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Info sull'Opera
Autore:
Grazia Deledda
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Canne al vento ( cap. XI- XII - XIII)

di Grazia Deledda

Capitolo undicesimo

Un giorno in autunno Efix andò in casa di don Predu.
C'erano solo le serve, una grassa e anziana che si dava le arie imponenti della sorella del Rettore, l'altra giovane e lesta benché afflitta dalle febbri di malaria; ed egli dovette attendere nella stanza terrena, divagandosi a guardare nel vasto cortile i graticoli di canna coperti di fichi verdi e neri, d'una violetta e di pomidoro spaccati velati di sale. Tutta la casa spirava pace e benessere: sui muri chiari tremolava l'ombra dei palmizi e tra il fogliame dorato dei melagrani le frutta rosse spaccate mostravano i grani perlati come denti di bambino. Efix pensava alla casa desolata delle sue povere padrone, a Noemi che vi si consumava dentro come un fiore al buio...
"Come sei dimagrito", gli disse la serva anziana, che filava seduta presso la porta, "hai le febbri?"
"Mi rosicchiano le ossa, mi scarnificano, sia per l'amor di Dio", egli sospirò, guardandosi le mani nere tremanti.
"Le tue padrone stanno bene? Non si vedono più neppure in chiesa."
"Neppure in chiesa vanno, dopo la disgrazia."
"E don Giacinto non torna?"
"Non torna. Ha un posto a Nuoro."
"Sì, il mio padrone l'ha veduto, ultimamente. Ma pare non sia un posto molto di lusso."
"Basta vivere, Stefana!", ammonì Efix, senza sollevare la testa. "Basta vivere senza peccare."
"Questo è difficile, anima mia! Come guadare il fiume senza bagnarsi?"
"Passando sul ponte", disse l'altra serva dal cortile curva a sbucciare un mucchio di mandorle; poi domandò: "E Grixenda, allora? Anche lei porta il lutto e non esce più".
Efix non rispose.
"E don Predu, adesso, viene da voi?"
"Io non lo so: io sono sempre laggiù, al poderetto."
Le donne ardevano di curiosità, perché da qualche tempo il padrone mandava regali alle cugine e pur beffandosi di loro non permetteva che altri ne parlasse male in sua presenza; ma Efix non era disposto alle confidenze. Don Predu l'aveva mandato a chiamare, ed egli, ed egli era lì per attenderlo non per chiacchierare. La febbre e la debolezza gli davano un ronzìo alle orecchie; sentiva come il mormorare del fiume nella notte e voci lontane, e aveva dentro la testa tutto un mondo suo ov'egli viveva distaccato dal mondo reale.
Non gl'importava più nulla di Giacinto, né di Grixenda e neppure, quasi, delle padrone; tutto gli sembrava lontano, sempre più lontano, come se egli si fosse imbarcato e dal mare grigio e torbido vedesse dileguarsi la terra all'orizzonte.
Ma ecco don Predu che rientra: è meno grasso di prima, come vuotatosi alquanto. La catena d'oro pende un poco sullo stomaco ansante.
Efix s'alzò e non voleva più rimettersi a sedere.
"Bisogna che vada", disse accennando fuori, come uno che ha da camminare, da andare lontano.
"Tanti affari hai? O vai a qualche festa?"
L'ironia di don Predu non lo pungeva più; tuttavia l'accenno alla festa lo scosse.
"Sì, voglio andare alla festa di San Cosimo e San Damiano."
"Ebbene, andrai! Suppongo che non parti subito. Siedi: ho da farti una domanda. Stefana, vino!"
Efix però respinse il bicchiere con un gesto di orrore. Mai più bere, mai più vizi. Da due mesi digiunava e talvolta quando aveva sete non beveva per penitenza. Sedette rassegnato tornando a guardarsi le mani; e don Predu, mentre vigilava verso il cortile perché le serve non origliassero, gli domandò a mezza voce:
"Dimmi come vanno gli affari delle mie cugine".
Efix sollevò, riabbassò tosto gli occhi; un rossore fosco gli colorì il viso che pareva arso scarnificato con la sola pelle aderente al teschio.
"Le mie padrone non hanno più confidenza in me e non mi dicono più tutti i loro affari. È giusto. A che dirmeli? Io sono il servo."
"Corfu 'e mazza a conca , pagarti però non ti pagano! Di quest'affare almeno dovrebbero intrattenerti. Quanto ti devono?"
"Non parliamone, don Predu mio! Non mi mortifichi."
"Ti mortifichi pure, babbeo! Ebbene senti. Anch'io vado qualche volta da quelle donne ma non è possibile cavar loro nulla di corpo. Ester, forse, parlerebbe; ma c'è Noemi dura come una suola. La prima sera, quando accadde la disgrazia di Ruth e io passavo là per caso, solo quella sera si confidò. Sfido, perdio, era l'ora della disperazione. Ma dopo ritornò ostile: quando vado là mi accoglie bene, ma di tanto in tanto mi guarda torva, come sia io la causa dei loro malanni. E se Ester apre la bocca per parlare, ella la fissa così terribile che le toglie la parola di bocca."
"Così con me", disse Efix. "Preciso così."
E provò quasi un senso di sollievo, perché il ricordo degli occhi di Noemi lo perseguitava peggio che il suo rimorso antico.
"Adesso, ascoltami. Visto che da loro non si può ricavare niente, ho interrogato Kallina. Ma anche lei, malanno l'impicchi, tace. Sa fare i suoi affari, quella dannata: finge di credere che Ester ha veramente firmata la cambiale di Giacinto e solo dice che vuole il fatto suo. So che tu ed Ester siete andati da lei per cercare di aggiustare le cose e che Kallina ha rinnovato per tre mesi la cambiale gonfia delle spese di protesto e di interessi più forti, e ha preso ipoteca sul poderetto e sulla casa, fune che la strangoli; sì, va bene; ma e adesso, in ottobre, come farete?"
"Non lo so: non mi dicono nulla."
"So che Ester gira in cerca di denari: ha un bel girare; le cadranno gli ultimi denti e non avrà trovato. So che sarebbe disposta anche a vendere, ma non a me."
Efix guardava le sue dita e taceva; ma don Predu, irritato per questa indifferenza, gli batté le mani sulle ginocchia.
"Che pensi, santo di legno? Ohè, di'?"
"Ebbene, le dirò la verità. Io spero che Giacinto riesca a pagare."
Allora don Predu si riversò ridendo sulla sedia, col petto gonfio, i denti scintillanti fra le labbra carnose. Anche le sue dita intrecciate alla catena d'oro sul petto parvero ridere.
Efix lo guardava spaurito, con gli occhi pieni di una angoscia da bestia ferita.
"Ma se quello muore di fame! L'ho veduto l'altro giorno. Sembrava un pezzente, con le scarpe rotte. S'ha venduto anche la bicicletta, non ti dico altro!"
"No, dica! Ha rubato?"
"Rubato? Sei pazzo? Adesso lo calunni anche, quel fiorellino, quell'angelo dipinto. E cosa ruba? Non è buono neanche a quello."
"E... cosa dice? Tornerà?"
"Se gli passa un'idea simile in mente gli rompo i garetti" disse don Predu, oscurandosi in viso. Ed Efix ebbe a un tratto l'impressione che finalmente le sue disgraziate padrone avessero trovato un appoggio, un difensore più valido di lui. Ah, sia lodato Dio: Egli non abbandona le sue creature. Allora le sue antiche speranze rifiorirono all'improvviso; che don Predu sposasse Noemi, che la casa delle sue padrone risorgesse dalle sue rovine. Ma la sua gioia si spense subito, d'un tratto, come s'era accesa, e di nuovo egli si trovò nel suo deserto, nel suo mare, nel suo viaggio misterioso e terribile verso il castigo divino. Tutte le grandezze della terra, anche se toccavano a lui, anche se egli diventava re, anche se avesse la potenza di render felici tutti gli uomini del mondo, non bastavano a cancellare il suo delitto, a liberarlo dall'inferno. Come rallegrarsi dunque? E tornò a guardarsi le mani per nasconder l'idea fissa ferma nelle sue pupille. Don Predu riprese:
"Giacinto non tornerà e tanto meno pagherà, te lo garantisco io. Ma ricordati quello che ti dissi mille volte; il poderetto lo voglio io. Pago tutto, io: così vi resta la casa. Cerca tu di convincerle, quelle teste di legno. Io ti tengo al mio servizio".
