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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
I.
Un giorno d'autunno, ritornando da una caccia in palude, don Stefano Arca fu assalito da febbre così violenta che quasi batté la fronte sul lastrico del cortile quando, giunto a casa, smontò da cavallo. A stento si mise a letto. «Stene, Stene, cos'hai avuto?», gli chiese il vecchio padre, avvicinandosi a piccoli passi incerti, e chinandosi a mani giunte sul letto. Nel far con esile voce l'ansiosa domanda, la piccola persona del vecchio tremava. Stefano, con gli occhi chiusi e il volto grigio, non rispose; don Piane (1) restò a lungo davanti al letto, sempre più curvandosi, con le dita nodose intrecciate, e le pupille velate da una triste visione di morte. Dopo qualche istante si mosse; sempre con i passi incerti delle sue esili gambe che lasciavano vuoti e rigonfi sui ginocchi i pantaloni di panno nero lucente, attraverso la corsìa rossa e socchiuse gli sportelli del balcone. Una tenue e dolce penombra si diffuse subito per la camera; al disopra del rosso panneggio delle tende, su cui si contorceva una testa di drago color d'oro, tremò, stendendosi sul grigio soffitto, un ventaglio di luce a raggi bianchi, la cui striscia centrale s'avanzava soavemente fin sopra il letto di Stefano. E don Piane, tornando indietro e sedutosi su un'antica seggiola dall'alta spalliera a punta, s'affissò in quella striscia di luce e s'abbandonò al suo tormentoso pensiero. Già, quando egli si fissava una cosa in mente, fosse ragionevole o no, fosse per improvvisa o lenta intuizione, nessuno avrebbe potuto convincerlo del contrario. Era don Piane Arca una singolare figura di vecchio oltre l'ottantina; indossava un costume fra il paesano ed il signorile, con giubba e pantaloni di panno nero finissimo, corpetto accollato di velluto color bronzo-verdastro, adorno di una doppia fila di bottoncini d'argento brunito; portava la berretta sarda, ma piccola e corta come si usa in certi villaggi del Nuorese. Gli occhietti e la bocca sdentata gli sfuggivano entro le profonde rughe del viso incartapecorito e raso, privo di sopracciglia e circondato da lunghi riccioli serpentini di capelli d'un bianco metallico; e le piccole mani nodose, candide, solcate da grosse vene verdastre, tremavano sempre, facendo dondolare il rosario di madreperla bruna avvolto intorno all'esile polso. Sotto il gilè, che sembrava un giustacuore antico, don Piane celava una collana di medaglie, crocette, reliquie, scapolari e persino un frammento di vera croce, acquistato a prezzo di diamante dalla vedova di un bandito; pregava continuamente e faceva elemosine, ma del resto era avaro, caparbio, odioso, ancora circondato di nemici e d'inimicizie. Dopo aver preso tre mogli ricche e veduta sparire intorno a sé quasi tutta la sua generazione, aveva anche pianto il più giovane dei suoi ultimi figliuoli, Carlo, assassinato tre settimane dopo le sue nozze. Ora s'istruiva il processo, e gli Arca accusavano del delitto due pastori, di cui uno latitante, e come mandatore un certo Filippo Gonnesa, al quale era stata già negata la mano di sposa di Silvestra, ultima e sola figlia di don Piane; la quale dopo la morte del fratello si era fatta monaca di casa, rinchiudendosi in quattro stanzette edificate appositamente a fianco della casa paterna. Così a don Piane, perduti gli ultimi figliuoli, restava soltanto Stefano; ma, forte ancora di ciò, il vecchio sperava di viver fino a veder sterminati tutti i suoi nemici; e pregava la giustizia divina e aiutava la giustizia umana per l'adempimento delle sue vendette. Ma ora, pensando che anche Stefano poteva morire, un terrore profondo e un dolore violento e indicibile l'investivano: tutto l'universo gli rovinava d'intorno, accrescendo il buio del suo cervello già stanco. Pensava: "Se Stene muore io resto solo e assassineranno anche me! Già, quante volte non me l'hanno minacciato? E Silvestra mia? Assassineranno anche lei, povera colomba! E il processo come andrà? E i beni miei a chi resteranno? I beni, i beni miei?". Specialmente quest'ultima paura lo angustiava. Ma Stefano non morì, ed anzi, verso sera, riavendosi, rise nell'assistere ad una graziosa scenetta. Per non disturbarlo era stata accesa la lampada nell'attiguo salotto; quindi la luce entrava solo pel vano della porta spalancata, e, seduto in quella larga striscia di luce gialla, don Piane s'ostinava a voler vegliare il figliuolo, ché, nonostante le ampie e complete assicurazioni del medico, temeva sempre di vederlo morire da un momento all'altro. Quando Stefano cominciò a riaversi, entrò piano piano una domestica, animata dalla buona intenzione di condur via il vecchio. «Andiamo, don Piane», gli disse con tono persuasivo; e, chinandosi, volle afferrargli le mani per aiutarlo ad alzarsi. «Andiamo, via; vede che non è nulla: resterò io poi. È tardi; venga a cenare, poi ritornerà, se le fa piacere. Ma meglio sarebbe andare a letto, don Pià...» «Vattene!», impose il vecchio. «No, andiamo, don Pià...» «Vattene!», ripeté egli minaccioso, «vattene, figlia del diavolo!» E siccome l'altra insisteva, le diede due pugni sul volto reclinato; ella li evitò agilmente. «Ah, questo, don Piane, questo non lo dovete fare!», diss'ella, minacciandolo scherzosa come s'usa coi bimbi. Ed egli, rallegrandosi della sua prodezza, rise un risolino curioso ed ingenuo che lasciò finalmente scorgere la sua bocca vuota di bambino lattante. Fu allora che anche Stefano rise. Il vecchio si volse stupito e commosso, sembrandogli impossibile che suo figlio dovesse ridere ancora; poi si alzò, si sentì rinascere, fece portare il lume e si lasciò dolcemente condur via, sicuro che Stefano era risanato. Ma l'indomani e nei giorni seguenti la febbre perniciosa, sebbene benigna, continuò a tormentare il giovane; e una mattina si sparse persino la voce che egli stesse per morire. Quel giorno Maria, la cognata, benché sofferente anch'essa e dal suo lutto rigorosissimo costretta a vivere ritirata, si decise a visitare il malato. Maria era nobile, ma non ricca. Carlo Arca l'aveva sposata contro la volontà dei suoi, tanto più avidi di ricchezze, quanto più ne possedevano; e, se non odio, freddezza e disamore regnava fra gli Arca e la giovine vedova che mai cercavano e mai veniva a visitarli. Quando ella venne a visitare il cognato creduto moribondo, don Piane, che pur recitava il Rosario a Nostra Signora della Salute e a Nostra Signora della Misericordia, l'accolse con una visibile smorfia, e poco mancò che non le proibisse d'entrare dal malato. E anche Stefano non doveva essere poi molto aggravato, perché si sentì contrariato e chiuse gli occhi nel veder Maria. Ella però, sebbene per il suo gravissimo duolo assumesse un contegno rigido e duro, vedendo Stefano mal