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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
I
Donna Laura Albònico stava nel giardino, sotto la pergola, prendendo il fresco all’ora meridiana. La villa taceva, tutta bianca, con le persiane chiuse tra le piante degli agrumi. Il sole raggiava un calore e un fulgore immensi. Era la metà di giugno; e i profumi degli aranci e dei limoni fioriti si mescolavano all’odor delle rose, nell’aria tranquilla. Le rose crescevano da per tutto, nel giardino, con una forza indomabile. Le masse magnifiche si movevano, lungo i viali, ad ogni soffio di vento, coprendo il terreno con l’abbondanza della loro neve odorante. In certi momenti l’aria, pregna dell’aroma, aveva un sapore dolce e possente come quello di un vino prelibato. Le fontane, invisibili tra la verzura, mormoravano. A tratti, la cima mobile scintillante degli zampilli appariva fuor del fogliame, scompariva, riappariva, con vari giochi; e alcuni zampilli bassi producevano nei fiori e nelle erbe un fruscìo e uno scompiglio singolari, sembrando bestie vive che vi corressero a traverso o vi pascolassero o vi scavassero tane. Gli uccelli, invisibili, cantavano. Donna Laura, seduta sotto la pergola, meditava. Ella era una donna già vecchia. Aveva il profilo fine e signorile; il naso lungo, lievemente aquilino, la fronte un po’ troppo ampia, la bocca perfetta, ancóra fresca, piena di benignità. I capelli canuti le si piegavano su le tempie e le facevano intorno al capo una specie di corona. Doveva essere stata molto bella, nella gioventù, ed amabile. Era venuta da due soli giorni in quella casa solitaria, col marito e con pochi servi. Aveva rinunziato alla villa magnatizia che sorgeva sopra un colle del Piemonte, abituale soggiorno estivo; aveva rinunziato al mare, per quella campagna deserta e quasi arida. - Ti prego, andiamo a Penti - aveva detto al marito. Il barone settuagenario era rimasto da prima un po’ stupefatto, a quello strano desiderio della moglie. Perché a Penti? Che s’andava a fare a Penti? - Ti prego, andiamo. Per mutare - aveva insistito Donna Laura. Il barone, come sempre, s’era lasciato persuadere. - Andiamo. Ora, Donna Laura custodiva un segreto. Nella giovinezza, la sua vita era stata attraversata dalla passione. A diciotto anni aveva sposato il barone Albónico, per ragioni di convenienza familiare. Il barone militava sotto il primo Napoleone, con molta prodezza; egli stava quasi sempre assente dalla sua casa, poiché seguiva ovunque il volo delle aquile imperiali. In una di quelle lunghe assenze, il marchese di Fontanella, un giovine signore che aveva moglie e figliuoli, fu preso d’amore per Donna Laura; e, come egli era bellissimo ed ardente, vinse alfine ogni resistenza dell’amata. Allora pei due amanti una stagione passò nella felicità più dolce. Essi vivevano nell’oblio di tutte le cose. Ma un giorno Donna Laura s’accorse d’essere incinta: pianse, si disperò, rimase in una terribile angoscia, non sapendo che risolvere, come salvarsi. Per consiglio del suo amico, partì alla volta della Francia; si nascose in un piccolo paese della Provenza, in una di quelle terre solatìe piene di verzieri, dove le donne parlano l’idioma dei trovatori. Abitava una casa di campagna, circondata da un grande orto. Gli alberi fiorivano: era la primavera. Fra i terrori e le nere malinconie, ella aveva intervalli d’una infinita dolcezza. Passava lunghe ore seduta all’ombra, in una specie d’inconsapevolezza, mentre il sentimento vago della maternità le dava a tratti a tratti un brivido profondo. I fiori intorno a lei emanavano un profumo acuto: leggere nausee le salivano alla gola e le propagavano per tutte le membra una lassitudine immensa. Che giorni indimenticabili! E, quando il momento solenne si avvicinava, giunse, desiderato, il suo amico. La povera donna soffriva. Egli le stava accanto, pallido in viso, parlando poco, baciandole spesso le mani. Ella partorì di notte. Gridava, fra gli spasimi; si afferrava