"Perché non parla vossignoria con loro? A me non danno ascolto."
"E a me sì, forse? Ho tentato, di parlarne, ma come col muro. Tu devi convincerle, tu", disse l'uomo con forza, battendogli di nuovo la mano sul ginocchio. "Se è vero che vuoi il loro bene l'unico scampo è questo. Tu devi , è il tuo dovere di aprir loro le pupille, se loro son cieche. Devi , intendi, o no? Hai il verme nelle orecchie?"
Infatti Efix aveva preso una fisionomia chiusa, da sordo. Devi ?
Minacciava, don Predu? Sapeva qualche cosa, don Predu? A lui non importava nulla, non aveva paura che dell'inferno: tuttavia pensava che forse don Predu aveva ragione.
"Come devo fare?"
"Devi mostrarti uomo, una volta tanto. Devi dir loro che se non vogliono pagarti in denari ti paghino almeno in riconoscenza. Se il poderetto va in mani di un altro padrone tu vieni cacciato via come un cane. Allora, sì, così Dio mi assista, andrai alle feste, coi mendicanti, però!"
Efix trasalì: era quello il suo sogno di penitenza. Si alzò e disse:
"Farò di tutto. Ma l'unica cosa...".
"L'unica cosa?", domandò l'uomo afferrandogli la manica. "E siedi, diavolo, e bevi. L'unica cosa?"
Efix si lasciò ricadere sulla sedia; tremava e sudava e gli pareva di svenire.
"Sarebbe che vossignoria sposasse donna Noemi."
E don Predu si gonfiò nuovamente di riso. Rideva, ma teneva fermo Efix, quasi per impedirgli di andarsene.
"Come sei divertente, diavolo! Ti tengo con me tutta la vita, così mi svaghi quando sono di malumore! Ti faccio sposare Stefana. È un po' grassa per te, forse, ma non è pericolosa, perché i trent'anni li ha passati da un pezzo..."
"Stefana, Stefana", gridò, sempre tenendolo fermo e volgendo il viso ridente verso la porta, "senti, c'è qui un pretendente."
La donna s'affacciò, nera, col ventre gonfio, il seno gonfio e il viso severo come quello d'una dama. Efix la guardò un attimo, supplichevole.
"Don Predu ha voglia di ridere."
"Brutto segno, quando egli ha voglia di ridere: altri devono piangere", disse la donna, sfidando lo sguardo del padrone: e dietro di lei sorrideva, pallida enigmatica, con la lunga bocca serrata e come fermata da due fossette, Pacciana l'altra serva.
"Io ti dico che tu sposerai Efix, Stefana. Adesso dici di no, ma poi dirai di sì. Che c'è da ridere?"
"Il riso sardonico!", imprecò dietro Pacciana, a voce bassa. E urtò Stefana per incitarla a rispondere male al padrone. Ma la donna era troppo dignitosa per proseguire nello scherzo; e non aprì bocca finché il padrone ed Efix non uscirono assieme.
Allora le due serve cominciarono a parlar male delle cugine del padrone.
"Quando vado là, col regalo entro il cestino, mi accolgono come se vada a chieder loro l'elemosina. E invece la porto loro, io! Non vedi che viso da affamato ha Efix? Da vent'anni non lo pagano e adesso non gli danno neppure da mangiare. Eppure, hai sentito il nostro padrone come s'inalbera quando gli si accenna alle sue cugine?"
"I tempi cambiano: anche i puledri invecchiano", sentenziò Stefana; ma entrambe sentivano qualche cosa di nuovo, di grave, pendere sul loro destino di serve senza padrona.
Intanto don Predu accompagnava Efix, su, su, per la straducola lavata dalle ultime piogge.
L'erba rimaneva lungo i muri delle case deserte. Un silenzio dolce profondo avvolgeva tutte le cose; nuvole gialle si affacciavano stupite sul Monte umido, e dall'alto del paese, davanti al portone delle dame, si vedeva la pianura coperta di giunchi dorati, e il fiume verde fra isole di sabbia bianca. Il silenzio era tale che s'udivano le donne a sbattere i panni laggiù, sotto il pino solitario della riva. La vecchia Pottoi ferma sulla sua soglia guardava, con una mano appoggiata al muro e l'altra sopra gli occhi: sembrava decrepita, piccola, con i gioielli ancora più vistosi e lugubri sul suo corpo ischeletrito.
"Che fate?", salutò don Predu.
"Aspetto Grixenda mia ch'è andata al fiume. Io non volevo, a dire il vero, perché il ragazzo, il nipote di vossignoria, glielo ha proibito, e se viene a saperlo si offende; ma Grixenda mia fa sempre di sua testa."
"Che, vi ha scritto, Giacinto?"
"A chi? Scritto? Mai, ha scritto: non si sa nulla, di lui, ma deve tornare certo, perché l'ha promesso."
"Già, tornano anche i morti, dite voi!"
Ma la vecchia si volse ad Efix che stava lì a testa bassa e fissava il selciato.
"Non lo ha detto a te che la sposa? Dillo su, l'ha detto o no?"
Efix la guardò un attimo, come aveva guardato Stefana, e non rispose.
"Quello che mi dispiace è il rancore delle dame", disse la vecchia, guardando di nuovo laggiù. "A noi ci scacciano, e solo Zuannantoni può qualche volta entrare nella loro casa più chiusa del Castello ai tempi dei Baroni: hanno perdonato a Kallina, peste la secchi, e a noi no. Nostra Signora del Rimedio le aiuti. Ma quando il ragazzo tornerà tutto andrà bene: lo disse anche donna Noemi."
I due uomini s'allontanarono; ma la vecchia richiamò indietro don Predu e gli disse sottovoce:
"Non potrebbe farmi un favore? Dire lei a Grixenda che non vada al fiume? Non è dignitoso per lei, che deve sposare un signore".
Don Predu aprì le grosse labbra per ridere e dire una delle sue solite insolenze; ma abbassò gli occhi sulla vecchia tremante, guardò la collana e gli orecchini che oscillavano, e anche lui si toccò la catena d'oro e s'oscurò in viso come quella sera quando aveva veduto la spalla del nipote tremare.
Raggiunse Efix e si fermarono davanti al portone chiuso delle dame. Le ortiche crescevano sui gradini. Don Predu ricordava ogni volta Noemi lì ferma ad attendere, nell'ombra.
"Bene, allora restiamo intesi? Tu devi fare come ti dico io, intendi?"
"Inteso ho. Farò di tutto", disse Efix.
Picchiò, ma nessuno apriva. E don Predu stava lì, a toccarsi la catena e a guardare giù verso il fiume quasi anche lui aspettasse qualcuno.
"Oh che son morte anche loro?"
"Donna Ester sarà in chiesa e donna Noemi forse sarà coricata."
"Perché, sta male?"
"Mah! Da qualche tempo, ogni volta che torno la trovo coricata. Ha mal di testa."
"Oh, oh, bisognerebbe farla uscire, prendere un po' d'aria."
"Questo penso anch'io; ma dove?"
Don Predu guardava laggiù, verso il fiume: il suo viso sembrava diverso, sembrava quasi bello, triste e distratto come quello del nipote.
"Eh, dico, si può andare in qualche posto; a Badde Saliche, anche, il mio podere verso il mare; c'è ancora un po' d'uva bianca..."
Il viso di Efix s'illuminò; ed egli volle dire qualcosa, ma dentro si sentiva aprire il portone, e don Predu si allontanò senza voltarsi, cercando di nascondersi lungo il muro.


Capitolo dodicesimo

Con grande meraviglia di Efix donna Ester accondiscese alle proposte del cugino. Così il poderetto fu venduto e la cambiale pagata. Ma avvenne una cosa che destò le chiacchiere di tutto il paesetto. Efix, pur continuando a stare al servizio di donna Ester e di donna Noemi, ottenne di coltivare a mezzadria il poderetto; così portava in casa delle sue padrone la porzione di frutti che gli spettava. Infine, dicevano le donne maliziose, da servo era salito al grado di parente, anzi di protettore delle dame Pintor.