ridotto, si commosse. Per più d'un'ora tenne un'affettuosa compagnia al malato, lo distrasse, gli parlò amabilmente di cento piccole cose come se fossero stati sempre in ottima relazione; sicché egli, da prima infastidito e più sofferente in apparenza che in realtà, a poco a poco cominciò a sentir dolcezza per quella visita non attesa, né desiderata. Gli parve la miglior visita ricevuta in tutti quei giorni d'incubi tormentosi, e avrebbe voluto prolungarla; e quando Maria fu per andarsene le disse supplichevole: «Ritorna domani!». Ma ella non ritornò, perché dall'indomani appunto egli migliorò, uscì da ogni possibile pericolo ed entrò in convalescenza. Don Piane, fra le sue preghiere e i suoi scongiuri, per otto o dieci giorni ebbe di che mormorare della visita di Maria, facendone poco benevoli commenti con le domestiche e le persone che venivano a trovarlo: Stefano invece parve presto dimenticarsene. Egli trascorse una breve convalescenza, poi riprese le sue cavalcate e le sue caccie, spingendosi attraverso l'altipiano fino alle solitarie montagne d'Orune e di Lula; ma non si rimetteva mai perfettamente. Era di un umore triste ed inquietante; l'autunno gli pesava sul capo e sulla persona debole ancora; e ogni sera, a misura che svaniva la luce, i pensieri gli si annebbiavano, una vertigine cupa e pesante lo tormentava. La vita gli sembrava buia e desolata, e ogni abitudine, prima cara, lo infastidiva; ogni pensiero, che prima poteva essere stato dolce o piacevole, ora gli si mutava in misterioso tormento: gli pareva talvolta d'essere profondamente infelice e che in nessun luogo, in nessun uomo esistesse più la felicità; e sentiva gran compassione, mista a disprezzo, per tutte le persone e le cose. Spesso desiderava di morire; ma appena formulato questo desiderio se ne disgustava angosciosamente, e del resto, per quanto si sforzasse a immaginar la fine d'ogni sua vitalità, gli sembrava impossibile il poter morire ancor così giovane e forte. Ma appunto pensando alla vita, al tempo indeterminato che ancora gli restava da vivere, un'altra sorta di disgusto, meno angoscioso, ma più desolato, lo assaliva: era la noia e l'indifferenza profonda per ogni cosa, per il passato, il presente e l'avvenire; era l'orrenda domanda del poeta dei Fiori del male: Oggi, domani e posdomani ancora Viver dovrò?... In queste grigie ore di sconforto, più fisico che morale, Stefano vedeva attraverso un velo d'uggiosi vapori la sua vita trascorsa inutilmente, gli studi compiuti di mala voglia, l'esistenza brillante e vuota e viziosa di studente ricco, che di anno in anno aveva trascinato per le grandi Università del continente, il suo tedio, la sua nostalgia, la posa del suo scetticismo e la sincera nervosità di montanaro sardo, spostato in un ambiente ove non erano i soffi ardenti dei partiti nemici, le caccie vere ed ardite (non le irrisorie caccie alla volpe), le cavalcate, la prepotenza e la preponderanza della sua figura di primate da villaggio. Ma ora anche questa figura, le sue passioni violente, i viaggi, i selvaggi piaceri, tutta la vita strana condotta sino allora, ogni memoria in fine gli appariva disgustosa attraverso il fumoso velo che gli annebbiava il pensiero. E, oltre il disgusto, provava compassione per quanto lo circondava nella realtà, nei sogni e nei ricordi. La casa ch'egli stesso, al ritorno dagli studi, aveva fatto rimodernare e arredare con quel lusso chiassoso dei ricchi sardi, gli sembrava brutta e barocca; e dava ragione a don Piane che, borbottando contro le innovazioni, se ne stava sempre in cucina o sotto i portici del cortile. Cos'erano questi ninnoli, questi quadri, questi pezzi di stoffa per terra e per le finestre? Sciocchezze, sciocchezze... Eppure la casa degli Arca, che si ergeva sull'estremo limite del paese, era una bella costruzione pisana del secolo XIV, in pietra schistosa, a cui il tempo accresceva lo smalto bruno rossastro, scintillante al sole ed alla luna: sorgeva esile e forte, non priva di una certa eleganza antica, con piccole finestre bifore, dai nuovi davanzali di lavagna, munite di inferriata quelle del pian terreno; e con una gradinata rossastra che metteva alla porta di legno bianco lavorato. Dietro la casa si elevava un noce, la cui poderosa chioma pareva sovrastasse le cerule montagne dell'orizzonte: ad ovest si stendeva il grosso villaggio, steso al sole come un cane accidioso, dalle casette di schisto, intersecate da orti, ombreggiate da noci e da radi pioppi, le cui cime chiare rabbrividivano sull'azzurro denso dell'aria come ciuffi di piume grigie su esili canne di platino. Sempre magnifica era parsa a Stefano la posizione della sua casa, che godeva tutti i vantaggi della campagna e del villaggio, ben soleggiata e poco esposta alle curiosità dei vicini: ora invece lo infastidiva quella serena solitudine campestre, quell'abbondanza di luce, d'aria e di silenzio che lo circondava. Del resto meschina, noiosa e ridicola gli pareva la vita del natìo paese: ogni cosa, che prima lo interessava, ora gli causava strane sensazioni di compassione e d'indifferenza; i suoi compaesani, uomini ruvidi e bronzini, donnine baroccamente adorne di lunghe cuffie e di corte sottane orlate di panno verde, gli sembravano presso a poco tante povere bestiuole, talvolta innocue, tal'altra velenose. Ma neppur lontano, nelle grandi città, nell'alta vita dei felici e dei consapevoli, dei gentiluomini profumati e delle dame miniate e vestite di seta, neppure là scorgeva nulla di buono, di serio o di piacevole. Una suprema indifferenza poi lo assaliva se pensava ai suoi affari urgenti ed incalzanti, ai suoi cavalli, ai servi, ai cani, a quanto lo circondava. Eppure in certe dolci sere di quel melanconico autunno, costretto a starsene rinchiuso in casa con l'infinita tristezza che lo intorpidiva, desiderii misteriosi di cose ignote, introvabili, che l'annebbiato pensiero non riusciva a definire, gli davano come una ineffabile volontà di piangere. In una di quelle sere, vestito di nero, era sdraiato sulla bassa ottomana turchina del salottino attiguo alla camera da letto, e scorreva alcuni giornali posti sopra un tavolinetto di sughero traforato. La sua bella e fiera testa dai biondi capelli irti affondava dolcemente e spiccava sul velluto nero di un cuscino, lavoro e dono della figlia d'un suo parente accasato oltremare. Il cuscino era morbido e tiepido, e il velluto carezzava la nuca e la guancia di Stefano con la dolcezza d'una mano femminile. Egli vedeva i giornali e i caratteri attraverso una tenue nebbia giallastra; ciò che leggeva lo interessava, ma nonostante, la mano lasciava con stanca indifferenza cadere i fogli sul tappeto formato da una gran pelle bionda di cerva, orlata di scarlatto dentellato e adorna d'alte e ramose corna color