. Donna Marina fece un atto d'impazienza e si alzò in piedi. «È inutile che studii tanto» diss'ella. «Le assicuro che non vincerà. Non vincerà» ripeté scompigliando con la mano e rovesciando i pezzi. «Io non ho giuocato contro di Lei altra partita che questa, e credo che non giuocherò più.» «Meglio per Lei.» «Oh, né meglio né peggio.» «Sicuro» diss'ella con accento sarcastico. «Ella non è qui per giuocare contro di me; è qui per fare degli studi profondi con il conte Cesare, non è vero? Che studi sono?» Silla godeva di sentirla irritata; era una vittoria. «Di nessun interesse per Lei, signorina» rispose. Ella restò un momento pensierosa e poi tornò a sedere. Quali dubbi, quali pensieri di conciliazione le passavano pel capo? Recò ambedue le mani a una crocettina d'oro che le pendeva dal collo tra l'abito aperto e giocherellò con essa piegando il mento al seno, scoprendo un po' delle braccia tornite. «Molto bassi questi studi, dunque» diss'ella. «Oh, no.» «Ah. Lei crede allora che sieno troppo alti per me?» «Non ho detto questo.» «Vediamo; è matematica?» «No.» «Metafisica?» «No.» «Scienze occulte, forse? Il conte ha bene dello stregone; non trova, signor... signor... Come si chiama Lei?» «Silla.» «Non trova, signor Silla?» «No, signorina.» «Molto reciso, Lei.» Seguì un momento di silenzio. Si udì la voce del conte mista ad altre voci di persone che scendevano per la scalinata. Silla si alzò in piedi. «Aspetti un poco» diss'ella bruscamente. «Non voglio sfingi davanti a me. Cosa scrive Lei con mio zio?» «Un libro noioso.» «Capisco; ma di che tratta?» «Di scienza politica.» «Ella è uomo di Stato?» «Qualche cosa di meglio: sono artista.» «Di canto?» «La marchesina ha un grande spirito!» «E Lei è molto orgoglioso!» «Forse.» «E con quale diritto?» Dicendo queste parole Marina sorrise di un enigmatico di cui Silla non capì il veleno. «Di rappresaglia» rispose. «Oh!» esclamò Marina. Un lampo di sdegno le passò negli occhi. L'uno e l'altro pensarono in quel momento a un predisposto legame, fosse pure d'antagonismo, di inimicizia, nel loro futuro destino. «È dunque vero» disse Marina sottovoce «che Lei giuoca un'altra partita qui al Palazzo?» «Io?» rispose Silla, sorpreso. «Non so cosa Lei voglia dire.» «Oh, lo sa! Ma Lei giuoca coperto, giuoca prudente, non ha ancora mosso la Regina. Povero orgoglio il Suo! E parla di rappresaglie! Non mi conosce, Lei. Mi hanno scritto poco tempo fa che sono superba, che vorrei vivere in una stella di madreperla, e che in questo pianeta borghese, in questo sudicio astro di mala fama, non c'è posto, per me, da posare il piede. Risponderò che il posto l'ho trovato e...» «Ecco mia nipote» disse il conte entrando con alcune persone. Silla non si mosse. Guardava Marina con gli occhi sbarrati. La sua corrispondente, Cecilia, lei! «Il signor Corrado Silla, mio buon amico» soggiunse il conte «il quale ha ancora la testa negli scacchi, a quanto pare». 7. Conversazioni Quel giorno la gentildonna veneziana di Palma il Vecchio fu scherzosamente pregata di uscire dalla sua cornice e di sedere a pranzo. La bella donna rispose col solito sorriso. Benché la mensa brillasse di argenti, di cristalli e di fiori, non valeva ad allettare lei, cresciuta fra magnificenze orientali. E poi, quale squallida comitiva di adoratori a' suoi piedi! Chi la pregava di scendere era il comm. Finotti, deputato al Parlamento, prossimo alla sessantina, con gli occhi tutti fuoco e il resto tutto cenere. C'era pure il comm. Vezza, letterato, aspirante al Consiglio superiore d'istruzione pubblica e al Senato, piccolo, tondo, imbottito di dottrina e di spirito, caro a molte signore ma non a quella lì, che non era letterata né ipocrita e rideva di quegli occhiali d'oro, di quel carnierino grigio corto, di quelle forme da soldatino di gomma. C'era il prof. cav. ing. Ferrieri: fisonomia nervosa, occhio intelligente, sorriso scettico, cervello e cranio perfettamente lucidi. Neppure costui poteva allettare la bella