Ciò che più sorprendeva era l'accondiscendenza di don Predu; ma da qualche tempo sembrava un altro; s'era persino dimagrito e una voce strana correva, che egli fosse "toccato a libro", vale a dire ammaliato per virtù di una fattucchieria eseguita coi libri santi.
Chi aveva interesse a far questo?
Non si sapeva: queste cose non si sanno mai chiare e precise, e se si sapessero non sarebbero più grandi e misteriose: il fatto era che don Predu dimagriva, non parlava più tanto insolentemente del prossimo e infine commetteva la sciocchezza di comperare un podere senza valore, e col podere il servo e a questo lasciava tutta la sua libertà.
Stefana e Pacciana dicevano:
"È un'elemosina ch'egli vuol fare alle sue disgraziate cugine".
Ma fra loro due, in confidenza, poiché don Predu continuava a mandare regali e regali alle dame Pintor, ammettevano che egli, sì, sembrava stregato, e parlavano di Efix sottovoce: tutto è possibile nel mondo, ed Efix amava le sue padrone fino al punto di rendersi capace di far per loro qualche sortilegio. Il suo andirivieni con don Predu destava soprattutto i sospetti delle serve: Stefana guardò se sotto la soglia ci fosse qualche oggetto magico nascosto, e Pacciana trovò un giorno una spilla nera nel letto del padrone... Fatti straordinari dovevano succedere.
Durante l'inverno le dame Pintor stettero sempre in casa e non parlarono mai di andare alla Festa del Rimedio, ma a misura che le giornate si allungavano e l'erba cresceva nell'antico cimitero, anche donna Ester pareva presa da un senso di stanchezza, da una malattia di languore come quella che tutti gli anni a primavera rendeva pallida Noemi: non andava quasi più in chiesa, si trascinava qua e là per la casa, si sedeva ogni tanto, con le mani abbandonate sulle cosce, dicendo che le facevano male i piedi. Nella casa la miseria non era più grave degli anni scorsi, poiché Efix provvedeva alle cose più necessarie, ma l'aria stessa pareva impregnata di tristezza.
In quaresima le due sorelle andarono a confessarsi. Era un bel mattino limpido, sonoro; s'udivano grida di bambini e tintinnii di greggi giù fra i giuncheti della pianura, e la voce del fiume, grossa, sempre più grossa, che pareva minacciasse, ma per scherzo. Sul cielo tutto turchino non una nuvoletta, e l'aria così trasparente che sulle rocce del Castello si vedevano scintillare le pietre e una finestra vuota delle rovine affacciarsi piena d'azzurro fra l'edera che l'inghirlandava.
Prete Paskale era dentro il suo confessionale, e non intendeva uscirne, sebbene Natòlia l'aspettasse in sagrestia col caffè e i biscotti in un cofanetto.
Vedendo arrivare le due nuove penitenti, la serva fece un atto disperato, e pensò che era bene andare a far riscaldare il caffè dalla sua amica Grixenda. Eccola dunque col cofanetto sul capo, uscire dietro l'abside, e scendere il viottolo, fra le macchie di rovo scintillanti di rugiada.
Attraverso la porta aperta della vecchia Pottoi si vedeva Grixenda china sulla fiamma del focolare a far bollire il caffè per la nonna ch'era a letto malata.
"Ti secchi ogni giorno di più", disse Natòlia entrando.
Grixenda infatti era magra e pallida; acerba ancora, ma come inaridita; certe mosse del collo scarno e del viso giallastro ricordavano quelle della nonna. Solo gli occhi brillavano grandi e chiari, pieni di una luce melanconica e insieme perfida, come l'acqua delle paludi giù fra i giuncheti della pianura.
"Il caffè mi si raffredda: adesso poi son venute le tue zie, e diventerà di ghiaccio", disse Natòlia, traendo la caffettiera dal cofanetto. "Così me ne bevo un po' anch'io."
"Le mie zie! Che sian fustigate! E tu con loro! Se vuoteranno tutto il sacco dei loro peccati, certo troverai il tuo padrone morto di sincope dentro il confessionale..."
"Che lingua! Si vede che t'ha morsicato la vipera. Prendi un biscotto, eccolo, te l'offro come un fiore per raddolcirti il cuore..."
Ma Grixenda aveva davvero il cuore attossicato e non accettava scherzi.
"Se sei venuta per pungermi ti sbagli, Natòlia: spine tu non ne hai, perché sei l'euforbia, non la rosa. Io non ho dolori, non ho dispiaceri: son forte come il pino in riva al fiume. E verrà un giorno che tu mi manderai un'ambasciata per chiedermi di diventar mia serva."
"Chi devi sposare? Il barone del castello?"
"Sposerò un vivo, non un morto, i morti ti si attacchino ai fianchi!"
"Mi pare sii stata tu a stregare don Predu."
"Se lo voglio, sposo anche don Predu", disse Grixenda sollevando fieramente il viso tragico infantile, "ma ho altri pensieri in mente, io!"
Natòlia la guardava e ne sentiva pietà: le sembrava un po' fuori di sé, l'infelice, e non insisté quindi nel tormentarla. Prese un altro biscotto e andò a offrirlo a zia Pottoi nel suo buco. Una striscia di luce pioveva dal tetto della stanzetta terrena, illuminando il letto ove la vecchia giaceva vestita e con la collana e con gli orecchini, stecchita e immobile come un cadavere abbigliato per la sepoltura.
Credendola addormentata Natòlia le sfiorò la mano che scottava; ma la vecchia l'attirò a sé dicendole sottovoce:
"Senti, Natòlia, mi farai un piacere: va' da Efix Maronzu e digli che devo parlargli: ma che non lo sappia Grixenda: va', piccola tortora, va'!".
"E dove lo trovo io, Efix? Sarà in paese?"
"Egli vien su dal poderetto: lo vedo venir su", disse la vecchia, mettendosi un dito sulle labbra, perché Grixenda entrava col caffè.
"Vedi, Natòlia; s'è voluta alzare stamattina, e ha la febbre alta. Nonna, nonna, tornate sotto le coperte."
"Tornerò, tornerò: tutti torniamo sotto la coperta", disse la vecchia, e Natòlia se ne andò con un peso sul cuore.
Cosa strana, ripassando davanti alla casa delle dame vide proprio Efix salire su dalla strada solitaria: andava curvo sotto la bisaccia, così curvo che pareva cercasse qualcosa per terra.
"La vecchia deve morire e vede già", pensò Natòlia.
Egli la guardò coi suoi occhi indifferenti come quelli di un animale, e non disse se sarebbe o no andato dalla vecchia: saputo che le sue padrone stavano a confessarsi si tolse la bisaccia, la depose sul gradino e sedette aspettando: le ortiche gli punsero le mani.
La serva allora tornò in chiesa, e guardò se poteva dire alle dame che il servo era giunto, - così avrebbero lasciato libero il prete; ma da una parte del confessionale stava donna Ester di cui si vedeva il lembo dello scialle venir fuori come un'ala nera, e dall'altra stava già donna Noemi, col dorso che ondulava lievemente, a tratti, sotto la stoffa nera opaca, e un piede lungo e nervoso fuori dalla sottana sollevata.
Le altre penitenti pregavano, di qua e di là nella chiesa, accovacciate sul pavimento verdastro: un silenzio profondo, una luce azzurrina, un odore di erba inondavano la Basilica umida e triste come una grotta; la Maddalena affacciata alla sua cornice pareva intenta alle voci della primavera che venivano con l'aria fragrante, e Noemi sentiva anche lei, fin là dentro, fin contro la grata che esalava un odor di ruggine e di alito umano, un tremito di vita, un desiderio di morte, un'angoscia di passione, uno struggimento di umiliazione, tutti gli affanni, i rimpianti, il rancore e l'ansito della peccatrice d'amore.

Rientrando videro Efix rialzarsi a fatica appoggiando la mano allo scalino. Allora Noemi, calda ancora di pietà e d'amore di Dio, s'accorse per la prima volta che il servo si era mal ridotto, vecchio, grigio, con le vesti divenutegli larghe, e tese la mano come per aiutarlo a sollevarsi. Ma egli era già su e non badava all'atto di lei.