bronzo. Sonnecchiava, sdraiato con eleganza sulla pelle, un bellissimo cane da caccia, nero, lucente, chiazzato sul dorso di larghe macchie lattee; al contatto dei fogli lasciati cader dal padrone, scuoteva un po' la larga coda morbida e provava un brivido che lasciava scorgere il lieve ondulamento delle vertebre. A un certo punto però i giornali cessarono di cadere e Josto poté dormire in pace, mentre il padrone che non leggeva più, cadeva nella tristezza de' suoi sogni indecifrabili, sul cui sfondo grigio passava, nube sottile, qualche pensiero distinto. Una notizia della città ove risiedeva il parente lontano, letta in fondo all'ultimo giornale, gli richiamava al pensiero la giovine nipote. I parenti e gli amici gliela assegnavano per isposa, non essendovi in paese alcun partito degno di lui. Egli, che non pensava ad ammogliarsi, non s'era mai fermato a considerare la proposta dei parenti e degli amici; ma in quella sera, in quell'istante di desideri anormali pensò con improvvisa dolcezza alla elegante fanciulla lontana e si domandò se l'avrebbe sposata. Gli parve di sì, e per questa improvvisa decisione volse un po' la guancia per sentir meglio la tiepida morbidezza del cuscino; allora più distinto e soave ebbe il desiderio di una mano giovane e delicata che, posandoglisi sull'ardente fronte, gliene assorbisse i torbidi umori. L'avrebbe forse risanato, o almeno gli avrebbe dato una dolcezza così profonda da farlo addormentare. Si sentiva solo, profondamente, desolatamente solo. La malattia aveva fugato anche il suo ultimo capriccio per una bella e facile paesana, il cui ricordo ora gli riusciva disgustoso. La sera avanzava con la triste dolcezza dei vesperi d'autunno. Dai limpidi vetri del balcone, attraverso le cortine arabescate, il cielo d'occidente, solcato da striscie rosse che sembravano strade tracciate in una cerula lontana pianura, gettava nel salotto una dolce luminosità d'oro pallido. A questo riflesso splendevano di luce rosso-dorata, sempre più dolce e morente, il pianoforte, le cornici dei quadri, i quadri stessi e gli angoli del pavimento a mosaico; un paesaggio ad olio, una pianura in autunno, dalle tinte secche, giallastre, senza figure né alberi, dal cielo diafano ed alto, s'animava, assumendo ombreggiature e lumeggiature indefinite che gli davano perfetta illusione di realtà. Fuori soffiava il vento, e il fremito sonoro del noce pareva la voce d'una intera foresta gemente al bacio triste dell'autunno; dietro le cortine, in una lontananza di sogno, le montagne melanconiche si profilavano di viola in quello sfondo di freddo crepuscolo. Una mosca dal corsetto diafano, che pareva un grano di frumento, dalle ali di velo nero, sfumate in verde ed in violetto, sbatteva contro i vetri con monotono mormorìo. La mosca moriva, moriva la luce, la natura, il giorno. Stefano sentiva una inenarrabile tristezza di agonia in tutte le cose che vedeva, e con gli occhi socchiusi, con tutta la persona abbandonata al dormiveglia d'un sogno melanconico, si lasciava tuttavia andare a tenerezze, a desideri, a rimpianti infiniti. E sopratutto lo vinceva la sensazione della sua grande solitudine. Suo padre non era che un'ombra, e spesso un'ombra molesta: egli lo amava, lo venerava per tutto ciò che il vecchio aveva sofferto, ma sentiva che spesso don Piane più che a confortarlo lo rattristava. Silvestra poi era come morta per lui e per il mondo. Improvvisamente ricordò l'ultima disgrazia domestica; la morte di Carlo: l'orrenda visione del sanguinoso avvenimento gli passò nitida e triste nella memoria, dando una leggera contrazione nervosa al pallido volto già composto come a sonno nel momentaneo riposo. Per liberarsi dall'improvviso amaro ricordo riaprì gli occhi, e subitamente pensò a Maria, malata per il terrore e il dolore della morte di Carlo. «Donna Maria sta molto male.» Da chi, quel giorno stesso, Stefano aveva sentito queste parole? Forse da qualche domestico; non ricordava bene; ma ricordò la visita della cognata e la soavità provata; in un impulso di tardiva riconoscenza desiderò di restituire l'atto pietoso. Non avendo mai varcato la soglia della casa di Maria, dapprima egli si domandò un po' ironicamente: "Cosa ne penserà donna Maurizia? E mio padre?...". Ma a poco a poco lo strano desiderio lo riprese, e gli parve naturale, anzi doveroso soddisfarlo. Che gli importava del giudizio dei parenti? Nel cerchio della sua indifferenza per il passato parve sfumare anche il puntiglioso e sciocco disamore per Maria: restò solo la sensazione buona della visita, e: "Andrò assolutamente", disse una voce interna con insolita energia. Cosa dunque accadeva? Nel periodo strano che attraversava, Stefano non aveva desideri definiti; perché dunque questa volta il desiderio di visitar Maria gli si fissava energicamente in testa? Si rizzò a sedere, e nel movimento che fece destò il cane che stirò una zampa in avanti, scosse la testa e sbadigliò con un leggiero guaito, mostrando i bianchi denti e la grossa lingua color rosa. Poi sollevò gli occhi e fissò Stefano in volto. Spirava tanto intelligente affetto dallo sguardo di Josto, che il padrone sentì improvvisamente rinascere l'affetto per il fedele compagno delle sue caccie, che durante la malattia l'aveva vegliato assiduamente; e chinandosi gli accarezzò il dorso nero e gli tirò lievemente le larghe orecchie. «Josto, povero Josto!», disse piano, piano, con voce un po' rauca. «E i tuoi compagni dove sono?» Lietissimo, il cane scodinzolò e gli pose le zampe sulle ginocchia; egli gli carezzò la testa, poi si alzò e si diede a passeggiare lentamente per il salotto. La luce diventava sempre più tenue e dorata; il vento cessava col cader della sera, e, circondato dal suo fruscìo lieve e monotono, l'ambiente del salotto si rendeva ancor più intimo, più raccolto e soave. Stefano rialzò le cortine e guardò fuori. Il balcone dava sugli orti, pieni di silenzio e di vaga tristezza; al di là i prati ondulati sfumavano nella soave luminosità del crepuscolo, e gli alberi semispogli si disegnavano rossi e vanescenti sullo sfondo delle lontane montagne. Sopra un'altura rocciosa, fra roveti e macchie, una chiesetta campestre, da quel fondo di cielo cremisino guardava con infinita dolcezza sul piano arato. Tenendo sempre stretta la cortina entro la bianca, scarna mano, Stefano sentì anche dentro di sé la dolcezza triste e ineffabile delle cose crepuscolari. Dunque i suoi sentimenti, le sue sensazioni rinascevano? Ebbe persino desiderio di aprire il cembalo, che non toccava da tre mesi; un tintinnìo di capre che tornavano dai pascoli, gli ricordava una sinfonia di Meyerbeer (2), nella quale risuona una caratteristica melodia di leoneddas o pifferi sardi. Fu spinta la porta e apparve la bella testa di Serafina avvolta in una benda color di