convulsamente alla lettiera: credeva di morire. I primi vagiti dell’infante le scossero l’anima dalle radici. Ella, supina, con la testa un po’ arrovesciata oltre i guanciali, bianca bianca, senza più voce, senza più forza per tenere aperte le palpebre, agitava dinanzi a sé le mani esangui, debolmente, in certi piccoli movimenti vaghi, come fanno talvolta i moribondi verso la luce. Il giorno dopo, tutto il giorno, ella tenne seco, nel medesimo letto, sotto la medesima coperta, il bambino. Era un essere fragile, molle, un po’ rossiccio, che vibrava d’una palpitazione incessante, di una vita palese, e in cui le forme umane non avevano certezza. Gli occhi stavano ancóra chiusi, un po’ gonfi; e dalla bocca usciva un lamento fioco, quasi un miagolìo indistinto. La madre, rapita, non si saziava di riguardare, di toccare, di sentirsi su la guancia l’alito filiale. Dalla finestra entrava una luce bionda e si vedevano le terre provenzane tutte coperte di mèssi. Il giorno aveva una specie di santità. I canti del fromento si avvicendavano, nell’aria quieta. Dopo, il bambino le fu tolto, fu nascosto, fu portato chi sa dove. Ella non lo rivide più. Ella tornò alla sua casa; e visse col marito la vita di tutte le donne, senza che nessun altro avvenimento sopraggiungesse a turbarla. Non ebbe altri figliuoli. Ma il ricordo, ma l’adorazione ideale di quella creatura ch’ella non vedeva più, ch’ella non sapeva più dove fosse, le occuparono l’anima per sempre. Ella non aveva se non quel pensiero; rammentava tutte le minime particolarità di quei giorni; rivedeva chiaramente il paese, la forma di certi alberi che stavano dinanzi alla casa, la linea d’una collina che chiudeva l’orizzonte, il colore e i disegni del tessuto che copriva il letto, una macchia nella vòlta della stanza, un piccolo piatto figurato su cui le portavano il bicchiere, tutto, tutto, chiaramente, minutamente. Ad ogni momento il fantasma di quelle cose lontane le sorgeva nella memoria, così, senza ordine, senza legame, come nei sogni. A volte ella ne rimaneva quasi stupita. Le tornavano dinanzi, precisi e viventi, i volti di certe persone vedute laggiù, i loro moti, un loro gesto insignificante, una loro attitudine, un loro sguardo. Le pareva di avere negli orecchi il vagito della creatura, di toccare le mani esilissime, rosee, molli, quelle manine che forse erano la sola parte già tutta formata perfettamente, simili alla miniatura d’una mano d’uomo, con le vene quasi impercettibili, con le falangi segnate di pieghe sottili, con le unghie trasparenti, tenere, appena appena soffuse di viola. Oh, quelle mani! Con che strano brivido la madre pensava alla loro carezza inconsapevole! Come ne sentiva l’odore, l’odore singolare che ricorda quello dei colombi nella prima piuma! Così Donna Laura, chiusa in questa specie di mondo interiore che ogni giorno più assumeva le apparenze della vita, passò gli anni, molti anni, sino alla vecchiezza. Tante volte aveva chiesto all’antico amante notizie del figliuolo. Ella avrebbe voluto rivederlo, sapere il suo stato. - Ditemi dov’è, almeno. Vi prego. Il marchese, temendo un’imprudenza, si rifiutava. “ Ella non doveva vederlo. Ella non avrebbe saputo contenersi. Il figlio avrebbe indovinato tutto; si sarebbe valso del segreto per i suoi fini; avrebbe forse rivelato ogni cosa... No, no, ella non doveva vederlo. “ Donna Laura, dinanzi a queste argomentazioni d’uomo pratico, rimaneva smarrita. Ella non sapeva imaginarsi che la sua creatura fosse cresciuta, fosse già adulta, fosse già presso al limitare della vecchiaia. Oramai erano passati circa quarant’anni dal giorno della nascita; eppure ella nel suo pensiero non vedeva se non un bambino, roseo, con gli occhi ancóra chiusi. Ma il marchese di Fontanella venne a morire. Quando Donna Laura seppe la malattia del vecchio, fu presa da un’angoscia così penosa che una sera, non potendo più resistere allo spasimo, uscì sola, si diresse verso la casa dell’infermo, perché un pensiero tenace la sospingeva, il