E quando furono dentro e donna Ester domandò notizie del poderetto come fosse ancora suo, egli rispose alzando le spalle con rozzezza insolita e andò a lavarsi al pozzo.
Aprile rallegrava anche il triste cortile, le rondini sporgevano la testina nera dai nidi della loggia guardando le compagne che volavano basse come inseguendo la loro ombra sull'erba fitta dell'antico cimitero.
"Efix, mi pare che non stai troppo bene. Tu dovresti prenderti qualche cosa, o riposarti qualche giorno", disse Noemi.
"Ah, sì, donna Noemi? Se penso invece di camminare!"
"Ti dico che stai male: non scherzare. Che hai?"
Egli la guardava con occhi vivi, lucidi, ed era tale la sua gioia improvvisa che le rughe intorno agli occhi parevano raggi.
"Invecchio", disse, battendosi le mani una sull'altra; e d'improvviso la sua gioia se n'andò, com'era venuta.
Egli era tornato in paese perché don Predu aveva mandato a chiamarlo: altrimenti non si sarebbe più mosso dal poderetto. Che poteva la pietà di donna Noemi contro il suo male? Non faceva che aumentarglielo.
Andò dunque dal nuovo padrone e lo trovò arrampicato su una scala a piuoli a potar la vite sotto la rete dei rami del melograno ricamata di foglioline d'oro.
Anche là le rondini s'incrociavano rapide, ma più alte, sullo sfondo latteo del cielo: entro casa si sentivano le donne pulire le stanze e mettere tutto in ordine per la Pasqua, e una grande pace regnava intorno.
Efix non dimenticò più quei momenti. Era partito dal poderetto con la certezza che qualche cosa di straordinario doveva succedere; ma guardando in su ai piedi della scala gli pareva che don Predu fosse anche lui triste, quasi malato, ed esitasse a scendere, con la falciuola scintillante in una mano e nell'altra il tralcio di vite dalla cui estremità violacea stillavano come da un dito tagliato gocce di sangue.
"Aspetta che finisco: o hai fretta d'andartene?", disse don Predu, ma subito si riprese, parve ricordarsi, e scese pesantemente, lasciando che Efix tirasse in là la scala.
"Ecco", cominciò, quando furono nella stanza terrena piena di sole e d'ombra di rondini, "ecco, io ti devo dire una cosa...", ed esitava guardandosi le unghie, "ecco, io voglio sposare Noemi."
Efix cominciò a tremare così forte che la mano, sul tavolo, pareva saltasse. Allora don Predu si mise a ridere del suo riso goffo e cattivo d'altri tempi.
"Non la vorrai sposare tu, credo! Ti serbo Stefana, lo sai!"
Efix taceva: taceva e lo guardava, e i suoi occhi erano così pieni di passione, di terrore, di gioia, che don Predu si fece serio. Ma tentava ancora di scherzare.
"Perché ti turbi tanto? Speri che io ti paghi quello che ti devono? No, sai: tu ti aggiusti con Ester; io non ho che vederci. Eppoi c'è una cosa..."
Si raschiò con l'unghia una macchia del corpetto, guardandoci su attentamente.
"Mi vorrà, poi?"
"Ah! Che dice!", balbettò Efix.
"Non esser tanto sicuro! Oh, adesso parliamo sul serio. Ho pensato bene prima di decidermi: lo faccio, credi pure, più per dovere che per capriccio. Che aspetto? Dove vado? Alla mia età una donna molto giovane non mi conviene. Ma questo non importa: insomma ho deciso. Ebbene, non te lo nego: Noemi è bella e mi piace, m'è sempre piaciuta, a dirti la verità. Mah! Che vuoi! La vita passa e noi la lasciamo passare come l'acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca. Mah, lasciami stare" aggiunse, battendosi le mani sulle ginocchia e poi alzandosi e poi rimettendosi a sedere. "Quello che adesso importa è di sapere se Noemi accetta. Io farò la domanda come si conviene; le manderò prete Paskale, o il dottore o chi vuole; ma non voglio prendermi un rifiuto, eh, così Dio mi assista, questo no, perbacco! Tu intendi, Efix?"
Efix intendeva benissimo, e accennava di sì, di sì, col capo, con gli occhi scintillanti.
"Devo parlar io, con donna Noemi?"
Don Predu gli batté una mano sulle ginocchia.
"Bravo! È questo. E prima è, meglio è, Efix! Queste cose non bisogna lasciarle inacidire. Le dirai: "Chi si deve mandare per la domanda ufficiale? Prete Paskale, o la sorella, o chi?". Se lei dice di non mandare nessuno, tanto meglio, in fede di cristiano, tanto meglio! Eppoi le cose le faremo presto e senza chiasso: non siamo più due ragazzetti. Che ne pensi? Io ho quarantotto anni a settembre, e lei sarà sui trentacinque, che ne dici? Tu sai la sua età precisa? Oh, poi le dirai che non si dia pensiero di nulla: la casa è pronta, le serve ci sono; pettegole, sì, ma ci sono, e pagate bene. La biancheria c'è, tutto c'è. Le provviste non mancano, eh, così Dio la conservi! Basta, di queste cose poi parleremo con Ester. Solo mi dispiace... Ebbene, te lo posso dire: che Ruth sia morta così... Forse anche lei sarebbe stata contenta..."
Efix s'alzò. Sentiva qualche cosa pungerlo in tutta la persona, e aveva bisogno di andare, di affrettare il destino.
"Ebbene, aspetta un altro po', diavolo! Ti darò da bere: un po' di acquavite? O anice? Stefana, ira di Dio, c'è il tuo pretendente, Stefana!"
S'udivano le donne sbattere i mobili con furore. Finalmente la serva anziana apparve, con un tovagliolo sul capo e un altro in mano, seria e imponente, tuttavia, con gli occhi pieni di rassegnazione ai voleri del padrone. Aprì l'armadio, versò l'anice e guardò Efix con un vago senso di terrore, ma anche per scrutare se egli prendeva sul serio gli scherzi del padrone: ma Efix era così umile e sbigottito ch'ella tornò su e disse alla compagna giovine:
"S'egli ha fatto la stregoneria l'ha fatta bene. La fortuna cade come una saetta su quella gente: pulisci bene, che sarà fatica risparmiata per le nozze".
"Tue con Efix?", disse Pacciana. "Per don Predu bisogna prima aspettare che donna Noemi lo accetti!"
Ma Stefana fece le fiche, tanto queste parole le sembravano assurde.

Quando fu nella strada dopo che don Predu lo ebbe accompagnato fino al portone come un amico, Efix si guardò attorno e sospirò.
Tutto era mutato; il mondo si allargava come la valle dopo l'uragano quando la nebbia sale su e scompare: il Castello sul cielo azzurro, le rovine su cui l'erba tremava piena di perle, la pianura laggiù con le macchie rugginose dei giuncheti, tutto aveva una dolcezza di ricordi infantili, di cose perdute da lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si rimpiangono più.
Tutto è dolce, buono, caro: ecco i rovi della Basilica, circondati dai fili dei ragni verdi e violetti di rugiada, ecco la muraglia grigia, il portone corroso, l'antico cimitero coi fiori bianchi delle ossa in mezzo all'avena e alle ortiche, ecco il viottolo e la siepe con le farfalline lilla e le coccinelle rosse che sembrano fiorellini e bacche: tutto è fresco, innocente e bello come quando siamo bambini e siamo scappati di casa a correre per il mondo meraviglioso.
La Basilica era aperta, in quei giorni di quaresima, ed Efix andò a inginocchiarsi al suo posto, sotto il pulpito.
La Maddalena guardava, lieta anche lei, come una dama spagnola ospite dei Baroni affacciata a un balcone del Castello. Sentiva la primavera anche lei, era felice benché fossero i giorni della passione di Nostro Signore. Qualche ricco feudatario doveva averla domandata in sposa, ed ella sorrideva ai passanti, dal suo balcone, e sorrideva anche ad Efix inginocchiato sotto il pulpito.
"Signore, Vi ringrazio, Signore, prendetevi adesso l'anima mia; io sono felice d'aver sofferto, d'aver peccato, perché esperimento la vostra Misericordia divina, il vostro perdono, l'aiuto vostro, la vostra infinita grandezza. Prendetevi l'anima mia, come l'uccello prende il chicco del grano. Signore, disperdetemi ai quattro venti, io vi loderò perché avete esaudito il mio cuore..."
