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Opere pubblicate: 19994

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VII PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE AL FEMMINILE

MARIA CUMANI QUASIMODO

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28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

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Info sull'Opera
Autore:
Grazia Deledda
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

La Giustizia (V - VI )

di Grazia Deledda

V.

Seduto al piano Stefano suonava per ingannare il tempo dell'interminabile sera d'agosto. Il gran disordine del salottino accennava la recentissima visita di amici poco delicati: sedie spostate, indecenti macchie di saliva sul pavimento, un vassoio con caraffe e bicchieri dal fondo rosso di vino, mozziconi di sigarette sul portacenere, e infine un denso odor di fumo che appestava anche le camere attigue.
Disgustato ancora per la rumorosa visita dei quattro amici, fra i quali un ricco e triviale paesano, ch'erano venuti per tentarlo a ripresentarsi candidato nelle prossime elezioni comunali, Stefano suonava nervosamente il brindisi di Gluck.
"Sciocchi", pensava: "siete così piccoli che mi verrebbe voglia di pestarvi la testa come gli scarafaggi".
E senza muovere un muscolo del viso rideva internamente col riso sonoro del pianoforte: rideva di quegli uomini rozzi e ignoranti ch'erano venuti a sputar nel suo salotto come sputavano in piazza, e che parlavano di Crispi e di Di Rudinì come del sindaco del paese, al cui avverso partito appartenevano (quei quattro erano anzi i capi, o meglio il partito stesso, non essendo gli altri che poveri seguaci).
Entrò Maria, chiudendo la porta senza voltarsi. Poco cambiata dal nuovo matrimonio, certo più felice del primo, serbava la stessa serietà semplice e infantile, la stessa primitiva e naturale eleganza; una blusa color rosa pallido ornata sul petto da striscie di velluto nero dava al collo e al bianco volto una leggiadra sfumatura; così vestita, a capo scoperto, coi capelli rialzati sulla fronte, ella sembrava assai giovane, freschissima e bella; ma l'espressione degli occhi e delle labbra conservava l'antica serietà.
Entrando nel salotto vide Stefano così rigido e tediato, non ostante la sua apparente occupazione artistica, che invece d'avanzarsi fino a lui si diede attorno a riordinar le sedie, indugiandosi in quest'operazione con la speranza ch'egli sollevasse il capo e s'accorgesse di lei. Ma l'ultima sedia era rimessa a posto e la sonora e quasi irritante allegria del piano proseguiva ancora.
Maria prese il vassoio e portandolo sul tavolino d'angolo ebbe occasione di passare vicinissima a Stefano; ma egli rimase a fronte china, e il suo anulare destro continuò a premer nervosamente un tasto nero. Allora ella, vedendolo così poco disposto ad accorgersi di lei, s'affacciò al balcone, con aria tutt'altro che di sposa felice. Capiva poco di musica, ma s'era accorta che il marito suonava solamente nelle ore di malumore o di cattiva inspirazione; forse perciò il suono del cembalo le riusciva sgradito, e quasi sempre veniva a interromper le nervose sinfonie di Stefano, che s'acquietava volentieri nella musica delle parole di lei.
Ma quella sera la noia e il malumore erano così forti che non gli permisero di sollevare la fronte e chiamare Maria con lo sguardo; ed ella, vedendosi trascurata, passò oltre.
"Cos'ha?", dimandò egli a se stesso, "Perché non s'avvicina?"
E l'anulare svelto e nervoso premé sopra un si, che rispose acutamente.
"Sì, sì, siamo di malumore."
"Lascerà il balcone? Che pensa? Perché non s'avvicina?", gridò poi un'altra fuga di note.
Ma tosto una grave semicadenza rispose con profondità:
"Anch'io non le ho badato! Ma doveva avvicinarsi lo stesso. Non è già venuta per mettersi semplicemente al balcone. Devo alzarmi?"
"No, no, che venga lei...", disse una dispettosa nota dell'alto registro.
Lei non venne; e dopo una singolare tenzone di accordi e di pensieri, parte dolci e parte dispettosi, la sonata, che non era più né di Gluck né d'altro maestro, finì in un improvviso acuto, metà gemito e metà sbadiglio.
Sul balcone Maria respirò; sentì Stefano alle spalle. Ah, veniva lui! Era dunque giusto che ella mettesse il muso.
«Cos'hai?»
«Nulla.»
Egli guardò l'orologio, lo rimise nel taschino e battendo poi le dita sulla cortina, come per far cadere una mosca morta che non c'era, si domandò se gli conveniva meglio uscire o restar a casa con la moglie che rispondeva di non aver nulla appunto perché aveva qualche cosa. In entrambi i casi lo aspettava una noia infinita; preferì il secondo per farsi maggior dispetto; poiché nel paese non esisteva persona che meglio di Stefano Arca conoscesse l'arte di tormentar se stesso e farsi del male. Cominciò col tirarsi crudelmente i baffi, e ripeté, ma senza insistenza e quasi lo dicesse la prima volta:
«Cos'hai?».
«Ma nulla, ti ho detto!»
«Va e vestiti ché usciamo.»
«Io non esco.»
«Perché?»
«Perché non esco!»
«Cos'hai?», ripeté egli ancora, e sempre con l'indifferenza d'una inutile domanda.
Allora Maria si volse e lo fissò:
«Cosa ho? Nulla. Perché son venuti quei quattro?».
Stefano fece un gesto di noia, domandandosi mentalmente se sua moglie doveva sapere tutti i suoi affari. Si rispose di no.
«Perché son venuti? Per bere!»
«Per bere?», e la fronte di Maria si aggrottò. «Perciò tuo padre ne ha fatto una delle sue. Scende Serafina: "Don Stene vuol che porti da bere". Prendi una bottiglia sigillata, dico io. E lei: "Perché una bottiglia sigillata? Non è poi gente d'importanza. Io porto su del vino semplice". Fa come ti dico io, insisto. Ma già, cosa conto io in questa casa? Mentre Serafina fa per obbedirmi suo malgrado, salta su tuo padre: "Gente d'importanza, gente di...! Serafina, Serafina? Non toccar le bottiglie sigillate! Che si bevano l'acqua dell'abbeveratoio quelli là! Prendi una caraffa di vino rosso...". E vino rosso Serafina ha servito e ancora una volta si vede il rispetto e l'obbedienza che per me si nutre... Oh!»
In quell'oh! ella mise tutta la sua amarezza; e voltando le spalle al marito gli lasciò ancora una volta tutto il peso e la responsabilità dei continui dissapori che, per causa delle domestiche, turbavano l'armonia famigliare. Stefano si sentì subito umiliato e il suo dispetto crebbe.
«Ma perché volevi si servisse vino vecchio?»
«Per la tua buona figura.»
«Per la mia buona figura? Ma quella gente là... davvero...»
«Ah, va bene! È giusto. È giusto che si continui così!...»
«Maria!», esclamò egli. «Sarebbe tempo di finirla! Manda via quella pettegola di Serafina; quante volte te l'ho detto?»
Ella si volse a mezzo, e continuò a guardar lontano.
«Ma son forse io la padrona? Io sono nulla, io non conto nulla. I padroni siete voi, è tuo padre, sei tu, e se tu volessi...»
«Io?», egli domandò, e rise, ma senza muover un muscolo del volto. «Sta a vedere che debba toccarmi anche ciò! Immischiarmi nei vostri pettegolezzi...»
Maria si volse tutta e tornò a fissarlo, dichiarando recisamente:
«Io non faccio pettegolezzi».
«Cioè, volevo dire, negli affari delle donne, delle fantesche... Ma perché ho preso moglie, se non perché le serve non fossero più padrone in casa mia?»
«Ah, per ciò hai preso moglie?»
I grandi occhi buoni di Maria lo fissavano fra il malizioso e il severo, ed egli sentì in cuore il desiderio di stender le braccia per afferrare il cerchio rosa della vita di Maria, dichiarando che per ben altra ragione s'era ammogliato; ma in altra parte dell'anima, che non era nel cuore, in un luogo ove fermentava l'acre lievito della noia, del disgusto e del dispetto d'una esistenza sfaccendata e inutile e piena solo di piccole miserie domestiche e paesane, naufragò il desiderio dolce e buono.