miele. «C'è il suo compare Arcangelo Porri», disse la domestica con voce sommessa, senza avanzare. «Fallo salire qui», rispose il padrone. Mettendo timidamente i grossi piedi ferrati sul tappeto della porta, di lì a poco entrò un paesano altissimo, dalla smisurata faccia color di lievito macchiata di rosso, con un'ibrida e lunga barba a ciocche in parte nere, in parte color pelo di volpe. «Come sta, compare don Istene? Buona sera!», disse avanzandosi. Stefano stese freddamente la mano; il Porri gliela strinse goffamente, e scuotendolo tutto esclamò: «Sono contento che sia guarito, Dio la guardi! Ho veduto don Piane: sembra un giovane di quindici anni, Dio lo conservi!». «Sedetevi», disse Stefano; e richiamò Serafina perché accendesse un lume. La bella fantesca depose sul tavolino di sughero un'antica lampada ad olio d'ulivo, d'argento arabescato e adorna di catenelle: Stefano sedette sull'ottomana, e con le palpebre basse, fissandosi le mani intrecciate, ascoltò pazientemente il lungo discorso del Porri, che si lamentava della cattiva annata e di cento altri malanni. Alla fine, avendo Stefano rialzato gli occhi come per dire: «Basta!» il paesano trasse di tasca una borsa di cuoio nero e ne aprì un'altra di cuoio giallo ricamata e attaccata alla sua cintura. Frugandovi lungamente dentro, a testa china, da quest'ultima borsa trasse un pacchetto di biglietti di banca, quasi tutti laceri e sporchi: poi dalla borsa nera vuotò un mucchietto di monetine d'argento e di rame. E si mise a contarle, mentre Stefano guardava tranquillamente il movimento di quelle grosse mani, livide alla bionda luce della lampada. Il Porri teneva in affitto una immensa tanca degli Arca, che subaffittava ad altri pastori, e veniva a pagarne il prezzo semestrale, scaduto fin dall'ultimo giorno di settembre. Siccome egli contava e ricontava sotto voce, imbrogliandosi maledettamente e ricominciando ogni tanto, Stefano cominciò a impazientirsi. «Lasciate fare a me!», disse, tendendo le mani; e sotto gli attenti occhi del pastore contò spigliatamente e con noncuranza il denaro, gettando le monete sui biglietti, che in breve ne furono ricoperti. «Mille», disse fermandoli e guardando Arcangelo come per chiedergli: "e le altre cinquecento?". «Sicuro», rispose il pastore con disinvoltura, «sono duecento scudi, o non è così? Il resto? eh, il resto quando lo busco: il più presto possibile. Che ella, don compare, possa vedermi cieco se ho potuto raccogliere altro... e quest'anno ci rimetto il collo, lo sa...» E ricominciò a lamentarsi. «Ma, diavolo!», disse Stefano, «noi pure dobbiamo pagare le imposte, lo sapete bene! Ho avuto tanta pazienza!» «Sì, lo riconosco e la ringrazio: ma, com'è vero Cristo, non ho potuto trovar altro! Cioè, sì, se ne avessi voluto, eh, ma...» Un sorriso misterioso gli sfiorò il volto bluastro. Abbassò la voce e disse che i Gonnesa gli volevano dar mille lire per deporre il falso nel processo dell'assassinio di Carlo Arca. Stefano ebbe negli occhi un lampo d'ira, ma subito capì che il compare mentiva. Perché mentiva? Lo comprese dalle parole del pastore: «Io non sono teste, non ci risulterò, ma se risulterò, dirò la verità, magari caschi il mondo e apparisca Gesù Cristo a piedi in terra! Eh, Arcangelo Porri non si vende per duecento scudi, e neppure per trecento, e neppure per tutto il denaro di questo mondo e dell'altro!». Stefano aggrottò le sopracciglia, quelle energiche sopracciglia color di corvo che facevano un sì vago contrasto sul suo volto di bimbo, e domandò: «E cosa sapete voi?». Dopo qualche riluttanza Arcangelo rivelò il segreto: Saturnino Chessa, il bandito processato, gli aveva un giorno confidato che i Gonnesa volevano incaricarlo di dare una archibugiata a don Carlo Arca. Stefano capì che ciò era perfettamente falso; tuttavia si mostrò interessato e disse gravemente: «E perché non ne parlaste prima? Ne terrò parola con mio padre». «Don Piane lo sa; ne parlavamo poco fa; anzi», aggiunse il Porri con disinvoltura, «mi disse che in tal caso potevo dire tutto e che, visto i danni che potevo soffrirne, mi avrebbe lasciato ancora un po' di tempo per il resto del fitto...» «Ha detto questo mio padre?...», domandò vivamente Stefano, fissando il Porri. «Sicuro che l'ha detto!» «Allora ne parlerò anche con mia cognata Maria. Sta bene!» Arcangelo Porri capì che non c'era altro da fare, e se n'andò sicuro del fatto suo. In fondo Stefano provò un violento disgusto contro quest'uomo che voleva deporre il falso e vender l'anima per cento scudi; ma per togliersi ogni scrupolo pensò: "Dopo tutto è affar suo; e poi chissà? può essere anche vero...". Depose il denaro entro un cestino di asfodelo ed ebbe piacere di aver una scusa per recarsi da Maria. Dopo cena infatti, nonostante le proteste di don Piane che, circondato da cani e gatti, stava pregando davanti al camino acceso, Stefano indossò un soprabito invernale foderato di pelliccia, mise la rivoltella in tasca, un pugno di ferro nell'altra, e uscì. Sulle prime sentì un po' di freddo, ma ben presto, camminando con passo rapido e svelto, si riscaldò. Il vento era del tutto cessato; grandi striscie di nuvolette bianche si stendevano a ventaglio sul cielo chiaro, d'un azzurro d'oltremare; pareva una immensa raggiera di argento filogranato che attendesse la luna per incoronarla. E la luna piena spuntava sopra una lontana e immobile linea di alberi neri, in una zona purissima di cielo chiaro come l'acqua d'un fiume. Dapprima apparve un diamante sulla cima d'una quercia, poi brillò un fuoco d'argento e tutta l'immobile linea della lontana foresta parve incendiarsi, ma d'un freddo e bianco incendio, al cui riflesso la raggiera delle nuvole cominciò a impallidire e dissolversi. Stefano guardava, fermatosi quasi suo malgrado, sulla piazzetta della chiesa: le pietre dei paracarri dello stradale che attraversava il paese scintillavano ai primi riflessi lunari: un cane tigrato e melanconico contemplava la sorgente luna e abbaiava lamentosamente; altri cani rispondevano in lontananza e niun altro rumore saliva dal villaggio già addormentato. Stefano riprese la strada e, per giungere più presto alla casa di Maria situata all'opposta estremità del paese, prese a percorrere lunghi viottoli stretti, oscuri e ripidi, fiancheggiati da miserabili casette di pietra; qualche raggio di luce gialla sfuggiva da piccole finestre di legno tarlato e dalle fessure di porticine mal connesse, ma non si scorgeva un'anima, e il gran disco d'oro della luna saliente sul cristallo del cielo illuminava a poco a poco e con infinita tristezza i vecchi tetti di tegole sarde rôse e arrugginite dal tempo. Uscito dalla sua casa relativamente sontuosa, nel tepore del suo elegante soprabito grigio, foderato di martora, Stefano sentiva la tristezza misera di quelle