Eppure nell'alzarsi a fatica, con le ginocchia indolenzite, provò un senso di pena, come se l'ombra di una nuvola passasse nella chiesa velando il viso della Maddalena.
Anche il viso di donna Noemi, curva a cucire nel cortile, era velato d'ombra.
Efix colse una viola del pensiero dall'orlo del pozzo e andò a offrirgliela. Ella sollevò gli occhi meravigliati e non prese il fiore.
"Indovina chi glielo manda? Lo prenda."
"Tu l'hai colto e tu tientelo."
"No, davvero, lo prenda, donna Noemi."
Sedette davanti a lei, per terra, a gambe in croce come uno schiavo, prendendosi i piedi colle mani: non sapeva come cominciare, ma sapeva già che la padrona indovinava. Infatti Noemi aveva lasciato cadere la viola in una valletta bianca della tela; le batteva il cuore; sì, indovinava.
"Donna Ester dov'è?", disse Efix curvandosi sui suoi piedi. "Come sarà contenta, quando saprà! Don Predu mi aveva fatto tornare in paese per questo..."
"Ma che cosa dici, disgraziato?"
"No, non mi chiami disgraziato! Sono contento come se morissi in grazia di Dio in questo momento e vedessi il cielo aperto. Sono stato in chiesa, prima di tornar qui, a ringraziare il Signore. In coscienza mia, è così..."
"Ma perché, Efix?", ella disse con voce vaga, pungendo con l'ago la viola. "Io non ti capisco."
Egli sollevò gli occhi: la vide pallida, con le labbra tremanti, con le palpebre livide come quelle di una morta. È la gioia, certo, che la fa sbiancare così; ed egli prova un tremito, un desiderio d'inginocchiarsi davanti a lei e dirle: sì, sì, è una grande gioia, donna Noemi, piangiamo assieme.
"Lei accetta, donna Noemi, padrona mia? È contenta, vero? Devo dirgli che venga?"
Ella fece violenza a se stessa; si morsicò le labbra, riaprì gli occhi e il sangue tornò a colorirle il viso, ma lievemente, appena intorno alle palpebre e sulle labbra. Guardò Efix ed egli rivide gli occhi di lei come nei giorni terribili, pieni di rancore e di superbia. L'ombra ridiscese su lui.
"Non si offenda se gliene parlo io per il primo, donna Noemi! Sono un povero servo, sì, ma sono chiuso come una lettera. Se lei accetta, don Predu manderà il prete a far la domanda, o chi vuol lei..."
Noemi buttò giù la viola ferita e si rimise a cucire. Pareva tranquilla.
"Se Predu ha voglia di ridere, rida pure; non m'importa nulla."
"Donna Noemi!"
"Sì, sì! Non dico che non faccia sul serio, sì. Allora non saresti lì. Ma adesso fa' il piacere, alzati e vattene."
"Donna Noemi?"
"Ebbene, che hai adesso? Levati, non star lì inginocchiato, con le mani giunte! Sei stupido!"
"Ma donna Noemi, che ha? Rifiuta?"
"Rifiuto."
"Rifiuta? Ma perché, donna Noemi mia?"
"Perché? Ma te lo sei dimenticato? Sono vecchia, Efix, e le vecchie non scherzano volentieri. Non parlarmene più."
"Questo solo mi dice?"
"Questo solo ti dico."
Tacquero. Ella cuciva: egli aveva sollevato le ginocchia e si stringeva in mezzo le mani giunte. Gli pareva di sognare, ma non capiva. Finalmente alzò gli occhi e si guardò attorno. No, non sognava, tutto era vero; il cortile era pieno di sole e d'ombra: qualche filo di legno cadeva dal balcone come cadono le foglie dei pini in autunno; e al di là del muro si vedeva il Monte bianco come di zucchero, e tutto era soave e tenero come al mattino quando egli era uscito dalla casa di don Predu. Gli pareva di sentire ancora le donne a sbattere i mobili; ma erano colpi sulla sua persona; sì, qualche cosa lo percoteva, sulla schiena, sulle spalle, sulle scapole e sui gomiti e sui ginocchi e sulle nocche delle dita. E donna Noemi era lì, pallida, che cuciva, cuciva, che gli pungeva l'anima col suo ago: e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere. Le loro ombre correvano sul terreno come foglie spinte dal vento: ed egli ricordò la pena provata nell'alzarsi di sotto il pulpito e l'ombra sul viso della Maddalena. Sospirò profondamente. Capiva. Era il castigo di Dio che gravava su lui.
Allora, piano piano, cominciò a parlare, afferrando il lembo della gonna di Noemi, e non capiva bene ciò che diceva, ma doveva essere un discorso poco convincente perché la donna continuava a cucire e non rispondeva, di nuovo calma con un sorriso ambiguo alle labbra.
Solo dopo ch'egli parve aver detto tutto, tutte le miserie passate, tutti gli splendori da venire, ella parlò, ma piano, sollevando appena gli occhi quasi parlasse con gli occhi soltanto.
"Ma non prenderti tanto pensiero, Efix, non immischiarti oltre nei fatti nostri. E poi lo sai: abbiamo vissuto finora; non siamo state bene, finora? Che ci è mancato? E tireremo avanti, con l'aiuto di Dio: il pane non mancherà. In casa di Predu c'è troppa roba e non saprei neppure custodirla."
Efix meditava, disperato. Che fare, se non ricorrere a qualche menzogna?
Riprese a palparle la veste.
"Eppoi devo dirle cose gravi, donna Noemi mia. Non volevo, ma lei, con la sua ostinazione, mi costringe. Don Predu è tanto preso che se lei non lo vuole morrà. Sì, è come stregato, non dorme più. Lei non sa cosa sia l'amore, donna Noemi mia; fa morire. È poca coscienza far morire un uomo..."
Allora Noemi rise e i suoi denti intatti luccicarono sino in fondo come quelli d'una fanciulla follemente allegra. Quel riso fece tanto male a Efix, lo irritò, lo rese maligno e bugiardo.
"Eppoi un'altra cosa più grave ancora, donna Noemi! Sì, mi costringe a dirgliela. Don Giacinto minaccia di tornarsene qui... Intende?"
Ella smise di cucire, si drizzò sulla vita, si piegò indietro col viso per respirare meglio: le sue mani abbrancarono la tela.
Ed Efix balzò su spaventato, credendo ch'ella stesse per svenire.
Ma fu un attimo. Ella tornò a guardarlo coi suoi occhi cattivi e disse calma:
"Anche se torna non c'è più nulla da perdere. E non abbiamo bisogno di nessuno per difenderci".
Egli raccolse di terra la viola e andò a sedersi sulla scala, come la notte dopo la morte di donna Ruth. Non si domandava più perché Noemi rifiutava la vita: gli sembrava di capire. Era il castigo di Dio su lui: il castigo che gravava su tutta la casa. Ed egli era il verme dentro il frutto, era il tarlo che rodeva il destino della famiglia. Appunto come il tarlo egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso, roso, adesso si meravigliava se tutto s'era sgretolato intorno a lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco sosteneva la viola livida ch'egli teneva fra le dita. Dio non abbandonerebbe le disgraziate donne. Andato via lui, donna Noemi, forse offesa dalla stessa maniera dell'ambasciata, si piegherebbe. Dopo tutto, due donne sole non possono vivere.
Bisognava andare. Come aveva fatto, a non capirlo ancora? Gli sembrò che una voce lo chiamasse: e una voce lo chiamò davvero, al di là del muro, dal silenzio della strada.
S'alzò e s'avviò: poi tornò indietro per riprendere la bisaccia attaccata al piuolo sotto la loggia. Il piuolo, fisso lì da secoli, si staccò e balzò fra i ciottoli del cortile come un grosso dito nero. Egli trasalì. Sì, bisognava andarsene: anche il piuolo si staccava per non sostener più la bisaccia.
E con sorpresa di Noemi, che aveva seguito con la coda dell'occhio tutti i movimenti di lui, egli non riattaccò il piuolo, e s'avviò.
"Efix? Te ne vai?"
Egli si fermò, a testa bassa.