"Per questo appunto!", disse la dispettosa voce del maligno luogo.
«Va bene, dunque!», affermò allora Maria, e gli occhi si fecero seri e la voce diventò fredda. «Da oggi voglio esser proprio la padrona... delle serve: ricorda le tue parole, però, e non venirmi poi a rimproverare se tuo padre...»
«Mio padre! mio padre! Ma lascialo in pace, poveretto!»
Fu bussato alla porta.
«Avanti», disse Stefano volgendosi e guardando l'uscio.
Anche Maria sporse il capo, ma vista la rossa faccia di Serafina volse ancora le spalle per non adirarsi: e si consolò udendo Stefano gridar rudemente:
«Cosa vuoi?».
Con lui Serafina non alzava la voce, quindi gli rispose sommessa e rispettosa:
«C'è il Porri che la vuole».
Egli non aveva ragione alcuna per rendersi invisibile al suo grosso dipendente, ma per pigliarsela in qualche modo con Serafina disse:
«Potevi benissimo dire che non c'ero».
«Posso dirlo ancora!», osservò la ragazza,
«Oh, di', sciocca, puoi far a meno di alzar la voce! Non mi costa nulla farti saltar gli scalini in una volta!»
Maria sorrise tutta consolata.
Serafina rimase un momento con gli occhi arditamente fissi sul volto del padrone, poi domandò tranquilla:
«Scende lei, o faccio salire il Porri?».
«Fallo salire», suggerì piano Maria.
«Fallo salire!», gridò egli.
Ma ci volle del tempo perché il Porri mettesse sul chiaro e gaio sfondo del salotto la macchia della sua larga faccia cenericcia chiazzata di rosso.
«Sedetevi!», gli impose Stefano con alterigia e noia. Il pastore si lasciò cadere sulla prima sedia che gl'impedì il passo, e a mo' di saluto si tirò la berretta su una tempia.
«Buona sera, don Istene, come sta lei? Vedo che sta benissimo, come rosa in primavera. Eh, cosa le manca, grazie a Dio? Forse le manca il pane bianco o il latte la mattina e la sapa la notte?»
Maria, sempre sul balcone, fece una smorfia, sebbene nella sua casa paterna non mancasse mai il vaso della sapa nelle patriarcali cene; ma Stefano rise apertamente, e appoggiandosi con le mani allo schienale d'una seggiola rispose con un crudele scherzo:
«E a voi cosa manca? Forse lo schidone della carne rubata? Ohi, compare, avete la barba ancora più lunga e più selvatica ancora!».
«Io non ho bisogno di saziarmi con carne rubata», rispose il Porri; e voleva sorridere, ma solo una scintilla verde gli brillò negli occhietti felini. Poi si passò una mano sulle ciocche nere e rossastre della barba, e ne strinse l'estremo ciuffo entro il grosso pugno bronzino.
«Eh! lo so bene», disse Stefano; «voi potete far comparire sul vostro canestro il pane di grano e di latte e la sapa più di qualunque cavaliere. Mi avete portato del danaro?»
«No», fece l'altro, e, lasciando andar la barba, aprì le larghe mani, accennando che non aveva nulla.
Stefano ricominciò ad irritarsi.
«E allora perché siete venuto?»
Il pastore s'accomodò sulla sedia e cominciò le solite lamentazioni: l'annata cattiva, metà dei pascoli rimasti vacui o pascolati abusivamente; e i pastori a cui l'altra parte era subaffittata non pagavano neanche a pigliarli a colpi d'archibugio.
«Bancarotta!», concluse, mostrando sempre le mani vuote. «Io sono un uomo rovinato, e se l'anno scorso ci ho rimesso cento scudi, che non mi possiate riveder vivo» ("Dio lo voglia!", augurò Stefano fra sé), «quest'anno ci rimetto la testa.»
«La punta della barba, volete dire? Eh! via», proruppe il padrone, «perché venite a raccontarmi queste bugie? Se non vi fosse convenuto non avreste rinnovato il contratto.»
«Credevo...»
«Credevate un corno! Dite meglio che non avete voglia di pagare. Così faceste l'anno scorso, lasciando una coda di cinquecento lire; ed ora non solo non saldate quelle, ma siamo quasi alla fine dell'anno e mi mostrate le mani vuote. Che diavolo! Credete che anche noi campiamo d'aria?»
«Pazienza, pazienza, compare don Istene», disse il pastore, agitando le mani per accennare a Stefano di calmarsi. «Se ella fosse al posto di noi poveri...»
«Pazienza..., ma ora ne ho le tasche piene di pazienza... Se non pensate ai vostri affari vedrete voi la pazienza. Mando i miei pastori a cavallo e faccio scacciar tutte le greggie dalla tanca.»
«Lei non lo farà questo...» E il Porri rise goffamente, sempre con una scintilla verde nei piccoli occhi.
«Non lo farò? Vedrete che lo farò!», affermò Stefano, facendo molinar vorticosamente la sedia sopra un solo dei quattro piedi neri attorcigliati, che nel giro si cambiarono in quattro piccoli serpenti.
Visto l'inesorabile malumore del padrone, il pastore si pentì d'essere venuto in sì sfavorevole ora; ma, poiché ci era, volle tentare il colpo.
«Basta», disse, curvando il viso in modo che la barba gli toccò la cintura di cuoio, «ella faccia quel che vuole, compare don Istene; ma come ebbe pazienza per il più, l'abbia per il meno. Sono venuto..., oh! sono venuto... per questo...» Frugò entro la borsa di pelle della cintura e ne trasse un foglietto sucido, piegato in quattro. «Guardi un po'», conchiuse, rialzando il viso e porgendo il foglietto stretto fra l'indice e il medio della mano sinistra, mentre con la destra riabbottonava la borsa.
«Cosa è questo? Uno chèque?», ironicamente domandò Stefano che, molinando sempre la sedia, aveva seguito tutti i movimenti del Porri. Ma non prese il biglietto.
«Cosa è uno schek? Una citazione forse?»
«Sì; giusto; una citazione al Tribunale!», esclamò Stefano, ridendo; e compreso a volo di che si trattava, lasciò in pace la sedia e prese il foglietto.
Maria venne vivamente avanti e stette a osservare, guardata acutamente dal Porri.
«Buona sera, donna Maria; e come sta? Grazie a Dio, si vede che sta meglio di me. Quando verrà a farmi una visita all'ovile? Le consegnerò la ricotta tra le foglie fresche dell'asfodelo, la giuncata e la panna di dieci litri di latte.»
«Troppo!», ella rispose, ridendo e osservando sempre suo marito, che restituì il foglietto, chiedendo:
«Ebbene?».
«E non ha veduto cosa è? Una citazione del Giudice istruttore di Nuoro per cose penali. Deve essere per quell'affare; si ricorda? Gliene parlai l'anno scorso, in ottobre mi pare...»
«Non ricordo», disse Stefano freddamente.
Maria e il Porri capirono benissimo ch'egli non voleva ricordare; quindi la prima tacque e il secondo disse:
«Si ricordi bene. Anzi credevo fosse stato lei a farmi citare per teste».
Si sedette, concentrandosi un po' come per ricordarsi. Anche Maria s'assise sul bracciale del divano, guardando or l'uno or l'altro dei due uomini, che, pur sapendolo scambievolmente, rappresentavano una piccola commedia. (Scrivendo a Nuoro una lettera anonima al procuratore del re, il Porri s'era fatto citare da sé; e gli Arca lo sapevano.)
«Ricordo», disse Stefano dopo un momento di silenzio. «Voi mi diceste una volta che il Chessa v'aveva confidato che...»
«Parli piano...», pregò il pastore, guardando il balcone aperto.
«Sta bene. Avete detto ciò con altre persone?»
«Con nessuno; neppure con Gesù Cristo.»
«Egli non ha bisogno che gli si dica nulla, perché sa tutto», Stefano osservò solennemente e con doppia intenzione.
«Ma allora come vi hanno citato?»
«Credevo fosse lei.»
«Macché, io! Se non ricordavo neppure! Eppoi avrei aspettato un anno?»