viuzze, che conosceva pietra per pietra. Arrivato picchiò con leggera trepidanza la porta d'una vecchia casa di buona apparenza ove abitava Maria, la cui famiglia viveva sulla rendita del molino e dei circostanti orti. Riconoscendo il giovane, la vecchia domestica che aprì con circospezione la porta, si spaventò e fu per farsi il segno della croce e gridare: "Cos'è accaduto?". Ma egli se ne accorse e disse, sorridendo: «Non vi spaventate, zia Larenta (3): buona notte. Sono venuto per vedere come sta Maria: ci hanno detto che stava un po' male». «Non è vero, grazie a Dio! Chi ha detto questa bugia? Ma guardi come vanno a spaventare la gente; perché certamente le loro signorie si saranno spaventate!» Pensava precisamente il contrario l'astuta donna; ma era tutta commossa, e, fatto entrare con premura l'insolito visitatore, si mise, contro la sua abitudine, a camminare rapidamente, gridando: «Donna Maria? Donna Maria?». Stefano la seguì, osservando con curiosità intorno: attraversarono un andito, poi una stanza tutta occupata da un antico telaio latino da tessere, nel quale il giovane intravide un lavoro già inoltrato, una coperta da letto, a fondo bianco ed a rose rosse, intessuta da soli ritagli di stoffa candidi e porpurei. Senza dubbio era quello un lavoro di Maria, ed egli pensò ai lavori frivoli e leggeri della sua elegante nipote e delle signore di città: arrivato in fondo alla stanza si voltò, sembrandogli di scorgere una muta e triste figura china sull'antico telaio. Zia Larenta lo lasciò nell'attigua stanza, non meno caratteristica della prima, arredata da grandi guardaroba di legno oscuro, bizzarramente incisi, da un divano di legno bianco fornito di cuscini e adorno di un volante di percalle rosso, da sedie di paglia e d'alti sgabelli antichi a due piedi. Sulle pareti un po' gialle, una fila di quadretti sacri; per terra un braciere ricolmo di brage velate di cenere bianca; sul tavolo la fiamma di una lucerna di vetro ad olio d'olivo metteva in piena luce un cofanetto d'asfodelo pieno di lavori femminili, un giornale spiegato e una piccola Imitazione di Cristo con un nastro nero per segnalibro, e illuminava le scialbe pareti; ma sul pavimento si allargava l'ombra del tavolo con quella del cofanetto da lavoro. Stefano capì di trovarsi in una stanza da pranzo, ma, benché la rassomigliasse a tante altre stanze del villaggio, si sentì subito qualche cosa d'insolito; una gran pace e una grande innocenza, velate da rigidità mistica e dolorosa. E guardò avidamente ogni cosa, cercando la causa che dava quella speciale fragranza all'ambiente; poi si sedette stanco su uno sgabello e, per la corsa fatta, per il fresco sentito fuori e per il tepore del fuoco che ora lo avvolgeva, provò un lieve, ma doloroso peso al capo; le tempia gli batterono e una leggera vertigine sonnolenta ricominciò a offuscargli lo sguardo. Tuttavia, quando Maria entrò, visibilmente sorpresa e spaventata per la strana visita, egli nitidamente percepì in lei la causa del mistico e melanconico raccoglimento della vecchia casa patriarcale: s'avvide anche del turbamento della cognata e sorrise, ma quasi inconsapevolmente, come si sorride sognando. «Buona sera: ti sei forse meravigliata?», chiese alzandosi. «Sicuro!», diss'ella francamente. «È una cosa insolita. E tu come stai? E come sta... tuo padre?» (Non sapeva con qual nome chiamare il suocero.) «Non c'è male, anzi sta bene, lui: io però non sono ristabilito del tutto. Ma mi dissero che tu pure stavi un po' male, e sono venuto per questo ed anche per un affare...» Pronunziò queste ultime parole in modo da lasciar capire di essere venuto più per l'affare che per altro; e Maria provò lieve puntura, ma pregò gentilmente: «Siediti!». Ella sedette sul divano, in piena luce, ed egli, guardandola curiosamente, quasi non l'avesse mai veduta, riprese posto sullo sgabello, allargandosi il colletto del soprabito, sulla cui pelliccia il suo volto appariva più smorto e affilato del solito. «L'affare dunque è questo e va così...», cominciò; e parlò del nuovo e importante testimonio che s'offriva contro il Gonnesa. Maria s'interessava assai del processo, e quindi ascoltò attentamente, col gomito poggiato sul tavolo e un dito affondato sulla guancia destra; mentre Stefano, che socchiudeva gli occhi per la luce vicina della lucerna, parlando, non cessava di fissarla in volto. Un volto straordinariamente caratteristico, di un bel tipo sardo-saraceno dal fine profilo, leggermente aquilino, gli occhi lunghi ed oscuri, quasi obliqui e socchiusi per lieve miopìa e la bocca grande, ma d'un taglio perfetto. I neri e lucenti capelli rialzati sulla breve fronte lasciavano scorgere le così dette sette punte delle capigliature, che dànno un ammirabile contorno al viso femminile; ma le cose che più colpivano Stefano erano un neo nell'angolo dell'occhio sinistro, e la bocca, quella bocca misteriosa, di cui ogni moto era un'espressione. Il labbro superiore un po' rialzato dava al bianco e delicato volto una fisionomia lieta e infantile; ma il labbro inferiore, spaccato nel mezzo, rivelava con la sua linea pura e raccolta un'amarezza segreta e continua, un dolore senza nome e senza confine, una tristezza che dominava anche nel più sincero sorriso. Del resto Maria sorrideva poco, e il sorriso, breve e dolce, le moriva improvvisamente. Stefano osservandola sentiva una profonda impressione. Cosa mai era stato il dolore suo e di don Piane in confronto a quello ineffabile e incessante di Maria? A un certo punto calcolò lo spasimo che doveva aver provato la giovanissima sposa nel vedersi ucciso il suo adorato pochi giorni dopo le nozze contrastate, e provò un terrore. Allora, improvvisamente, ebbe la percezione della piccolezza, della bassezza dei sentimenti suoi e del padre contro Maria, e lo investì un'ondata di gelo e di vergogna. E vergogna sentì anche per non aver potuto confessare il vero e delicato motivo della sua visita. Intanto la conversazione proseguiva piana e cordiale; ma ad un tratto Maria disse con semplicità: «Io credo che il Porri dica il falso. Gli avete forse promesso qualche cosa voi, tu o tuo padre? Ha la vostra tanca di Nuraghe ruju in affitto...». Stefano, che poche ore prima riteneva la cognata capace di tutto per vendicare il marito, ora ebbe scrupolo di palesarle ogni cosa e disse: «Non credo sia falso: almeno noi non gli abbiamo promesso nulla...». «Io credo sia falso invece!», ripeté ella più convinta. «Sarebbe meglio lasciarlo stare; non è un tipo che mi va.» «Neanche a me; ma parlane con tua madre tuttavia...» Il padre di lei contava poco: in casa faceva e disfaceva tutto la madre, donna Maurizia, un altro tipo caparbio e ostinato, sulla cui fisionomia maschile non mancava neppure un paio di baffetti neri. Quella sera aveva malamente permesso