veneziana. Ella era troppo del XVI secolo e lui troppo del XIX. Nato con una scintilla di poeta e d'artista, l'avea convertita in agente meccanico. C'era l'avvocatino Bianchi, giovinotto elegante, timido, con un'aria di sposina imbarazzata, tutto tepido ancora del nido di famiglia. Anche di lui sorrideva dall'alto la esperta dama. Altre facce nuove non c'erano, perché non poteva contarsi fra queste la trista figura del dottore, sdrucciolato, senza invito nella sala da pranzo. Chi aveva portato quegli ospiti al Palazzo era stato il solitario fiumicello ch'esce dal lago a ponente, fra i pioppi. Alcuni capitalisti di Milano avevano incaricato il prof. Ferrieri di recarsi a visitare l'emissario del piccolo lago di... e a studiare se ci fosse forza bastante per una grande cartiera. Il professore doveva schizzare un progetto sommario, tastare il Municipio di R... per la costruzione di un tronco di strada e fors'anche per la cessione gratuita di un fondo comunale. Egli era un ingegnere di molta fama; quattro sgorbi col suo nome avrebbero fatto piovere gli azionisti. Aveva portato con sé suo nipote avvocato per la parte legale dell'affare. Il commendatore politico e il commendatore letterato, vecchi amici del conte Cesare e dell'ingegnere, si erano accompagnati a questo per fare al Palazzo una visita promessa fino dal 1859. Il pranzo fu eccellente e largamente inaffiato di spirito. I motti dell'onorevole deputato si urtavano con le freddure dell'uomo di lettere, con gli epigrammi incisivi dell'ingegnere professore. Il vocione del conte copriva spesso le altre voci, il tintinnìo delle posate e dei cristalli, il cozzo sguaiato dei piatti e tutto quanto. Il giovane avvocato taceva, mangiava poco, beveva acqua e guardava Marina. Steinegge e il dottore bisbigliavano insieme, scambiavano qualche rara parola con Silla. Questi, distratto, assorto in altri pensieri, tante volte non rispondeva loro nemmeno, o rispondeva a sproposito. Marina pure era taciturna. I due commendatori suoi vicini chiedevano aiuto alla Natura, all'Arte, al cielo e alla terra per farla parlare e non riuscivano a trarle di bocca che radi monosillabi. Però il suo viso, il suo sguardo, che non si rivolse mai a Silla, non esprimevano preoccupazione alcuna. Il commendator Vezza, che aveva la manìa di saper tutto, le domandò, per ultimo tentativo, se conoscesse un certo punto di ricamo di nuova introduzione, che a Milano tutte imparavano. Ella gli rispose con una sommessa esclamazione di meraviglia sdegnosa che turbò molto il dotto uomo e lo spinse a buttarsi subito fra i discorsi degli altri. Si parlava della futura cartiera. L'ingegnere vantava le nuove macchine che si sarebbero introdotte per fare e adoperare la pasta di legno. Steinegge si stupiva che la pasta di legno fosse una novità per l'Italia; secondo lui l'uso n'era divulgatissimo in Sassonia. Il Vezza osservò che in Italia usavano gli azionisti di pasta di legno e le azioni di cenci; fece poi dei commenti agrodolci su questo germanismo industriale tanto riprensibile, secondo lui, quanto il germanismo letterario. La discussione s'infervorò subito. Il Finotti sosteneva il Vezza; l'ingegnere lo combatteva. Steinegge, rosso rosso, fremeva in silenzio, versava Sassella, versava Barolo sulle piaghe del suo amor proprio nazionale. «Quella è la miglior poesia italiana, non è vero?» gli disse ridendo l'ingegnere. Steinegge giunse le mani, soffiò e alzò gli occhi al cielo senza parlare, come un vecchio serafino estatico. «Ben detto, signor Steinegge, bravo» gridò l'onorevole deputato. «Cesare, tra poco ci capita la Giunta di R..., non è vero, per conferire qui con Ferrieri sotto i tuoi auspici? Bisogna inzupparmela di questo Barolo. Per quanto siano duri quei signori, l'amico se li mangerà facilmente, uno dopo l'altro.» «Oh, non li conosci» rispose il conte. «Essi berranno il mio vino e le ragioni del signor professore, loderanno tutto e non si decideranno a niente. Questa gente, più la si accarezza, meno