pensiero del figlio. Prima che il vecchio morisse, ella voleva conoscere il segreto. Camminò lungo i muri, tutta raccolta, come per non farsi vedere. Le strade erano piene di gente; l’ultimo chiarore del tramonto faceva rosee le case; tra una casa e l’altra un giardino appariva tutto violaceo di lilla in fiore. Voli di rondini, rapidi e circolari, s’intrecciavano nel cielo luminoso. Frotte di bambini passavano a corsa, con grida e con richiami. Talvolta passava una femmina incinta, a braccio del marito; e l’ombra della sua gonfiezza si disegnava sul muro. Donna Laura pareva incalzata da tutta quella gioconda vitalità delle cose e delle persone. Ella affrettava il passo, fuggiva. Gli splendori varii delle vetrine, delle botteghe aperte, dei caffè le davano agli occhi un senso acuto di dolore. A poco a poco una specie di stordimento le occupava la testa; una specie di sbigottimento le prendeva lo spirito. - Che faceva? Dove andava? - In quel disordine della coscienza, le pareva quasi di commettere una colpa, le pareva che tutti la guardassero, la indagassero, indovinassero il suo pensiero. Ora la città s’invermigliava agli ultimi rossori del sole. Qua e là, dentro le cantine, i cori del vino si levavano. Come Donna Laura giunse alla porta, non ebbe forza di entrare. Passò oltre, fece venti passi; poi ritornò in dietro, ripassò. Finalmente varcò la soglia, salì le scale; si fermò, sfinita, nell’anticamera. Nella casa c’era quell’animazione silenziosa di cui i familiari circondano il letto dell’infermo. I domestici camminavano in punta di piedi, portando qualche cosa fra le mani. Avvenivano dialoghi a bassa voce, nel corridoio. Un signore calvo, tutto vestito di nero, attraversò la sala, s’inchinò a Donna Laura, ed uscì. Donna Laura chiese a un domestico, con la voce ormai ferma: - La marchesa? Il domestico indicò rispettosamente col gesto un’altra stanza a Donna Laura. Quindi corse ad annunziare la visita. La marchesa apparve. Era una signora piuttosto pingue, con i capelli grigi. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Aperse le braccia all’amica, senza parlare, soffocata da un singulto. Dopo un poco, Donna Laura chiese, non alzando gli occhi: - Si può vedere? Profferite le parole, strinse le mascelle per reprimere un tremito violento. La marchesa disse: - Vieni. Le due donne entrarono nella stanza dell’infermo. La luce ivi era mite; l’odore di un farmaco empiva l’aria; gli oggetti segnavano grandi e strane ombre. Il marchese di Fontanella, disteso nel letto, pallido, pieno di rughe, sorrise a Donna Laura, vedendola. Disse lentamente: - Grazie, baronessa. E le tese la mano ch’era umidiccia e tiepida. Egli pareva aver ripreso gli spiriti d’un tratto, per uno sforzo di volontà. Parlò di varie cose, curando le parole, come quando stava sano. Ma Donna Laura, all’ombra, lo fissava con uno sguardo così ardente di supplicazione che egli, indovinando, si volse alla moglie. - Giovanna, ti prego, preparami tu la pozione, come stamattina. La marchesa chiese licenza, ed uscì senza sospetto. Nel silenzio della casa si udirono i passi di lei allontanarsi su i tappeti. Allora Donna Laura, con un moto indescrivibile, si chinò sul vecchio, gli prese le mani, gli strappò le parole con gli occhi. - A Penti... Luca Marino... ha moglie... figli... una casa... Non lo vedere! Non lo vedere! - balbettò il vecchio, a fatica, preso da un terrore subitaneo che gli dilatava le pupille - A Penti... Luca Marino... Non ti svelare mai! Già la marchesa veniva, con il medicamento. Donna Laura sedette; si contenne. L’infermo bevve; e i sorsi scendevano nella gola con un gorgoglio, a uno a uno, distinti, regolari. Poi successe un silenzio. E l’infermo parve preso da sopore: tutta la faccia gli si fece più cava; ombre più profonde, quasi nere, gli occuparono le occhiaie, le guance, le narici, la gola. Donna Laura si accomiatò dall’amica; se ne andò, trattenendo il respiro, pianamente.
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