a Maria di ricevere il cognato, ma, ardendo di curiosità, aveva mandato zia Larenta ad origliare. «Ne parlerò», disse Maria, chinando gli occhi. Stefano capì che era impossibile violentarle la coscienza e tacque senza insistere oltre. La sua visita così pareva finita, e, credendo ch'egli non s'indugiasse più, ella s'alzò e volle offrirgli il rituale bicchiere di vino. Ma egli protestò e: «Non bevo; grazie: mi fa male», disse, respingendo dolcemente il bicchiere non ancora empito. Ella parve mortificata nel veder respinto il segno della buona ospitalità; ma tosto ebbe una idea, e, tornando verso il guardaroba, ne estrasse una bottiglia a forma d'anfora. «Bevi», disse, chinandosi sulla tavola, «è moscato di cinque anni, dolce come il miele. Questo fa bene.» E, sorridente, con l'alta persona snella, curva davanti a Stefano, versò nel calice il vino color d'oro e trasparente come ambra. «Basta!», esclamò egli, prendendo il calice; e, sollevandolo, lo urtò contro la bocca della bottiglia. Egli alzò ancora più il calice, seguendolo con gli occhi, poi lo avvicinò alle labbra e, incontrando lo sguardo di Maria, sorrise e bevé. Bevé e non pensò ad andarsene: bevé troppo, mescendosi egli stesso il vino, e ogni volta che sollevava il bicchiere lo guardava attraverso la luce, quasi cercando nella dorata trasparenza del fragrante moscato una luminosa visione, forse la realtà di quegli archi di perla gialla, di quelle tremolanti gallerie di cristallo e d'oro, di quegli atrî splendenti che conducevano a un incantato palazzo di ágata, che il riverbero del lume produceva sulle sfaccettature del calice. Non sapendo cosa altro dire, domandò con insistenza a Maria come ella stesse e cosa facesse durante la giornata. «Così!», esclamò essa un po' stupita. «Ora sto meglio; anzi sto bene.» Ma Stefano capì ch'ella diceva così solo per bontà, per non dare sfogo a vani lamenti, e, pensando al ruvido e monotono ambiente in cui ella viveva, ne sentì compassione e disgusto: egli vi sarebbe morto di melanconia; ella invece, delicata e debole, non solo ci viveva rinchiusa come una monaca, circondata d'usi funebri, quasi barbari e inesorabili, ma con la sua bontà illuminava e raddolciva tutta la casa. Come mai ciò? Ella dolcemente glielo spiegò. Tesseva, lavorava, pregava e taceva. Ed egli pensò a chi sa quali invisibili, tormentosi fili di tristezza, di sogni morti, di dolori fisici e morali, di ricordi il cui miele si cangiava in assenzio, di disperazioni immense e vuote come l'infinito, che certo seguivano la trama della bianca coperta stesa sul telaio. Quante lagrime bagnavano il cuore di quelle rose vermiglie, e quale ineffabile fragranza di dolore le rose così irrorate esalavano? Eppure non una parola d'odio, di vendetta o di ribellione usciva dalle dolci labbra che serbavano il ricordo struggente dei baci e dei singhiozzi; una rassegnazione profonda spirava nell'armoniosa e stanca voce di lei. Ora finalmente Stefano capiva ciò che esprimevano e cercavano gli occhi e le labbra della delicata creatura, a cui le più intense gioie e i più grandi dolori della vita avevano sfiorato e amareggiato il cuore senza però toglierle la purezza e la fede. Esprimevano un profondo mistero di forza e di bontà, e cercavano un punto ignoto, perduto in regioni invisibili ad occhi profani. Da più d'un'ora egli sedeva davanti alla tavola, su cui erano aperti i pallidi fogli dell'Imitazione di Cristo, e ancora non pensava ad andarsene; anzi, ogni tanto, continuava a versarsi un po' di quel vino color miele ed a cercarvi, dentro ed attraverso, qualche cosa indefinita ed ammaliante. Maria lo guardava con un po' di inquietudine, e avrebbe voluto dirgli: «Bada che ti fa male»; ma non osava. Lentamente i pensieri di Stefano si velavano, e un torpore caldo, serenamente dolce, gli serpeggiava per le vene: una dolcezza mai provata lo vinceva, ridonandogli l'ineffabile e puro desiderio di sentire sul volto una soave carezza femminile. Ma era da Maria che ora distintamente desiderava questa carezza, e guardandole le mani lunghe e bianche, sentiva le sue rallentarglisi dolcemente stanche e calde sulla pelliccia delle falde rivoltate del soprabito. Avrebbe voluto afferrare le mani di lei e portarsele al volto, e poi stringerle fra le sue e lasciarle così unite per sempre, fino a morir di dolcezza nel tepore di quella stanza, che spirava tutta la pace severa ed eterna d'un'arca mortuaria. Ma non si muoveva, sebbene questa strana felicità gli sembrasse facile a raggiungersi. La realtà gli sfuggiva: il fratello morto, il cui ricordo dava tanto fascino al dolore di Maria e don Piane con le sue domestiche e i suoi gatti e i suoi odî e le sue preghiere e le vicende del passato e le cure del presente, tutto gli sembrava una lontana e inafferrabile ombra. Solo Maria egli vedeva, e gli pareva che la figura di lei basterebbe d'ora innanzi a colmare tutto il suo passato, il presente e l'avvenire. Ella intanto, inconscia dell'improvvisa passione che destava, continuava a guardarlo serenamente, col mento poggiato sulla mano chiusa e il gomito sulla tavola; ma gli occhi le si cerchiavano, la voce le si faceva sempre più languida e il volto le diveniva così pallido che pareva d'alabastro. Ella si sentiva mancare per l'ora tarda e per la stanchezza dei troppo prolungati discorsi. Stefano non capiva ancora che oramai la sua visita riusciva importuna, e solo quando vide la piccola anfora mostrare tutto il bianco colore del cristallo, decise d'andarsene. «Com'è tardi!», disse alzandosi e guardando Maria. «Tu sei stanca.» «No», rispose ella; ma aveva gli occhi velati di sonno e di febbre. «Addio, Maria, buona notte!» Le prese la mano, gliela strinse forte; non si muoveva. Che voleva? Maria gli vide negli occhi, eguali a quelli del morto, lo stesso raggio di profonda luce che avevano i cari occhi spenti allorché nelle più intime ore di passione le davano e chiedevano tutta l'anima con lo sguardo. «Addio!», rispose con voce sommessa. Accompagnò Stefano fino alla porta, ed egli, invece di andarsene subito, si fermò sulla soglia, nel vano bianco di luna, e riprendendole la mano le ripeté con la stessa tenace stretta, col medesimo sguardo profondo: «Addio, Maria». Non solo nello sguardo, ma anche nella voce e nel tepore della stretta appassionata, ora ella trovò qualche cosa del morto e del suo amore: e rientrò tremando. Fatti pochi passi, Stefano si fermò stupito e incantato sullo stradale: la luna alta e purissima illuminava gli orti e il fiumicello; l'acqua glauca scintillava sotto i chiari pioppi vanescenti e scorreva nel silenzio lunare cantando, cantando dolcissimamente. "Domani ritornerò", disse Stefano fra sé, guardando con un pazzo desiderio il cielo, quasi invocando l'alba lontana; e rimase a lungo così, davanti ai grigi pioppi