Il Porri parve colpito da questa osservazione; curvò nuovamente la testa e si passò una mano sul petto. Allora Maria credé bene entrare nell'argomento:
«Ma cos'è questa citazione?».
«L'anno scorso», cominciò il Porri, volgendosele tutto e sperando di intendersi meglio con lei, «io dissi a don Stene qui presente che il Chessa, una notte che dormì nel mio ovile, mi confidò che i Gonnesa volevano incaricarlo d'uccidere don Carlo. Dio l'abbia in gloria...»
E raccontò minutamente ogni cosa, con certi particolari che l'anno prima, essendo ancor vivo il Chessa, non aveva ardito rivelare.
«Ora», concluse, «non mi torna a conto l'andare a ripetere tutto questo al Giudice istruttore; il diavolo gli cavi un occhio! Se i Gonnesa vengono a saperne, io sono un uomo rovinato. E loro, don Stene e donna Maria, dovevano ben considerare i danni che possono venire da certi fatti a un padre di famiglia...»
«Sentite», scattò allora Stefano, balzando in piedi; «spiegatevi bene. Perché siete venuto qui? Io non ho mai pronunziato il vostro nome; ma quand'anche l'avessi fatto, non me ne deste autorizzazione voi stesso l'anno scorso?»
«Sì, ma credevo...»
«Credevate che vi perdonassi il fitto di Nuraghe ruju, non è vero?»
«O, questo poi!», gridò il Porri; e le macchie rosse del volto gli si allargarono fino a stendere un cerchio vermiglio sulla fronte pelosa.
«Questo o non questo, infine che volete voi?»
«Un consiglio.»
«Ma che consiglio?», osservò mitemente Maria, che nella sua bontà credette il rossore del Porri fiamma di sdegno, non di dispetto. «Dite la verità e basta. Noi vogliamo soltanto la verità, dalla quale la giustizia dev'essere illuminata. Del resto, scusatemi, ma questo fatto, che dite d'aver comunicato solamente a Stefano, lo sanno molti. Lo sa perfino Serafina.»
«Serafina lo sa? Chi è Serafina e cosa sa quella?...», disse il Porri con sdegnoso disprezzo, tirandosi la berretta sull'orecchio. «Avrà origliato alla porta! Io giuro, che non riveda i miei figli, se ne parlai mai con altri.»
«Basta!», esclamò Stefano, mantenendosi calmo a stento. «Mia moglie ha ragione: dite la verità e basta!»
«Dite la verità e basta! Altro che bastare, compare don Istene! Io sono un uomo rovinato!»
«E allora non dite nulla!», concluse Stefano, voltandogli le spalle.
Così il Porri dovette andarsene senza aver nulla conchiuso; ma, congedandosi, aveva ancora negli occhi la maligna scintilla verde e rifiutò il bicchiere di vino che Maria voleva versargli.
Appena uscito lui, lo sdegno, la collera, il malumore di Stefano scoppiarono inesorabili e contro il Porri che voleva pagata la sua falsa testimonianza e contro tutte le viltà del mondo e della vita. Maria, chiudendo prudentemente il balcone e le porte, lasciò che si sfogasse e s'aggirasse intorno al salotto come leone ferito. La sera terminò melanconicamente.
Informato del cattivo esito della visita del Porri, e credendo che n'avesse colpa Maria, a cena don Piane fu di un terribile malumore: per far dispetto alla nuora bevette il brodo dal piatto, versandoselo tutto addosso; fece salire il gatto sulla mensa e gli diede da leccare le forchette.
Maria stette pazientemente zitta, ma Stefano, non volendo mancar di rispetto al padre, si alzò, sbatté il tovagliolo sui piatti e lasciò la tavola, sbuffando. Ma rientrò appena don Piane, seguito da Serafina col lume e dai gatti che lo accompagnavano sempre a coda ritta e schiena inarcata, si fu ritirato; e chiese a Maria se, come usavano quasi ogni notte, volevano recarsi dagli Arthabella. Glielo chiese però così svogliatamente che ella rispose, timida:
«Se tu non hai piacere...».
«Andiamo», diss'egli con freddezza.
Uscirono. Era una bellissima notte: la nuova luna, sottile arco di perla gialla, scendeva su un limpidissimo sfondo di cristallo turchino; e per un poetico fenomeno l'astro di Venere, azzurro come una splendida turchese, rasentissimo ne accompagnava il lento tramonto. Nelle viuzze del villaggio, discretamente illuminate dalla tenue luce d'ambra del novilunio, molte donnicciuole, sedute sui limitari delle piccole case nere, guardavano con certo terrore il fenomeno celeste.
Stefano e Maria camminavano silenziosi, distanti l'uno dall'altra, e pareva che, non congiunti da alcun intimo filo, andassero ciascuno per conto proprio sotto la falce d'oro della luna, sotto l'occhio azzurro di Venere; ma, scesi sullo stradale, ella sentì il bisogno d'avvicinarsi al marito e fargli osservare con voce un po' tremula:
«Guarda, la luna ha vicinissima una stella. Che accadrà? Qualche grande sventura certamente».
«Sciocchezza!», diss'egli, alzando le spalle e sollevando il volto.
Per alcuni momenti camminò, guardando in alto, assorto nella ineffabile bellezza del fenomeno: la luna e l'astro gareggiavano di splendore; un profondo silenzio era nell'aria, e i noci degli orti, e i pioppi, e tutti i cespugli si ergevano immobili fra un dorato chiarore, quasi anch'essi assorti nella contemplazione del doppio tramonto astrale. Ma tosto, e come sempre, Stefano sentì il suo sentimento estetico avvelenato da un sottile disgusto; sentì che sua moglie non scorgeva nella finissima bellezza di quel novilunio incoronato dall'azzurro tramonto di Venere, che una volgare superstizione, e reclinò la fronte corrugata.
«Così, così dunque bisognava camminare col muso a terra, come quelli animali immondi che...»
«Cos'hai?», domandò ella, udendolo mormorare.
Egli non rispose; ma arrivati alla casa del molino e venuta zia Larenta ad aprire, dovette un'altra volta stizzirsi, perché anche la vecchia domestica alzò il braccio verso la luna, predicendo disgrazie.
«Oh, zia Larenta mia!», si lamentò Maria, spaventata.
«Bisogna vedere con quanta serietà lo dite!», esclamò egli. «Pare impossibile ch'esistano ancora paesi barbari come questo!»
«Don Costantino!», disse poi entrando nella stanza da pranzo. «Ha lei veduto la luna con la stella vicina? Tutte queste donne sono mezzo morte per la paura.»
«Certo, qualche disgrazia deve accadere!», sentenziò donna Maurizia.
«Che altro accidente può succedere, se non la completa dispersione di paesi ignoranti e malvagi come questo?»
«Oh, Stene! oh, Stene!», guardandolo col suo buon sguardo soave, dolcemente rimproverò don Costantino.
«Lasciatelo dire! Questa sera è d'un terribile umore...», disse Maria, e, sorridendo, sedette nel suo antico posto favorito, davanti alla tavola ancora apparecchiata.
Deposti sulla tovaglia di lino un po' azzurrognola stavano un vassoio con noci secche e un piccolo piatto con alcuni fichi lunghi, d'un cupo violetto appannato da una lievissima spruzzatura grigia; e non mancava il vaso della sapa scura e densa, su cui galleggiavano ovali fette di scorza d'arancio.
«Si figuri», disse Stefano, sedendosi, rivolto al suocero. «Si figuri a che punto siamo!»
E raccontò della visita del Porri; per conclusione diede un formidabile pugno ad una noce che si frantumò, schizzando sulla tavola i pezzetti giallognoli e farinosi del gariglio secco.
Coi baffi un po' irti donna Maurizia ascoltò attentamente; e, quando Stefano concluse, aggrottò le temibili sopracciglia.
«Hai fatto male», osservò. E voltasi alla figlia: «E tu non c'eri?».
«E se c'era lei?», gridò Stefano. «Voleva forse che tenessi bordino a quel farabutto? Che gli dicessi: ma sì, bellino, tienti pure il fitto di Nuraghe ruju e deponi tutte le menzogne che vuoi?...»