"Non aspetti Ester? Torni per Pasqua?"
Egli accennò di no.
"Efix, ti sei offeso? Ti ho detto qualche cosa di male?"
"Nulla di male, padrona mia. Solo che devo andare: è ora."
"E allora va' in buon'ora."
Egli pensò un momento: gli parve di dimenticare qualche cosa, come quando si sta per intraprendere un viaggio e ci si domanda se si è provvisti di tutto.
"Donna Noemi, comanda nulla?"
"Nulla. Solo mi pare che tu stia male: sei malato? Sta' qui, chiameremo il dottore: ti tremano le gambe."
"Devo andare."
"Efix ascolta: non averti a male di quanto t'ho detto. È così, non posso, credi. Lo so che ti fa dispiacere, ma non posso. Non dir nulla a Ester. E va', se vuoi andare. Ma se ti senti male torna; ricordati che questa è casa tua."
Egli s'accomodò sulle spalle la bisaccia e uscì. Sugli scalini del portone scosse i piedi uno dopo l'altro per non portar via neppure la polvere della casa che abbandonava.


Capitolo tredicesimo

Fuori lo aspettava Zuannantoni.
"Vi ho chiamato tre volte: andiamo, c'è nonna che sta male e vuol parlarvi: perché non venite? Non vi si prende il pane dalla bisaccia."
La vecchia stava ancora vestita sul letto, coi polsi nudi, rossicci e ardenti come tizzi accesi, pareva assopita, ma quando Efix si curvò su di lei gli disse con voce afona:
"Lo vedi? Essa è andata al fiume, per lavare, perché lavorare bisogna. E tu avevi detto che la sposava!".
"Zia Pottoi! Pazienza bisogna avere. Siamo nati per patire."
La vecchia sollevò il braccio e lo attirò a sé tenacemente. Un odore di putrefazione e di tomba esalava dal lettuccio; ma egli non si scostò sebbene sentisse la collana di zia Pottoi, calda come fosse stata sul fuoco, sfiorargli il viso e l'alito di lei passargli sui capelli come un ragno.
"Ascoltami, Efix, siamo davanti a Dio. Io sto per partire: verrà lui stesso, a prendermi, don Zame, come avevamo convenuto al tempo della nostra fanciullezza. Adesso è tempo d'andarcene assieme. E per la strada gli dirò che non si fermi dov'è caduto, dove tu lo hai ucciso, e che ti perdoni per l'amore che hai portato alle sue figlie. Ti perdonerà, Efix; hai portato il carico abbastanza, ma tu, tu, Efix, a tua volta salva Grixenda mia: essa sta per perdersi; aspetta solo la mia morte per fuggire, e io non posso chiuder gli occhi tranquilla. Tu va' dal ragazzo, e digli che non la perda, che si ricordi che ha promesso di sposarla. E che la sposi, sì, così anche donna Noemi non penserà più a lui. Va'."
Lo respinse ed egli spalancò gli occhi, ma gli parve di averli bruciati, coperti di cenere, come tornasse dall'inferno. La vecchia non aveva riaperto i suoi: con le mani rigide, le dita dure aperte, muoveva ancora le labbra violette orlate di nero, ma non parlava più.
Non parlò più.
Dal buco del tetto pioveva come da un imbuto capovolto un raggio dorato che illuminava sul lettuccio il suo corpo nero e le sue collane, lasciando scuro il resto della stanza desolata.
Efix guardava come dal fondo di un pozzo quel punto alto lontano; ma d'improvviso gli parve che il raggio deviasse, piovesse su lui, illuminandolo. Tutto era chiaro, così. I suoi occhi oramai distinguevano tutto, gli errori scuri intorno, il centro luminoso, che era il castigo di Dio su lui.
E riprese la bisaccia, senza più parlare, e se ne andò.

Passando davanti alla casa di don Predu chiamò Stefana e le disse ch'era costretto a partire per affari suoi e che non sapeva quando sarebbe tornato.
"Di' almeno dove vai."
"A Nuoro."

Per arrivare a Nuoro impiegò due giorni. Andava su, piano piano, a piccole tappe, buttandosi sull'orlo della strada quando era stanco. Chiudeva gli occhi, ma non dormiva: riaprendoli vedeva lo stradone giallognolo perdersi tra il verde e l'azzurro delle lontananze, su verso i monti del Nuorese, giù verso il mare della Baronia, e gli pareva di esser sempre vissuto così, sull'orlo d'una strada metà percorsa, metà da percorrere: laggiù in fondo, aveva lasciato il luogo del suo delitto, lassù, verso i monti, era il luogo della penitenza.
Il tempo era bello; le valli eran già coperte d'erba e le pervinche fiorivano sorridenti come occhi infantili.
Reti d'acqua scintillavano tra il verde delle chine, e il fiume mormorava fra gli ontani. Qualche carro passava nello stradone, e ad Efix veniva desiderio di chiedere d'essere portato; ma subito se ne affliggeva.
No, doveva camminare per penitenza, arrivare senza aiuto di nessuno.
Questo suo primo viaggio aveva però uno scopo; egli quindi si preoccupava ancora delle cose del mondo, e di arrivare presto e di sbrigarsi: dopo, gli pareva, sarebbe stato libero, solo col suo carico da portare con pazienza fino alla morte.
La prima notte sostò in una cantoniera della valle, ma non poté dormire. La notte era limpida e dolce; sul cielo bianco sopra la valle chiusa da colonne di rocce la luna pendeva come una lampada d'oro dalla volta d'un tempio: ma un uomo malato gemeva nella cantoniera triste come una stalla, e il dolore umano turbava la solitudine.
Efix ripartì prima dell'alba, più stanco di prima. Ed ecco i monti d'Oliena sorgere dalle tenebre bianchi e vaporosi come una massa d'incenso di fronte al rozzo altare di granito dell'Orthobene: tutto il paesaggio ha un aspetto sacro, e il Redentore ferma il volo sulla roccia più alta, con la croce che sbatte le sue braccia nere sul pallore dorato del cielo.
Ed Efix s'inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera.
A misura che saliva verso Nuoro sentiva come un gran cuore sospeso sopra la valle palpitare forte, sempre più forte.
"È il Molino, e Giacinto è là", pensò con gioia.
Era l'ultima tappa del suo viaggio mondano, l'ultima salita del suo calvario, quel vicolo in salita, lurido, oleoso, con un gattino morto in mezzo alle immondezze e il cielo rosso sopra i muri alti coperti di gramigne.
Arrivato a metà si volse: l'ombra saliva dalla valle, descrivendo un cerchio bruno su per le chine rosee dell'Orthobene, e raggiungeva anche lui su per il vicolo. In alto era l'ansito del Molino, un palpito maschio in contrasto col richiamo femineo d'una campana che suonava a vespro; e sullo sfondo della strada passavano contadini coi buoi aggiogati, borghesi imponenti come don Predu, donne con anfore sul capo: altre donne sedevano, pallide, in riposo, sulle pietre dei muricciuoli che recingevano un cortiletto esterno.
Efix si mise a parlare con loro, fermo stanco con la bisaccia che gli scivolava dalle spalle.
"Dove sta don Giacinto?"
"Chi? Quello del Molino? Qui, più sopra: cosa gli porti in quella bisaccia? Sei il suo servo?"
"Sì: e che fa, don Giacinto?"
"Eh, lavora e si diverte. È allegro. È un ragazzo d'oro. Tutte le donne gli vanno appresso... se lo contrastano come un dolce di miele..."
Allora Efix ricordò la festa del Rimedio, Natòlia e Grixenda che ballavano stringendosi in mezzo lo straniero; e un dolore cocente lo punse, ma col dolore un intenso desiderio di fare qualche cosa contro il destino.
"Ma dove posso trovarlo? È al Molino, adesso?"
"Ecco che viene!"
Ecco infatti Giacinto arriva frettoloso, a testa nuda, coi capelli e i vestiti bianchi di farina: già qualcuno era corso ad avvertirlo dell'arrivo del servo.
"Che cosa sei venuto a cercare fin quassù?", gli domandò, afferrandolo e scuotendolo per gli omeri.