sfumati nelle trasparenze lunari, sopra il ruscello corrente, che nella sua monotona melodia forse cantava: "Don Stene, don Stene, ritiratevi, svegliatevi! la notte è limpida, ma fredda e insidiosa; dal cielo di platino stillano le gemme velenose della brina e qualche vostro nemico può passare! Chi sa se domani potrete levarvi con l'alba, chi sa se domani potrete ritornare!...". II Il ruscello non mentiva. L'indomani mattina per tempissimo Serafina batté alla porta di donna Maurizia; siccome nessuno apriva, la domestica spinse con insolenza la porta ed entrò nell'andito, ov'era un acuto e grato odore di caffè bollente. «Donna Maria? Donna Maria?», gridò la bella ragazza, che nella serena frescura del mattino aveva il volto d'un color di pesca. La voce echeggiò sonoramente per l'andito; un gattino grigio dai grandi occhi verdi e diafani come due acini d'uva, sporse le orecchie frementi dall'uscio a mano sinistra, ma appena vide Serafina fuggì e si nascose vigliaccamente sotto il telaio. "Son tutti morti!", pensò la ragazza avanzando. Tutti gli usci erano aperti, ed ella, dopo aver curiosamente messo la testa entro la stanza del telaio, infilò la porta di faccia e si trovò nella cucina. Una caffettiera bolliva sui carboni accesi di un fornello; da un'altra porta spalancata si scorgeva l'orto verde, fresco e luminoso. Serafina fece un giro intorno a se stessa, esaminando ogni cosa, poi credette bene di chiamare nuovamente: «Donna Maria? Donna Maria?». Il bel gattino grigio, tornato cautamente sull'uscio dell'andito, scappò di nuovo, e donna Maurizia comparve sulla porta dell'orto. Era una donna sulla cinquantina, alta, pallidissima, con due formidabili occhi turchini sormontati dal minaccioso arco delle foltissime sopracciglia nere, e con il labbro superiore peloso come quello di un adolescente. «Cosa vuoi?», domandò con arroganza. «Dov'è donna Maria?», disse la domestica con non meno insolenza. E intanto si scambiarono uno sguardo di sfida e di curiosità. «È ancora a letto», rispose donna Maurizia, togliendo la caffettiera dal fuoco, «se vuoi vederla torna più tardi.» «Non posso tornare. Le dica lei che don Stene stanotte è ricaduto malato, che ora è a letto e sta male, e mi ha mandato perché desidera assolutamente che donna Maria venga in casa nostra.» "In casa tua! un corno! tu non hai né casa né vicinato!", le rispose mentalmente donna Maurizia. «Perché deve venire?», chiese a voce alta ed irosa. «Ne so molto io!», disse l'altra, guardando sfacciatamente nell'orto. «E zia Larenta? È al mulino?» «Maria è a letto», ripeté con sussiego donna Maurizia, senza badare alle ultime domande. «Quando si leverà glielo dirò.» «Non se ne dimentichi. Il padrone vuol vederla e presto.» «Presto o tardi!», esclamò l'altra con sprezzo; e siccome Serafina, sporgendosi sulla porta, guardava sempre verso il molino, fu per scacciarla col manico della scopa, tant'ira e disprezzo ne provava. «E zia Larenta?», ripeté la ragazza. Nessuna risposta. «È al molino? Ah, sì, eccola là!» E salutò con la mano. «Se mi permette scendo laggiù.» Siccome il permesso tardava, la ragazza prese improvvisamente il piccolo viale che conduceva al molino, e andò laggiù con la scusa di salutar zia Larenta; ma in realtà per veder la gente che recava il grano da macinare. Donna Maurizia le imprecò dietro a voce sommessa; poi guardò intorno, caso mai mancasse qualche oggetto, pur sapendo di malignare, e si domandò quale altro accidente fosse capitato a Stefano. "Chi sa che voglia morire e chiami Maria per combinare sul testamento da far eseguire a quel vecchio pazzo di don Piane!" Rasserenata da questa pietosa speranza cominciò a preparar lo spirito d'uovo (4) per Maria, mentre il caffè stillava a goccia a goccia entro la macchinetta di latta rosseggiante per il riflesso del fuoco. Preso un uovo dall'armadio e guardatolo attraverso la luce, lo batté sull'orlo di una scodella, e versato in questa il tuorlo, lasciò l'albo entro la metà del guscio, che adagiò contro una chicchera. Strinse poi la scodella fra le ginocchia, versò molto zucchero sul tuorlo dorato e cominciò a sbatter il tutto con un fuso, girandone il cannello fra le palme delle mani inumidite di saliva. Al noto, sebben lieve romore, accorse soltanto il gattino, e con la coda dritta venne a fregar la testina sulle sottane di donna Maurizia. «Lasciami in pace, Mimìa», disse ella; ma la bestiola le mise le zampette sulle ginocchia e così ritta sollevò i grandi occhi verdi e sbadigliò mostrando la linguetta rosea. «E cosa vuoi ora? Aspetta che ti darò da leccare il fuso.» Ma Mimìa voleva di più, e cercò di ficcare entro la scodella i lunghi baffi argentei. «Questo poi no! Va via!», gridò donna Maurizia; e il gattino, visto inutile ogni tentativo, con le unghie le tirò fortemente la sottana, poi s'accomodò elegantemente sul pavimento, a coda tesa, aspettando e seguendo con gli occhi il movimento del fuso. Quando il tuorlo e lo zucchero furon ridotti ad una specie di crema, donna Maurizia si alzò e versò nella scodella il caffè bollente, limpido e rosso come vino. In quel punto entrò Maria, e il gattino le andò incontro miagolando. «Perché ti sei levata?», rimproverò donna Maurizia. «Non vi pare ora? E poi ho sentito che mi chiamavano: chi era?» «Prendi», disse la madre porgendole la scodella scintillante. «Chi è venuto?», ripeté Maria guardando lo spirito d'uovo senza sorbirlo; e il gattino le si arrampicava sul grembiale. «Scendi giù, Mimìa», impose donna Maurizia con l'indice teso. «Era quella sciocca di Serafina. Tuo cognato pare che ieri notte, andatosene di qui, abbia fatto qualche stravizio ed ha la febbre di nuovo.» "Dio mio, il vino!", pensò Maria, e per il rimorso e per il calore interno della bevanda che lentamente sorbiva, arrossì fin sulle mani. «Ma che stravizio poteva fare?», osservò timidamente. «E che stravizio fanno i viziosi?», gridò severa donna Maurizia. «Egli lo saprà! Ed ora vuole che tu vada da lui.» "Perché mi vuole?", pensò Maria turbandosi. «Perché mi vuole?», chiese. «Egli lo saprà. Cosa ne so io? Ma tu non andrai, non è vero?» «Andrò», rispose Maria chinandosi per deporre in terra la scodella, entro cui il gattino mise subito i baffi e le lunghe sopracciglia. E chiusa nel suo semplice vestito nero, di stoffa rigida e opaca, ella andò. Don Piane faceva colazione con caffèlatte e biscotti, dividendola con Josto e con due neri gatti lucenti che sembravano manicotti. Quando sentì arrivar Maria fece chiudere l'uscio del salotto da pranzo in modo ch'ella s'accorgesse dello sgarbo. Ed ella se ne avvide, ma dritta e rigida salì le scale con passo leggero, entrò da Stefano preceduta da Serafina, e s'avvicinò al letto con disinvolta confidenza. «Ebbene, cosa c'è di nuovo?», domandò curvandosi un poco. Stefano sollevò le palpebre