«E poi», disse don Costantino, ammucchiando con due dita i frantumi della noce e guardandovi sopra, «chi ci assicura che non siano i Gonnesa a mandare il Porri per tentarci e poi provar con lui che noi paghiamo i testimoni?»
«Anch'io dicevo questo», osservò timidamente Maria.
«A chi l'hai detto?», domandò Stefano guardandola.
«Veramente non l'ho detto, vedendoti nell'umore in cui eri stasera; ma l'ho pensato...»
«Ed io non ci ho pensato, ma può essere benissimo anche così...»
«Ad ogni modo», ripeté la suocera, «hai fatto male a maltrattare il Porri».
«Perché? Mi pento anzi di non averlo fatto ruzzolare per le scale.»
«Meglio! Sta attento, Stefano Arca!»
«Stefano Arca non teme nessuno, e tanto meno un animale vile, che altro non è, come il Porri. Cosa può farmi lui? Sono stufo!», gridò poi, battendosi la mano sulla fronte. «Sono stufo di tutte queste miserie che vedo, che sento, che...; e infine non sarò già io che aiuterò i furfanti!»
«Tu non sai vivere, figlio caro», predicò donna Maurizia; «tu vuoi cambiare il mondo, ma il mondo cambia noi; e da grandi cose che ci crediamo ci riduce come spugne spremute e buttate via.»
«Lasciamo le prediche!», disse Stefano. «Maria, dammi un fico.»
Maria spinse il piatto ed egli, preso un fico, lo spezzò in due e stette a guardarne le lunghe fibre rosee sfumate in bianco.
«Arcangelo Porri!», esclamò. «Voi non sapete che pecora mala è Arcangelo Porri. Lo conosco io, e se questa volta si permette di non filar dritto lo farò stare così, dentro il mio pugno.» Lasciò cadere le due parti del fico e strinse il pugno come se dentro vi comprimesse davvero qualche cosa; poi disse abbassando la voce minacciosa: «Lo so io come va la storia della morte di Saturnino Chessa! È che non voglio compromettermi con simil gente, altrimenti guai!»
Dopo qualche insistenza e dopo che Maria si fu assicurata che zia Larenta non stava dietro l'uscio, egli narrò la triste storia della morte del Chessa, sul quale c'era stata una taglia di mille lire e la promessa, non formulata ma compresa, d'una medaglia d'onore al carabiniere che avrebbe cacciato il cinghiale dell'altipiano.
«Ella ricorderà il Chessa», disse Stefano rivolto al suocero, che accennò di sì; «era un uomo piccolino, magro, con una fisionomia buona di donna vecchia, sbarbato e bianco. Che abbia fatto del bene o del male, specialmente a noi, questo lo avrà giudicato Iddio. Ad ogni modo al Porri, col quale era amico, e s'avevano giurato fede nella notte di San Giovanni, il che equivale quasi ad esser fratelli, aveva fatto più bene che male. Dormiva e mangiava spesso nell'ovile del Porri, e questo fatto Pennini, l'appuntato che poi s'ebbe la medaglia al valore per aver sparato e... ucciso il Chessa, lo sapeva benissimo. Ora, non potendo cacciar vivo il cinghiale, si pensò di prenderlo, in più nobile modo. E nell'ovile di Arcangelo Porri il Chessa bevette del latte avvelenato, e fu sul cinghiale già morto che Pennini sparò...».
Maria non disse nulla, perché forse sapeva già la storia, ma i baffi di donna Maurizia si rizzarono per raccapriccio, e don Costantino chinò la buona fronte sulle mani, gemendo.
«Oh, Dio! Dio santissimo!»
«E poi!», gridò Stefano con occhi brillanti. «E poi volete che io non mi sdegni, ch'io non gridi contro questo miserabile mondo, ove tutto, cominciando dalla giustizia, tutto è commedia e viltà? Donde dovrebbe piover la luce viene il buio, donde si spera giustizia viene l'iniquità. E voi volete che se il Porri torna a insozzare la porta di casa mia non lo getti dalle scale a pedate? Ah, don Stefano Arca non è don Piane Arca a cui tutto sembra facile e buono.»
"Tutto facile e buono!", sorridendo malignamente, disse fra sé donna Maurizia. "Altro che cose facili e buone ha fatto don Piane Arca!"
«Ma se non operi con prudenza», disse ad alta voce, «non certo vivrai gli anni di tuo padre!»
«Che importa? Tanto la vita è così stupida!», rispose egli alzando le spalle e versandosi da bere. «Beviamo!»
Maria lo guardava e l'ascoltava; e udendo così parlare provava una indefinita sensazione di dolore e di gioia. Come sempre, sentiva la strana superiorità di lui; che era ella mai davanti a quell'uomo giovane e forte, nobile ed elevato, che amatala finché gli aveva resistito, ora, dopo le prime ebbrezze del trionfo, la trascurava e s'annoiava di lei come di tutte le altre cose che lo circondavano?
Non era ancora un anno da che Stefano Arca era entrato per la prima volta in quella semplice stanza severa, nella quale ella gli aveva versato il vino giallo e soave dal cui ardente miele era spuntato il germe di un inebbriante amore, e pareva che molti e moltissimi anni fossero trascorsi.
E l'antico dolore, che or pareva un lontano sogno, era scomparso come un tempo sparivano le larghe foglie lucenti dei noci e le lunghe foglie pallide dei pioppi trasportate dai soleggiati meandri del ruscello; e forse Stefano non provava più per Maria l'ineffabile mistero di attrazione che a lei lo aveva unito, perché ella non possedeva più quel sottile fascino di dolore che un tempo l'avvolgeva tutta in un velo di ignote dolcezze.
Ma da qualche settimana a questa parte, ella spesse volte sorprendeva il suo labbro inferiore increspato dall'antica linea di rassegnato e doloroso rimpianto; e scendendo nell'orto, nelle lunghe sere estive il cui riflesso rendeva d'oro le basse acque della vasca, domandava segretamente ai salici se, vivendo, Carlo Arca avrebbe potuto renderla più felice di Stefano.
Immobili rabeschi di pallido smeraldo sul fondo alluminato dell'occidente, i salici tacevano; ma a misura che cadeva la sera e l'occaso diventava roseo, un tenue fremito li agitava, e a quel brivido tremolava l'acqua fatta rosea; allora col timido sussurro dell'ondeggiar dell'acqua salivano i buoni versi del morto:

...quando s'ama molto
La vita è come un delicato fiore,
Che profuma col suo più dolce odore
Il vento che i suoi petali strappò.

La sposa allora imponeva alle sue labbra il sorriso, e tornava nella dolce tormentosa casa, dove si sentiva sempre come straniera, per combattere a forza d'amore le bizze del vecchietto rimbambito, le perfidie delle domestiche e la terribile e spesso invincibile noia del marito.

Uscendo dalla casa del suocero, Stefano diede un gran sospiro. Lo sollevava alquanto l'essersi sfogato, sia pure con gente ch'egli riteneva molto inferiore a sé.
La luna era tramontata e il paese caduto in un profondo silenzio; i noci stormivano lievemente, e in quella dolce oscurità, appena schiarita dalla via lattea e dalle stelle, fatti pochi passi sullo stradale, Stefano sentì una improvvisa tenerezza di memorie, ricordando la notte in cui aveva gridato ai pioppi, al ruscello, agli astri ed alla casa del molino:
«Domani ritornerò!».
Silenziosa Maria lo seguiva col suo lieve passo aristocratico; e nella vaga oscurità egli ne scorgeva, come attraverso un leggero velo di nebbia, l'alta figura snella, più chiara dal busto in su, e bianca, sebbene non distinta, in viso.
Nella improvvisa tenera onda di ricordi, egli prese la mano di lei e se la pose sul braccio: ella vibrò lievemente per tutta la persona, ed egli, avvedendosene, si pentì di averla più che mai quella sera ingiustamente rattristata col suo tedio.
Camminarono un tratto silenziosi, poi, come poche ore prima, egli domandò «Che hai?», ma intensamente, e volgendole tutto il volto e lo sguardo affettuoso.
Ed ella rispose ancora:
«Nulla!», ma con voce nella cui commossa vibrazione palpitò una infinita tenerezza.