Efix lo guardava senza rispondere lasciandosi trascinare su per la straducola fino a un cortiletto chiuso fra due casette sopra la valle: un uomo, un borghese piccolo quasi nano, con gli occhi grandi melanconici e il viso bianco, attingeva acqua dal pozzo e Giacinto lo presentò come il suo padrone di casa.
"Devo parlarti", disse Efix.
"E son qui, parla."
Sedettero nella cucina, ma il borghese preparava la cena ed Efix non voleva parlare in sua presenza: da parte sua Giacinto scherzava e rideva e non sollecitava il colloquio.
Attraverso il finestrino si vedeva sulle rocce dell'Orthobene il Redentore piccolo come una rondine, e dall'orto saliva un odore di violacciocche che ricordava il cortile laggiù delle dame.
Efix si sentiva dolere il cuore ma non poteva parlare. Solo disse:
"Giacintì, sei diventato allegro, mi pare!".
"Che fare? Impiccarmi?"
Ma l'ometto curvo a cuocere i maccheroni sollevò gli occhi tristi e Giacinto rise e guardò le travi del tetto.
"Sai, Efix, i primi giorni che venni qui, a pensione da questo buon servo di Dio, tentai davvero di appiccarmi. Rammentate, Micheli?" l'ometto accennò di sì, ma scuotendo la testa con rimprovero. "Ed egli mi salvò, mi mise a letto come un bambino; mi legava, quando usciva; avevo la febbre alta: ma poi passò tutto, e adesso sono allegro e contento. Vero, Micheli? Non sono allegro e contento? Su, Efix, parla. Tu certo sei venuto a turbare la mia allegria."
"La vecchia Pottoi è morta", disse Efix finalmente, e Giacinto gli accostò la sua forchetta al viso quasi volesse pungerlo.
"Va' uccello di malaugurio! Lo sapevo che portavi la notizia di una morte! E altro?"
"E Grixenda si prepara a lasciarci. Te la vedrai capitare qui fra qualche giorno: ecco, questo son venuto a dirti."
Giacinto rifece il viso infantile di un tempo, triste e spaventato.
"Ah, questo no, questo no! Io non voglio che venga!"
"Non vuoi? E come puoi impedirglielo? D'altronde è tua fidanzata: hai promesso di sposarla."
"Io non posso sposarla: vero, vero che non posso, Micheli? Non posso e non voglio! Non sono in condizioni di sposarmi: sono un pezzente, ho altri doveri, tu lo sai. Ebbene, posso parlare davanti a quest'uomo, che sa tutto di me, come lo sai tu, e mi compatisce. Io devo pagare il debito delle zie. E per questo che volevo morire: perché avevo la disperazione nel cuore. Ma quest'uomo mi disse: ti terrò gratis in casa mia, ti darò alloggio e anche da mangiare quando ne ho, ma tu devi lavorare e pagare il tuo debito."
Efix guardava l'ometto tra il meravigliato e il diffidente e pareva chiedergli con gli occhi "perché tanta generosità?". E l'uomo, che mangiava col viso curvo sul piatto, sollevò gli occhi e disse:
"Perché siamo cristiani!".
Allora Efix tornò come dentro di sé nella casa della sua anima, e ricordò perché era venuto.
"Giacinto, eppure bisogna che tu sposi Grixenda. Essa verrà qui, a giorni; non mandarla via, non perderla!"
"Ma, sant'uomo! Non hai orecchie per ascoltare? Io ti dico che non posso tenerla, che non posso sposarla: devo pagare il debito delle zie!"
"Tu lo pagherai sposandola."
"Ha ereditato tanto?", disse allora Giacinto ridendo; ma Efix lo guardava serio, e ripeté due volte:
"Sono venuto per parlarti di questo".
Il padrone di casa capì che la sua presenza era di troppo e se ne andò via silenzioso nonostante le proteste e i richiami di Giacinto.
"Lascialo", disse Efix. "Quello che ho da dirti, nessuno deve saperlo."
Eppure, rimasti soli, provarono entrambi un senso d'imbarazzo; la luce pareva un ostacolo fra di loro. Uscirono nel cortiletto, sedettero sullo scalino, e Giacinto tirò la porticina dietro di sé, come per impedire al lume e al fuoco di ascoltare; ed Efix cercava le parole per trar fuori dal suo cuore il penoso segreto. Ah, gli sembrava talmente grande e pesante da non poterlo trarre intero: a brani, forse, sì, sanguinante. Si curvò su se stesso: scavava, silenzioso, tirava, tirava su, come un macigno da un pozzo. Finalmente si sollevò sospirando, stanco e impotente.
"Giacinto, così ti dico. Le cose del mondo son così. Don Predu vuole sposare donna Noemi e donna Noemi non vuole. Colpa tua!"
Giacinto non rispose, ma gli afferrò forte il braccio e parve volesse stroncarglielo: poi glielo lasciò.
Efix lo sentiva ansare lievemente, come colto da malessere, e a sua volta, mentre si stringeva il braccio che gli ardeva per la stretta, respirò con angoscia.
"Sì, colpa tua, colpa tua", ricominciò quasi aggressivo. "Non lo sapevi? Alla buon'ora! La vecchia almeno questo non te lo ha detto. Ma adesso bisogna pensarci sul serio. Bisogna toglierle questo verme dal cervello, a tua zia, intendi? Intendi?"
"Che posso farci io?", disse finalmente Giacinto. E parve ricadere di nuovo nella sua antica tristezza.
Curvo su se stesso nell'ombra guardava la terra ai suoi piedi e vedeva un abisso nero.
"Che puoi farci? Lo sai, te l'ho detto: comincia tu a fare il tuo dovere; poi lei farà il suo..."
"Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? Ricordati quello che dicevamo laggiù al poderetto: te lo ricordi? E tu, sei stato tu, a fare la sorte?"
Ed anche Efix si curvò; e stettero così, vicini, tanto che l'uno sentiva il caldo del fianco dell'altro; stettero quasi tempia contro tempia, come ascoltando una voce di sotterra.
"Vero è! Non possiamo fare la sorte", ammise Efix.
"Eppoi, tu credi ch'ella sarebbe felice, sposando zio Pietro? Non basta il pane per renderci felici; adesso me ne accorgo anch'io... Ci vuole altro!"
"Ma tu, dimmi... tu..."
"Io?"
"Sì, tu, sapevi?"
"Che vuoi che ti dica? Un uomo si accorge sempre di queste cose. Ma io ti giuro sull'anima di mia madre; io l'ho sempre rispettata, Noemi, come una cosa sacra... Eppure, sì, te lo dico, perché so che posso dirtelo, solo una volta, quando ella è svenuta ed io ho pianto sopra i suoi occhi, sì, posso dirtelo come potrei dirlo a mia madre, con la stessa innocenza, sì, ci siamo guardati... attraverso le lacrime, e forse allora... forse allora... Non so, ecco; non ti dico altro. Ma forse per questo sono andato via, più che per quanto avevo commesso di male."
"Lascia ch'io ti domandi un'altra cosa. Quando tu sei venuto al poderetto, l'ultima volta, tu sapevi già?"
"Sapevo già."
"Ebbene", disse Efix sollevandosi, "tu sei un uomo!"
"Che vuoi?", rispose Giacinto subito lusingato.