si fida. E non ha poi tutti i torti.» «Già! Timeo! Ma intanto lui, il professore, non porta nessun dono, e poi, per fortuna, ha un profilo così poco greco! Non Le pare, marchesina?» Marina rispose asciutto che non si occupava di greco. «E lui son quarant'anni che va dimenticando di essersene occupato male» disse il professore. «Non gli dia retta. Del resto, non sono greco ma ho il Pattolo in tasca. Duecentocinquanta fra operai e operaie, una dozzina d'impiegati tecnici e amministrativi, l'esempio, sopra tutto l'esempio! Sapete quanti opifici si potranno piantare con quell'acqua lì! Dopo verrà la necessità d'una ferrovia.» «Prova generale» sussurrò il commendator Vezza. «Insomma il Municipio di R... mi deve buttare ai piedi la strada, il terreno e il diploma della sua cittadinanza.» «Castelli di carta. Ah, una trota, salmo pharius. Rossa, di fiume. Queste ce le guasterai di sicuro con la tua carta.» Ciò detto, il comm. Vezza impegnò con il conte, l'ingegnere e Steinegge un dialogo assai vivo sulle trote d'ogni razza e paese, sulle reti, sugli ami, sulla piscicoltura. Intanto l'uomo politico trovò modo di avviarne uno più intimo col dottore, suo vicino, intorno a Corrado Silla; ne raccolse con voluttà le maldicenze che correvano sulla origine del giovane. Quando poteva mettere il dito sopra una debolezza umana di quel genere, una debolezza di puritano, inaspettata, curiosa, era felice. «Dunque» diceva il comm. Vezza «per le trote di fiume s'infilza sull'amo una mosca... o un lombrico...» «O un poeta tedesco» suggerì l'ingegnere. «No, chi ne mangia? Neppure un ingegnere. Gli è per pigliare i sindaci lacustri che s'infilza sull'amo un pezzo grosso dell'Università incartato in un progetto...» Qui il commendatore si cacciò in fretta una mano sulla bocca, perché, annunciati dal cameriere, entravano il Sindaco e la Giunta di R... Movimento generale, strepito di sedie, presentazioni cerimoniose, silenzio, tintinnìo di tazze, brindisi eloquente del commendator Vezza alla futura prosperità del Comune di R... «così degnamente e sapientemente rappresentato». Dell'amo non parlò. Il Sindaco e la Giunta lo guardavano trasognati, con la vaga inquietudine di chi sente farsi gran lodi e non sa perché, e teme d'esser caduto in qualche imbroglio. Poi tutti si alzarono. Il conte, l'ingegnere, l'avvocatino e la Giunta si strinsero a conferire insieme. Il comm. Finotti diede il braccio a donna Marina sussurrandole alcune parole francesi e sorridendo, probabilmente all'indirizzo delle autorità che spandevano un disgustoso odore di fustagno. Si respirava uscendo da quel caldo nell'ombra fresca della loggia, dove veniva su dal cortile un soave odore di rhynchospermum fiorito. Anche il lago davanti al Palazzo taceva per un gran tratto nell'ombra. Le montagne in faccia e l'acqua in cui si specchiavano eran dorate. Il ponente splendeva, sereno. A levante, l'Alpe dei Fiori, infocata, toccava il cielo nero, tempestoso. «Bello!» disse il comm. Finotti appoggiandosi alla balaustrata; «bello, ma troppo deserto. Come Le passa il tempo in quest'èremo, marchesina?» «Non passa del tutto» rispose Marina. «Ci sarà però nei dintorni qualche essere umano lavato e pettinato da poter dire due parole.» «Ce n'è uno dipinto.» Accennò il dottore che stava presso l'entrata della loggia ascoltando a bocca aperta un vivacissimo dialogo tra il Vezza e Steinegge. Silla si teneva in disparte, guardava il getto d'acqua nel cortile. «Ma Cesare» insiste il Finotti «ha sempre ospiti. Anche adesso, mi pare...» soggiunse con una voce piena di domande sottintese, guardando la giovane signora, che sporse il labbro inferiore senza rispondere. «Come mai è amico di Cesare?» disse il commendatore sottovoce. «Non lo so.» «Io però lo invidio». «Perché?» «Viver vicino a Lei!» «Può essere assai poco piacevole agli altri se non garbano a me» disse Marina con l'accento e l'atto di chi vuol troncare un discorso. «Vezza!
Non sono presenti notizie riguardanti questa opera.
|