«Nulla, no. Hai qualche cosa... con me! Cosa ho fatto? Me lo vuoi dire?»
«Nulla, davvero, nulla.»
«E allora perché quando suonavo non ti sei avvicinata?»
«Temevo... credevo...»
«Che cosa credevi? che cosa temevi? dimmelo...»
Avvicinò ancor più il volto al viso di lei; le prese e strinse la mano appoggiata al suo braccio: allora anch'ella si pentì, dandosi tutto il torto per la cattiva sera ch'entrambi avevano passato.
«Scusami, Stene. Ero adirata per l'affronto di...» (stava per dire tuo padre, ma nella delicatezza del momento disse:) «Serafina. Entrando poi ti vidi così accigliato che ho creduto di disturbarti...»
«Perché non la mandi via quella ragazza?», domandò egli con dolcezza ed insistenza. «Mandala dunque via: staremo più tranquilli qualche volta. La temi forse? Vuoi che la mandi via io? Vuoi?»
Maria provò un forte sentimento di riconoscenza, ma più e più delicata disse con sincerità:
«Non è che la tema; è per risparmiare un dispiacere a tuo padre...».
Egli sentì tanta bontà in questa osservazione che per esprimerle la sua subitanea ammirazione si fermò e le baciò la mano.
Poi ripresero a camminar lentamente.
«Macché dispiacere! Sarà un momento, poi se ne dimenticherà e si troverà meglio anche lui.»
«Oh, questo è certo!»
«Ebbene, lascia fare a me. Domani.»
Ma né il domani né nei seguenti giorni, egli ebbe il coraggio di scacciar la domestica.
"Dopo tutto sono affari di donne; che c'entro io, corpo del diavolo?", pensava umiliato.
Maria taceva e aspettava.
Dopo le tenerezze dell'altra notte, egli la trascurava ogni giorno di più, passando le ore al piano e suonando uno spartito, arrivatogli da poco, che sembrava ammaliarlo.
Era il Tannhäuser di Wagner. Nel nuovo spartito, nuovo per modo di dire, poiché egli non l'aveva prima né eseguito né sentito mai, Stefano ritrovava qualche cosa di profondamente misterioso che lo assorbiva dandogli vaghe rimembranze arcane e intimi piaceri fino allora invano cercati negli scherzi di Brull, il cui riso argentino anzi talvolta lo infastidiva, o negli studi sinfonici di Schumann, che spesso lo lasciavano indifferente.
Nelle nuove melodie egli ritrovava qualche cosa di se stesso; sebbene in fondo al suo piccolo paese egli non sentisse dell'ozio che le noje, senza provarne, come Tannhäuser nelle profondità del Venusberg, i corrosivi piaceri, aveva però occulto e potente un desiderio di vita, di lotta, e di lavoro. E nelle note della musica wagneriana fra gli interludi orchestrali, egli metteva tutta l'anima sua: certe voci profonde e gradi del basso registro gridavano cupamente tutta la sonora domanda del suo cuore:
"Che devo far io?".
"Lavorare, amare, redimerti!", rispondeva tosto la canora voce acuta dell'alto registro.
Era forse la voce di Elisabetta che spingeva l'amante al mistico pellegrinaggio?
Ma dopo suonato lungamente, Stefano si sentiva ancor più triste e depresso del solito: nessuna voce lo spingeva in alcuna via, fosse pur pericolosa ed aspra, ma che lo traesse dal morto stagno in cui viveva.
Maria non sapeva dargli che scialbe carezze che non potevano arrivargli all'anima; Maria, nonché spingerlo fuor dello stagno, ve lo affondava di più con la sua semplice ignoranza.
Di mattina, poco male, egli occupava il tempo ricevendo molte persone per il disbrigo dei suoi affari, e rispondeva a qualche lettera, aspettando l'ora del pranzo.
Come tutti i possidenti sardi, gli Arca pranzavano a mezzogiorno, il che naturalmente portava l'ora della siesta. I padroni andavano a letto: le domestiche si coricavano in cucina, sul nudo pavimento, e dormivano bocca a terra come pecore meriggianti; i cani si accucciavano negli angoli ombrosi del cortile, raggomitolandosi col muso fra le zampe; i gatti si sdraiavano sibariticamente fra le erbe dell'orto, a pancia in aria, le gambe aperte e la testina vezzosamente reclinata sulla spalla; le galline, stupidi animali, s'appisolavano al sole ardente, fra la polvere, con le zampe gialle distese e un'ala spiegata a terra: infine, un sonno afoso, pesante, mortale e voluttuoso nello stesso tempo, gravava su tutta la casa.
Dopo letti i giornali, Stefano dormiva; ed era quella l'ora più bella della sua giornata. Vaghi sogni gli venivano col dolcissimo stormire del noce, che portava nel suo lento sussurro la visione di cieli azzurri sconfinati, di infiniti sfondi cerulei, ove il pensiero naufragava in un lago di dolcezze senza nome. Era la voce insidiosa d'un'invisibile sirena campestre; la malìa delle sieste meridionali, e che portava tutta una sottile ebbrezza sonnolenta.
In quel dormiveglia, in quel sonno ch'era un piacere squisito e indicibile, tutte le facoltà sensitive di Stefano s'acquietavano profondamente: egli cercava quindi di prolungar quest'ora di riposo, nel quale i suoi nervi, le sue aspirazioni, le sue irrequiete noie s'assopivano obliando la realtà.
Il noce stormiva più e più dolcemente, e nel suo fremito diffuso e continuo, sonnolento e canoro, parea dilagasse la musicale malìa dell'altipiano steso al sole, sotto il metallico e chiarissimo cielo del pomeriggio sardo. Era la bionda linea delle stoppie sfumate nell'ossidato orizzonte, la fragranza amarognola degli alti oleandri fioriti magicamente sul marmoreo alveo del fiume disseccato, le dolci ombre dei muri assiepati, i rossastri fieni delle tancas, l'acqua argentea delle fontane, gli arieti dalle grigie corna, i tori dal bianco viso e le greggie tutte meriggianti fra i lentischi dell'ardente profumo; gli agili puledri che stanchi per corse sfrenate traverso le macchie or sognavano in fiero riposo; era infine tutta la sonnolenza dolce e fatale della natura sarda, un misterioso sogno di nostalgica passione rievocante le voluttuose estasi del patrio oriente.
Nel primo dormiveglia o nei velati intervalli di sonno, Stefano sentiva una profonda felicità; tutta la percezione delle sue fortune, ricchezza, amore, gioventù, forza, bellezza e intelligenza, gli passava nel pensiero, e le sensazioni addormentate provavano una dolcezza ineffabile di sogno; lo stagno della piccola esistenza paesana, torbido nelle ore di realtà, si cambiava in lago di latte dolce. Come in quell'ora erano profonde e soavi le carezze di Maria! Come risuonavano inebbrianti e perfette le sonore melodie del cembalo; come erano buoni gli abitanti del paese, e come questo appariva pittoresco! Si appianava ogni cosa; ogni persona sfilava sorridente e luminosa; tutte le contrarietà si dissolvevano in soavi sfumature. E la vita e l'avvenire erano dolcissimi sogni, orientali fantasie; erano il suadente stormire del noce, l'affascinante visione di limpidi orizzonti azzurri, di tranquilli paesaggi dormenti al sole di meriggio...
Ma questa sublime illusione dei sensi, al lento e velato risveglio si cambiava in repentina e affannosa amarezza; restava nelle aride labbra qualcosa di salato e disgustoso; il pensiero rientrava d'un tratto nella solita orbita di tedio, e le sensazioni tutte si svegliavano, stupite, addolorate, quasi umiliate per essersi lasciate ammaliare dalla svanita chimera.
Stefano si stiracchiava sul gran letto splendido, da cui Maria era silenziosamente sparita dopo breve siesta, sbadigliava, alzava le braccia coi pugni stretti, le lasciava ricadere, e richiudendo gli occhi cercava di riaddormentarsi. Ma l'incanto era rotto e il sole declinava. Bisognava levarsi, muoversi, tornare alla realtà; e l'idea dell'interminabile sera sfaccendata dava a Stefano un disgusto più profondo di quello che le ore gli preparavano.