"Conosco un po' la vita, null'altro. Si fa presto a conoscere la vita, quando si nasce dove sono nato io. Ma tu pure conosci la vita, a modo tuo, e per questo ci siamo capiti anche parlando un diverso linguaggio. Ricordati quando scendevo al poderetto... Io giocavo e misi la firma falsa perché volevo pagare il Capitano e far bella figura davanti a lui, tornando. Egli avrebbe detto: quell'infelice s'è sollevato. E invece sono andato più giù, più giù... Ma era come una pazzia che m'era presa: adesso ho aperto gli occhi e vedo dov'è la vera salvezza. Tu, dove l'hai trovata la vera salvezza? Vivendo per gli altri: e così voglio far io, Efix", aggiunse, parlandogli accosto al viso; "sei tu che mi hai salvato: io voglio essere come te... Rispondi, ho ragione? Io ti ho buttato per terra, laggiù ad Oliena, ma anche i santi son stati maltrattati, e per questo non cessano d'essere santi. Rispondi, ho ragione?", ripeté scuotendolo per le spalle. "Ricordi le cose che dicevamo al poderetto? Io le ricordo sempre, e dico appunto a me stesso: Efix ed io siamo due disgraziati, ma siamo veramente uomini tutti e due, più dello zio Pietro, più del Milese, certo! Zio Pietro? Cos'è zio Pietro? Ha lasciato le zie soffrire sole per tanti anni, esposte a tutte le miserie e alle beffe di tutto il paese: e adesso anche lui crede di far bene perché vuole sposare Noemi! Lo fa perché la donna gli piace come donna, come a me piace Grixenda, null'altro. È amore, quello, è carità? E lei fa bene a non volerlo. Fa bene! La approvo! Il vero amore è stato il tuo, verso di loro; e se c'è qualcuno ch'esse dovrebbero amare e sposare, sì, lo dico, saresti tu, non lo zio Pietro... Invece ti han cacciato via come un cane vecchio, adesso che non sei buono più a niente; eppure tu le ami di più per questo, perché il tuo cuore è un vero cuore di uomo. Ebbene, cosa fai adesso? Ohè, uomo!... Vergognati! Non hai pianto abbastanza? Su, coraggio, uomo! Cammina."
Lo scosse di nuovo afferrandolo da dietro, per gli omeri: ma Efix piangeva piegato in due, con la testa fra le ginocchia, e mentre il suo gemito riempiva il silenzio della notte, egli ricordava il sangue che aveva vomitato davanti alla vecchia chiesa d'Oliena, dopo l'altra scena con Giacinto; e anche adesso gli pareva che tutto il sangue gli uscisse dagli occhi: tutto il sangue cattivo, il sangue del peccato. Il suo corpo ne rimaneva esausto, e l'anima vi si sbatteva dentro, in uno spazio vuoto e nero come la notte; ma le parole d'amore di Giacinto balenavano lucenti sullo sfondo tenebroso, e le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli splendevano intorno come stelle.

Rimase una settimana a Nuoro.
Tanto lui che Giacinto aspettavano di vedere da un momento all'altro arrivare Grixenda; ma i giorni passavano ed ella non veniva.
Giacinto non aveva preso ancora una decisione in proposito, ma sembrava tranquillo, lavorava, tornava a casa solo durante l'ora dei pasti, e scherzava col suo padrone di casa domandandogli consiglio sul modo di accogliere la ragazza.
"Perderla certo non voglio, povera orfana! Se la sposassimo con voi? Una donna in casa ci vuole."
L'ometto lo guardava con rimprovero, ma non parlava, almeno in presenza di Efix. E questo non voleva, a sua volta, forzare la sorte, e pensava ch'era peccato cercare di opporsi ai voleri della provvidenza. Bisognava abbandonarsi a lei, come il seme al vento. Dio sa quello che si fa.
Intanto non si decideva ad andarsene, aspettando Grixenda; e quando non c'era in casa Giacinto scendeva il vicolo, sedeva sul ciglione della valle e spiava la strada bianca ai piedi del Monte. Il palpito del Molino gli dava un senso di commozione, quasi di sgomento: gli pareva il battito d'un cuore, d'un cuore nuovo che ringiovaniva la vecchia terra selvaggia. Là dentro a quel palpito batteva il sangue di Giacinto, ed Efix sentiva voglia di piangere pensando a lui. Eccolo, gli sembra sempre di vederlo, alto, sereno, bianco di farina come una giovine pianta coperta di brina, purificato dal lavoro e dal proposito del bene. Tutti lo amano, ed egli è gentile con tutti. Le donne che portano il frumento al Molino si aggrappano intorno a lui curvo a pesare la farina, e lo guardano con occhi di madre, con occhi d'amore. Efix era stato una sera a trovarlo, e fra il rombare della macchina e l'agitarsi delle figure pallide su uno sfondo ardente, fra l'incrociarsi delle ombre e lo stridere dei pesi, gli era parso di intravedere uno scorcio del Purgatorio, e Giacinto che penava fra i dannati ma aspettando il termine dell'espiazione.

La domenica dopo Pasqua andò a una piccola festa campestre nella chiesetta di Valverde.
Era un pomeriggio freddo e sulla vallata dell'Isalle battuta dal vento di tramontana, con Monte Albo giù in fondo fra le nuvole come una nave incagliata in un mare burrascoso, pareva dominasse ancora l'inverno.
Efix seguiva una fila di paesane avvolte nelle loro tuniche grevi, e col vento che gli batteva sul petto sentiva qualche cosa di nuovo, di forte, penetrargli nel cuore. La gente camminava triste ma tranquilla, come in processione, avviata non a un luogo di festa ma di preghiera: anche una fisarmonica lontana ripeteva il motivo religioso delle laudi sacre, ed egli sentiva che la sua penitenza era cominciata.
Arrivato alla chiesetta, sull'alto della china rocciosa, sedette accanto alla porta e si mise a pregare: gli sembrava che la piccola Madonna guardasse un po' spaurita dalla sua nicchia umida la gente che andava a turbare la sua solitudine, e che il vento soffiasse sempre più forte e il sole cadesse rapido sopra la valle per costringere gl'importuni ad andarsene. Infatti le donne si avvolgevano meglio nelle loro tuniche e dopo aver recitato il rosario s'avviavano al ritorno.
Non rimasero che una venditrice di torroni e di pupazzi di farina nera ricoperti di zucchero; e due uomini seduti uno per parte davanti alla porta della chiesetta sotto l'atrio in rovina.
Efix sedeva poco distante da loro e li guardava gravemente: li riconosceva, li aveva veduti laggiù alla Festa del Rimedio: erano due mendicanti vestiti decentemente da borghesi, con pantaloni turchini e giacca di fustagno: uno, giovane ancora, alto e curvo, col viso giallo scarnificato ove pareva fosse rimasta la sola pelle sulle ossa, con le palpebre livide abbassate, chiedeva, chiedeva muovendo appena le labbra grigie sui grandi denti sporgenti, come dormisse e parlasse in sogno, indifferente al mondo esterno. L'altro, vecchio ma forte, col viso rosso cremisi congestionato, tutta la persona agitata da un tremito che sembrava finto, aveva messo il cappello fra le sue gambe aperte e di tanto in tanto si curvava a guardarvi dentro le piccole monete.
Ma la sera cadeva rapida, grave di nuvole, e la gente se ne andava. Anche la donna dei confetti chiuse le sue cassette ancora piene e si mise a parlare sdegnosa coi mendicanti.
"Non vale la pena di far tanta strada! Festa da niente, fratelli miei!"
"Non si campa più", disse il vecchio, e versò le monete in un fazzoletto e rimise il cappello in testa. Ma quando fu per alzarsi ricadde, come se i piedi gli scivolassero sul selciato dell'ingresso, e batté la testa al muro e le mani al suolo.
Al tintinnire delle monete contro la pietra l'altro mendicante sollevò il viso terreo spalancando gli occhi vitrei come sentisse un rumore minaccioso.
Il vecchio gemeva. La donna ed Efix s'erano precipitati su lui, ma non riuscirono a fargli tener sollevata la testa.
"Bisogna distenderlo", disse la donna, "ora gli darò un po' di liquore. Mettilo giù, aiutami."
Fu messo giù, ma le gocce d'un liquido verde ch'ella tentò di versargli in bocca sopra i denti serrati gli si sparsero sul mento.
"Pare morto. E tu, non ti muovi?", ella disse all'altro mendicante. "Era malato? Non rispondi?"
L'uomo tentò di parlare, ma solo un mugolìo tremulo gli uscì di bocca: poi scoppiò a piangere.
"Va', muoviti, chiama i pastori che stanno lassù nel bosco..."
"Dove lo mandi che è cieco?", disse Efix, inginocchiato con una mano sul cuore del vecchio. Il cuore sussultava, come tentando ogni tanto di sollevarsi e subito ricadendo.
E l'ombra si addensava rapida; ogni nuvola, passando sul vicino orizzonte, lasciava un velo, il vento urlava dietro la chiesa, tutte le macchie tremavano protendendosi in là verso la valle, e pareva volessero fuggire, luminose d'un verde metallico, agitate da una convulsione di tristezza e di terrore.
Anche la donna ebbe paura della solitudine e di quella morte improvvisa. Si mise le cassette sul capo e
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