Si scuoteva; sollevava la testa e la lasciava ricader sulla calda impronta del guanciale, sbadigliando con sospiri che parevan gemiti; alfine si decideva, infilava le pantofole di panno ricamato, e silenziosamente vagando sui tappeti della camera si lavava, si spazzolava ferocemente la testa, chiedendosi a fronte china, coi capelli irti spruzzati di forfora, col viso pallido e gli occhi gonfi: «Ed ora?».
Tremendo quesito, acuito e avvalorato da interminabili sbadigli. Scendendo nel salotto da pranzo trovava Maria a lavorar accanto all'aperta finestra, e don Piane a giocarellar con Speranza, strisciando il bastone sul pavimento e facendo disperatamente correr in circolo la gattina.
«Oh!», diceva Maria guardando suo marito. E si levava, e serviva il bel caffè bollente, densamente vermiglio come vino, versando prima nella chicchera del suocero, poi in quella di Stefano, e in ultimo nella sua.
Sotto l'impressione benefica della squisita bevanda, per un momento Stefano ritrovava un po' di buon umore; di nuovo le cose gli sembravano belle e facili, e si degnava talvolta di trovar grazioso il giochetto di Speranza che, saltando sulla spalla di don Piane, allungava la zampetta per afferrare il cucchiarino che il vecchietto si portava alle labbra.
Ma naturalmente egli non poteva indugiarsi molto nel salotto da pranzo: che doveva farci laggiù?
E tranne le rare volte in cui ordinava a Serafina di sellargli il cavallo (uscendo poco in campagna, per tema delle febbri, durante i grandi calori), doveva risalir sopra, a far toeletta, a decidersi sul modo di passar la sera.
Metteva la camicia di finissima seta a fondo paglierino, sparso di carnicine roselline sfogliate, o magari la camicia di percalle rasato, azzurro pallido a pisellini gialli, ma poi pensava amaramente:
«Perché? Uscire, o non uscire? Perché uscire? Dove andare?».
Era completa, in quei caldi pomeriggi polverosi, la desolazione del villaggio: i noci che alla spietata luce del sole apparivano grigi di polvere, non fremevano più, stanchi e sonnolenti; sonnecchiava l'acqua del ruscello nella sua desolata scarsità; dal confine dell'abitato, il concio, a cui i monelli attaccavano malvagiamente dei fiammiferi accesi, fumava, spandendo su tutto il paese una densa, soffocante e poco amabile fragranza di stoppie e d'immondezze brucianti.
Per narici delicate come quelle di Stefano, in quell'odore abbominevole era condensata tutta l'immonda miseria del paese; sulle cui viuzze il vento lasciava larghi marezzi di paglia e d'altre cose indecifrabili; dalle cui porticine spalancate si scorgevano oscuri e sucidi interni di casette popolate da neri bimbi ignudi, da donnicciuole in iscuffiotto lungo e gonnella cortissima, da gatti spelati e cani rognosi.
In quell'ora era deserta la così detta birreria, sul cui nero banco umido di vino dominava un uomo - dalla grande faccia rossa tagliata da una linea gialla, i baffi, e punteggiata da due margheritine turchine, gli occhi, - vestito di pelle fulva puzzolente; e la farmacia, donde usciva un pestilenziale odore di droghe stantìe, non ancora era onorata dalla presenza del sindaco e del suo partito.
Dove dunque andare?
Stefano sentiva il cuore stretto al solo pensiero d'attraversare in quell'ora il paese; e restava a casa, e... suonava.
S'egli fosse stato un artista, o almeno un compositore, o almeno uno studioso, avrebbe trovato qualche sollievo nella musica; ma egli non era neppure un dilettante, e suonando solo per divagarsi metteva nel suo svago un riflesso delle sue passioni, tanto più violente e fugaci quanto più superficiali e improvvise.
Dopo due settimane in cui il lied del Tannhäuser, la vaporosa canzone alle stelle, il fresco e limpido canto del pastore inneggiante alla primavera, ebbero tratto tutti i gridi sonori e fini, e le gravi e melodiose voci dell'alto e del basso registro, pienando la casa e l'orto delle aspirazioni, dei desideri, delle rapide elevazioni e delle profonde tristezze di chi suonava, si annoiò anche dell'affascinante spartito, e lo abbandonò.
Per fortuna era di settembre, e, spentosi un po' di caldo e riaperta la caccia, poté riprendere il suo forte svago favorito: ogni sera, e spesso anche la mattina per tempissimo, Serafina sellava il cavallo, legandogli in groppa una piccola bisaccia rossa a bianchi fiorami, ricolma di provviste, vino e munizioni.
Il cavallo era un bellissimo ed elegante animale nero, di pelo lucente, con lunga e larga coda, la testa fina macchiata in fronte, sotto un ciuffo di morbidi crini, da una stella bianca: e bei denti forti e la schiena non ancor depressa dalla montatura ne dimostravano la giovinezza; i grandi occhi umidi e violacei e le piccole orecchie frementi rivelavano irrequieta fierezza di buona razza. Stefano, che possedeva nelle sue tanche cavalli e puledri, lo amava assai e preferiva, e andando a caccia con quello e coi cani favoriti, gli sembrava d'esser in lieta e amabile compagnia. Così mancava intere giornate, e talvolta non riportava nulla, ma rientrava a casa di buon umore, e Maria, dopo aver trascorse molte ore melanconiche, si rallegrava tutta.
Anch'ella s'annoiava sovente.
Dopo i primi due mesi di matrimonio aveva espresso il desiderio d'impiantare un telaio, o trasportar da casa sua quello che conteneva ancora interrotta la bella coperta bianca a rose rosse; ma Stefano, che per un tempo aveva ammirato e apprezzato l'umile patriarcale lavoro, s'oppose.
«Macché! Macché! Tu non hai bisogno di questi melanconici passatempi.»
«Il lavoro», osservò Maria, «non è un melanconico passatempo.»
«Lavori preadamitici, che diavolo! Lasciali stare alle dame pietrificate: o che! ti viene anche il desiderio di filare?»
«E perché no?»
Egli rise, stizzito in fondo e mortificato nei suoi moderni istinti aristocratici; ma siccome la luna di miele, grande, gialla, stillante dolcezze di latte e di pervinca, brillava ancora sul cielo tutto roseo, tutto costellato di baci, lo sposo fu soave per vincere il semplice capriccio della sposa. E le prese la testa fra le calde mani, e con grazia di lusinghe e di carezze, le disse:
«Ma tu ora sei una signora; tu sei donna Maria Arca! Donna Maria Arca! Tu sei una dama e non devi più filare né tessere altro che la tela d'oro della mia felicità, come la dama d'oro, che fila con fuso d'oro e tesse su telaio d'oro nelle grotte del monte».
Ella sorrise, e non le venne il pensiero che sua madre, pur essendo dama, filava e tesseva; e il telaio non infastidì l'eleganza di casa Arca.
Recandosi però nella sua antica dimora patriarcale, non resisteva alla tentazione d'aggiunger qualche trama alla bianca coperta fiorita di rose; ma tesseva segretamente, perché le vicine non s'accorgessero e Stefano non venisse a saperne.
Dopo tutto, le ore più belle della sua giornata, quando il marito andava a caccia o era di malumore, erano per lei le ore passate presso i genitori. Si ritrovava nel suo ambiente; e se nei salotti di casa Arca ella non era precisamente la dama sognata da Stefano, nella vecchia dimora paterna, nella rustica cucina, nel fresco orto ombroso animato dalla vita del molino, nella severa stanza da pranzo e nella stanza del telaio, ritornava ad esser la semplice e sincera creatura che Stefano Arca aveva improvvisamente amata.
Ella scendeva nell'orto, e negli scarsi meandri del ruscello, rivedendo navigar e sparire le larghe foglie verdi del noce e le lunghe foglie bianche dei pioppi, ritrovava la dolce melanconia che dava al suo volto una così soave espressione pensosa: rientrava nella cucina soleggiata, si sedeva davanti al focolare, e mentre donna Maurizia le preparava il caffè o la frollata, ella fissava il verdeggiante sfondo della porta, su cui, quasi in vago quadro, apparivano l'orto, gli alberi, il muro, e il viale giallo che portava al molino. Il vetro della porta aperta rifletteva il quadro con vanescente malìa: là dentro, il verde pareva più intenso, il sole più mite, il cielo più dolce: un sogno di inafferrabile dolcezza.
Mimìa veniva dall'orto, lentamente, aristocraticamente, attraversando il viale con passettini silenziosi, scuotendo ogni tanto le zampette che parevano calzate di velluto chiaro; e con lampeggiamenti di smeraldo nei grandi occhi verdi come due acini d'uva, saliva i gradini, entrava e leccava la scodella. Se qualche donnicciuola veniva allora per affari o per far della maldicenza, vedendo Maria in cucina, seduta presso zia Larenta che filava e la gattina che scuotendo la zampettina leccava la scodella, diceva fra sé:
"Oh, com'è affabile donna Maria Arca! Pare impossibile!".
Nella severa stanza da pranzo Maria s'indugiava a rimettere in ordine le stoviglie e la biancheria della guardaroba; e provava dispiacere se rinveniva qualche oggetto o guasto, o rotto, o semplicemente mal governato. Amava sempre ogni angolo ed ogni cosa della vecchia dimora, e talvolta si stupiva del suo affetto per questi umili e modesti oggetti, mentre della ricca mobilia elegante, degli arredi e della fine biancheria di casa Arca non aveva che superficiale conoscenza, e se ne scordava facilmente.
Lontana dalla ricca casa pisana, ella si sentiva estranea, e le camere eleganti le sembravano vuote e desolate; casa Arca non apparteneva più a nessuno; non a Silvestra che era fuggita, non a don Piane che aveva cessato d'amar il suo nido dopo che Stefano l'aveva trasformato, non a quest'ultimo che vi restava sì, ma tediato e senza amore, come uccello in nido di passaggio, non alle serve che vi spadroneggiavano, sì, ma come serve; non a lei infine che non era padrona, che non v'era amata e rispettata, che non ci aveva ancora provato quell'intima possessione, derivata dalla completa felicità che fa amare la casa e regnarvi dolcemente.
La casa pisana non apparteneva a nessuno: forse aspettava nella sposa la nuova padrona, ma ella era tuttora la semplice e modesta regina della vecchia casetta del molino; e il segreto pensiero tormentoso che la seguiva sotto i noci ed i pioppi dell'orto, e nelle brevi ore passate al telaio, nella grigia stanzetta tutta illuminata dal candore della coperta fiorita di rose, era questo:
"Qui forse Stefano mi avrebbe amata di più, come mi amava l'altro".
Più volte, nelle ore più tenere di confidenze amorose, egli stesso le aveva detto che, se l'avesse incontrata la prima volta in un diverso ambiente, o in campagna o in uno dei barocchi salotti del villaggio, o in chiesa o in casa di povera gente, forse non l'avrebbe così completamente ed esclusivamente amata, come l'aveva amata trovandola in quella semplice cornice antica, in quella stanza severa come arca mortuaria e serena come nido di rondine.
Ma usciti di là, l'incanto s'era rotto: ritornandovi, qualche volta, pareva che il buon fascino di amore riallacciasse i due sposi; e Maria ricordava la sera dal tramonto di Venere e della luna, ed altre notti ancora, quando, dopo esser stati nella vecchia casa, Stefano ridiventava tenero e appassionato.
Eppure, ella lo sapeva, egli non amava la suocera e nutriva appena un poco di simpatia per il soave e buon don Costantino; egli, amante di gente superiore che non parlasse di cose volgari e di piccolezze e di pettegolezzi, sentiva ripugnanza per gli ambienti poveri e semplici, popolati di persone ignoranti: perché dunque quella patriarcale dimora esercitava in lui uno special fascino che lo riallacciava alla sposa con l'ineffabile vincolo d'amore, cominciato nella limpida notte d'autunno tanto vicina eppur tanto lontana?
Maria non sapeva spiegarselo; ma benché Stefano fra sé la giudicasse poco intelligente, ella, senza spiegarselo, capiva il segreto fascino della vecchia casa paterna, e sempre cercava di attirarvi il marito; e spingendo la spola per intessere un nuovo filo alle rose della coperta, pensava:
"Qui forse egli avrebbe amato di più".


VI.

Una mattina d'autunno Serafina sellò il cavallo, legò alla sella la piccola bisaccia bianca a fiorami rossi, e salì per avvertire il padrone che tutto era pronto.
Nel salottino sentì don Stefano e la moglie in intimo colloquio, e naturalmente si fermò un momento ad origliare. «Se lo incontro lo frusto, come è vero Dio!», diceva il padrone sdegnosamente, andando di qua e di là per completare la sua toeletta da cacciatore, e facendo molto chiasso con le sue polacche gialle scricchiolanti.
«No, no, per carità, no, no...», ripeteva Maria, supplicando paurosa.
"Chi diavolo frusta?", pensò malignamente Serafina.
«Se lo incontro in un luogo deserto che nessuno ci veda, ti assicuro che gli faccio la festa...», disse Stefano, e aggiunse un energico aggettivo.
«No, no, che sciocco che sei...»
"Sciocco davvero!", pensò Serafina, "se volesse frustarlo potrebbe farlo più vicino di quel che crede."
Ma probabilmente ella si sbagliava sulla persona minacciata, perché cambiò fisonomia quando Stefano, ch'era entrato nella camera attigua, ritornò dicendo:
«Se viene ancora sua moglie gettala giù per le scale...».
«Ecco una cosa che non saprò fare!», rispose ridendo Maria.
"È Arcangelo Porri che frusta!", pensò la serva, e picchiò, dicendo: «Il cavallo è pronto».
«Addio, cara», disse Stefano alla moglie, sollevandosi per staccare il fucile dalla panoplia delle sue armi. Si mise ad armacollo il fucile e baciò Maria.
«A che ora sarai qui?»
«Non so. Farà una bella giornata. Addio, Maria.»
Ella lo accompagnò per le scale tenendogli la mano e pregandolo di non far sciocchezze; ma appena fuori del paese egli prese appunto la via che conduceva a Nuraghe ruju, la tanca ov'era l'ovile del Porri.
Scuotendo le piccole orecchie, inarcando elegantemente la coda, il cavallo trottava a testa alta; i tre cani, di cui due color caffèlatte, con occhi castani limpidissimi, si rincorrevano, mordicchiandosi per gioco, fiutando per terra e abbaiando: talvolta restavano indietro, si fermavano, infilavano sentieri diversi da quello percorso, e allora Stefano fermava il cavallo, fischiava e li richiamava.
«Tè, tè, Josto! Jostooo?... Va avanti, che diavolo? Non la finiremo più, oggi? Gelsomina? Tè, Gelsomina, tè, tè, psss, psssiii! Se smonto ti dò una pedata che ti tronco le reni.»
I cani ritornavano, s'aggiravano attorno al cavallo, rizzandosi sulle zampe; e visto il frustino del padrone sollevarsi con minaccia, ripigliavano la giocosa corsa in avanti, salvo a sbandarsi ancora dopo pochi istanti.
La giornata era splendida, il cielo purissimo, le lontananze così azzurre da confondersi col cielo. La fine e breve erba d'autunno stendeva lunghi tappeti di felpa verde nei lati ombrosi delle strade campestri, i cespugli soleggiati brillavano di rugiada, sui sassosi argini rivestiti di musco, fra cui stillavano freschi rivoletti d'acqua, qualche bianca margherita sfumata in violetto, qualche tralcio di vitalba dai bottoni verde-argento, tremavano vivificati da un invisibile soffio. Passava nell'aria un largo, indefinibile profumo di freschezza selvaggia e pura, un lontano fragore di torrente, qualche vago tintinnìo di greggi erranti, qualche nota canora d'uccello silvestre, distinta appena nell'intenso silenzio della solitudine che smorzava ogni suono.
Lasciatosi alle spalle il lontano profilo delle ultime case pietrose del villaggio, Stefano provò una piacevole sensazione fisica e morale.
Più che con l'intenzione di cacciar pernici o lepri, o scovare magari qualche cinghiale, egli quella mattina era partito col desiderio d'incontrare Arcangelo Porri e violentemente rimproverargli la sua viltà.
Il giorno prima la moglie del pastore, recatasi dagli Arca, aveva detto a Maria:
«Mi manda mio marito. Lei sa ch'è stato citato per testimonio; è andato a Nuoro e disse che Saturnino Chessa gli confidò una volta di voler uccidere don Carlo, buon'anima...».
«E chi l'aveva incaricato?»
«Questo, mio marito non l'ha detto. Dio ne scampi e liberi; se egli dice così è un uomo perduto...»
«Ma la verità?»
«La vita è prima della verità! Mio marito è padre di famiglia. Però...»
«Però?»
«Mio marito è nuovamente citato: l'hanno fatto citare loro?»
«Chi, noi? Nient'affatto. Ma sarà forse perché si farà il dibattimento in contumacia.»
Visibilmente spaventata, la donnicciuola si fece il segno della croce, mettendosi un po' di saliva sotto il mento.
«E mio marito dovrà giurare?»
«Infine!», proruppe Maria. «Che cosa siete venuta a dirmi, buona donna?»
«Che, a costo di perder l'anima, mio marito non può pregiudicare sé e la famiglia, se...»
«È una storia che sappiamo a memoria», disse Maria sdegnosa ed infastidita. «Ad ogni modo ne parlerò con mio marito. Ritornate domani.»
Ora, dopo il suo sdegno, galoppando attraverso la campagna autunnale, Stefano pensava:
"Dopo tutto, se quel vecchio diavolo avesse ragione?. Se si potesse pigliarlo con le buone, oppure se si potesse giocar d'astuzia con lui? Tè, Gelsomina, dove vai? Ohé, che c'è là?".
C'erano tre pernici su un pero selvatico, dietro un muro rovinato: fermò di botto il cavallo, smontò; e mentre i cani s'acquetavano fremendo, spianò il fucile, mirò con la testa bassa e un occhio chiuso, e sparò.
Due pernici volarono via, una cadde: il cavallo diede un balzo, i cani si slanciarono a coda ritta verso il muro, che sveltamente saltarono, e lo sparo si perdette in lontananza, echeggiando. Col fucile in mano, ed i piedi in un cespuglio d'erba bagnata, Stefano fermò il cavallo e stette ad aspettare.
Primo a ricomparir sul muro fu Josto, con in bocca la pernice dalle variopinte ali picchiettate di grigio scuro, bianco, nero, giallo cupo e color cannella, ancora spiegate, e il rosso becco aperto: il cane ritornò correndo, con occhi scintillanti, seguito dagli altri due cani, che a metà strada si fermarono, quasi umiliati dalla prodezza del compagno.
Stefano tolse la pernice, le piegò l'ali sul petto ferito ancor palpitante, e la gettò entro la bisaccia; e rimontò in sella, facendo camminar passo passo il cavallo, con la speranza che i cani scovassero altre pernici nelle macchie di bassi peri selvatici e di olivastri; ma per un buon tratto di strada, per quanto Josto fiutasse e frugasse, non si scorse altro volatile che qualche corvo perduto nelle azzurre trasparenze del cielo sereno.
Rasa e deserta la campagna; si susseguivano solo in lunghe linee d'un verde cupo e melanconico le scapigliate macchie degli olivastri, dei peri selvatici, dei rovi, schiarite qua e là da qualche verdissimo cespuglio di brusco: e così intenso ed esteso era il silenzio che l'eco dei passi del cavallo risuonava lontano.
Dopo un buon tratto di galoppo, Stefano mise capo nella regia strada che attraversava la bassa montagna al di là della quale erano le tancas di Nuraghe ruju. Sotto lo stradale scendeva rapida una valle, sul cui fondo scorreva un torrente, detto anch'esso di Nuraghe ruju perché una sciocca tradizione popolare affermava che quelle povere acque raccogliticcie scaturivano sotto il nuraghe del versante opposto e attraversavano tutto il seno della montagna per canali scavati dai giganti.
Percorso un tratto del pittoresco stradale, Stefano doveva salir la montagna; ma essendo forse le undici, volle prima scender e far colazione in un angolo soleggiato della sottostante china. Il luogo, l'ora, il cielo, il paesaggio, avevano qualche cosa di ineffabilmente dolce. Sotto ai piedi di Stefano scendevano per la china soleggiata vecchi ulivi nodosi, cespugli e macchie spioventi dalle roccie; e le fronde e le foglie brillavano smaltate d'argento. Quasi nero nell'ombra saliva in faccia a lui l'opposto versante della valle, sul cui orizzonte una fila di lentischi stendeva una frastagliata linea verde; negli sfondi pianure e montagne azzurre; al di sopra della sua testa la muraglia dello stradale, di pietra schistosa, scintillava al sole come acciaio brunito, e sulla linea del paracarri, sul fondo inenarrabilmente turchino del cielo, alcuni cespugli sfumavano guardando la valle. E sopra ogni cosa due grigi fili telegrafici solcavano nettamente l'aria, quasi vigilanti sull'insidioso sogno e le selvaggie solitudini della valle e della montagna deserta. Invisibile, il torrente correva incessantemente, roteando nello stretto alveo di pietra: e sul cupo sfondo della sua nota bassa e fragorosa, sempre monotonamente e melanconicamente eguale, risuonava, or distinta, ora sfumata, or vicina ed or lontana, l'acuta squilla d'una campana di chiesetta campestre.
Qualche festa doveva esserci dietro la valle, dietro la metallica linea degli ultimi lentischi; e in quell'ora, mentre le cavalle bianche e i sauri puledri nitrivano fra le macchie, le fanciulle dai grembiuli di damasco e i giovani dai giustacuori di porpora lasciavano il circolo dell'antico ballo sardo per entrare all'ultima messa; e le donne mature preparavano la minestra colla giuncata e gli uomini arrostivano i lombi degli arieti per l'omerico banchetto.
Stefano ebbe la visione della festa, che sotto la doppia appariscenza di quadro biblico e d'antica rappresentazione ellenica, celava un indomito spirito selvaggio; e sorridendo fra sé disse:
«Beviamo!».
Bevette, rovesciando la testa sotto la stretta bocca del fiaschetto di legno inciso, e sentì il vino scendergli fresco per la gola un po' arsa, poi spanderglisi caldo e vibrante per l'interno del petto; e la piacevole sensazione di benessere e d'ottimismo cominciata a provare poche ore prima crebbe e lo vinse tutto dolcemente.
I cani, scesi sino al fiume, risalirono correndo, ansando, e s'accovacciarono con la rossa lingua penzoloni; legato ad un ulivo, il cavallo strappava ciuffi d'erba.
Stefano si sdraiò sulla rada erba della china, e stette così, riscaldato internamente dal vino ed esternamente dal sole, immerso nella visione del cielo azzurro, nella musica dell'acqua e della campana, nella fragranza dei cespugli e delle erbe. Era un piacere: era ancora la voluttuosa sensazione delle sieste estive, ma goduta nel pieno possedimento e nel completo risveglio dei sensi; era anzi il senso stesso della vita, l'ineffabile piacere dell'esistenza sentita fra le sane visioni e le misteriose voci della Natura.
Era il continuo e sonoro stormire d'immense foreste, nella cui voce gemente prorompeva il grido d'un popolo intero, d'una solitaria razza inneggiante patetiche e selvaggie melodie, mescolate d'antiche preghiere e d'antiche maledizioni, di pianti sommessi e superbi e di risate dolcissime e sardoniche, - grido di guerra e grido d'amore che s'alzava verso idoli ignoti, verso occulti nemici, verso simboli strani, verso il Sole, la Luna, il Fuoco, il Ferro, la Passione e l'Odio; - era la voce della razza sarda, trasfusa nel fragore del torrente, simile al mormorar delle patrie selve da cui il popolo, discendente dagli Jolei, avea tratto il motivo triste e solenne delle sue musiche e dei suoi canti. E il sottile e metallico squillare, or vicino ed or lontano, della campana librata sul corroso portico della invisibile chiesetta campestre, ricamava su quel sonoro sfondo una trama di fili iridescenti, diafani e brillanti come tela di ragno, dando a sua volta l'illusione di tenere voci infantili, di gridi d'uccelli,
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