guardandola, e vista così, di sotto in su, in modo che i suoi occhi sembravano ancor più obliqui e profondi, gli parve bellissima. «Siediti», disse. Serafina, che spiava avidamente ogni cosa, capì che doveva andarsene, e non poté neppur mettersi in ascolto perché il padrone le impose di lasciar la porta aperta. Maria rimase in piedi, e siccome egli, invece di parlare, chinava le palpebre con grave espressione di sofferenza, gli tastò il polso e disse: «Mi pare che tu sia soltanto molto debole. Non hai preso nulla? Che vuoi?». «Voglio che tu rimanga qui!» Ella lo guardò stupita, ma credendo che egli vaneggiasse non lo contraddisse. «Resterò: sta quieto.» «Sai», diss'egli vivamente, comprendendo ch'ella lo riteneva febbricitante, «ieri notte ho bevuto troppo, ho preso troppa aria e mi ha fatto male: ho passato un'orribile notte, e solo ora la febbre mi ha lasciato. Il medico me lo diceva però che mi guardassi, che se ricadevo guai! Ora invece son ricaduto ed ho paura, e desidero che tu resti qui, capisci, perché nessuno si cura di me...», e la voce si abbassò in una sommessa vibrazione d'amarezza, «e non solo per me, ma anche per la casa...» «Ma... tuo padre non c'è?» «Oh, mio padre!...», e sorrise guardando in alto; ma l'amarezza della voce passava al sorriso ed allo sguardo. «Riposati per ora. Penserò», disse Maria commossa. «Non posso riposare se tu non rispondi. Pensaci subito.» Ella ci pensò subito, chinando la testa, e una voce maligna del suo mondo interno le ricordò subito tutti i rancori, le tristezze, i dolori, le umiliazioni che gli Arca le avevano dato. "Perché dovrò rimanere?", si domandò. "Perché per quindici giorni o più devo abbandonare la mia casa per questa gente?" Si mosse, attraversò la camera, aprì un poco il verone e sollevò la fronte. Voleva pensar meglio. Sul paesaggio giallo e rorido il cielo d'autunno s'incurvava con freschezze e trasparenze indescrivibili; sul noce le allodole e le foglie umide scosse dalla brezza eseguivano una sonora mattinata musicale. Con l'aprirsi del verone tutta la freschezza e l'azzurra luminosità del mattino invasero la camera, e Maria pensò instintivamente quanto, quando sarebbe stata felice in quella casa e... «Maria?», chiamò Stefano con supplichevole voce di bambino. Ella lasciò il balcone: già l'amara voce taceva. «Resterò», disse, «purché tuo padre sia contento.» «È contento», rispose Stefano, ed entrambi si contentarono della pietosa menzogna. «Sta bene allora.» «Chiama Serafina, fa il piacere.» Maria s'avvicinò alla porta e chiamò, ma Serafina non venne subito, e più tardi Stefano seppe che don Piane proibiva alle domestiche di risponder alla chiamata della nuora. Intanto Maria, per prendere possesso della casa, si tolse il fazzoletto, lo stese a piè del letto di Stefano, e mise in ordine la camera. Camminava con passo lieve, ma naturale, e nel seguirla con gli occhi Stefano notava una certa disinvolta eleganza ne' suoi movimenti e nel suo modo di camminare. La camera era già rimessa in ordine, quando sull'uscio dell'attiguo salotto apparve il viso rosso di Serafina. «Che vuole?», gridò la ragazza. Maria le fe' cenno di avanzarsi, ed ella attraversò le stanze con passo pesante e rumoroso. Stefano, che cominciava ad assopirsi, aprì lentamente gli occhi, guardò la domestica e parve ricordarsi. «Va da donna Maurizia e dille che per oggi non aspetti donna Maria.» Serafina lo fissò fra meravigliata e beffarda, ma egli la guardò duramente negli occhi e le accennò di andarsene. «Non comanda altro?» «Va!» «Be'!», disse Serafina, e voltò i tacchi rumorosi, battendosi una mano sulla guancia come per schiacciarvi una mosca. Maria le si mise dietro, e quando furono nel salotto le disse piano: «Cammina e parla piano. Dirai a mia madre che ti consegni la mia blusa e la calzetta cominciata». "Che il diavolo mi abbruci, che idea ha costei? Di rimanersi qui?", pensò Serafina con dispetto; e, scese rumorosamente le scale, andò a riferir tutto a don Piane, che leggeva gli annunzi di un giornale sardo. Ogni mattina don Piane, che leggeva senza occhiali, ma stentatamente, scorreva il giornale, cominciando dagli annunzi e fermandosi particolarmente sulle corrispondenze dei villaggi e specialmente su quelle che descrivevano feste con corse di cavalli o che contenevano polemiche elettorali. Spesso i suoi due grossi gatti gli salivano sulle ginocchia, allungandogli la testa sul petto e spargendogli di pelo le vesti; li grattava sotto il mento, comunicando loro ad alta voce i commenti sulle cose lette. «Eh, cosa ne dici tu, Speranza?», domandò alla gatta più piccola, quando Serafina ebbe spiegato la commissione da far presso donna Maurizia. Speranza aprì la bocca nera e miagolò; ma se questa era una risposta, don Piane non riuscì a capirla. «E la lasci andare!», esclamò Serafina, dando un manrovescio alla gatta, che saltò in mezzo alla stanza. «Non vede che le sporca tutto l'abito?» «Figlia di...», gridò don Piane. «La sporca sei tu! Se torni a toccar il gatto ti mando fuori a pedate.» «E provi un po'!», disse l'altra ridendo e sfidando. «Ma vado o non vado in quella casa?» «Va in casa del diavolo!» «Vado dunque, e obbedisco la padrona nuova!», concluse ella amaramente. La padrona vecchia era lei, ed ora l'addolorava che il suo dominio finisse: intanto, per profittare delle ultime occasioni, prima di recarsi da donna Maurizia entrò in dispensa e rubacchiò qualche cosa. Maria trepidava pensando al suo primo decisivo incontro col suocero; e tutta la mattina, mentre Stefano, assopito dopo la lunga notte insonne, riposava in una dolcezza di sogno, ella vagò in punta di piedi fra la camera e il salotto, guardando ogni cosa con occhi timidi e stupiti, prendendo silenziosamente possesso di ogni angolo. Sulle prime provò uno sbalordimento quasi spiacevole nel trovarsi fra tanta ricchezza ed eleganza di mobili e di stoffe, intravedute appena in un tempo lontano, quando il marito le parlava della casa paterna. Ricordando l'ambiente grave e misero di casa sua, la gaiezza e lo splendore del salottino di Stefano l'umiliavano e la rattristavano: temeva quasi di porre i piedi sui bei tappeti biondi di cerva dagli orli sanguigni e dalle corna bronzate; e di toccare gli artistici ninnoli (fra gli altri c'erano due bellissimi capretti di Vincenzo Jerace, a Stefano personalmente donati dall'esimio autore) disposti disordinatamente sulle mensole velate di polvere grigia. Non pensava neppur lontanamente ch'ella potesse aver diritto su quanto vedeva: dopo che Carlo Arca era morto, ogni diritto le pareva cessato con la dolorosa perdita di lui; ma non era abbastanza ingenua per non deplorare che i grossolani piedi di Serafina passassero sguaiatamente con volgare e illegale padronanza sulle pelli orlate di scarlatto, e per non accorgersi che le mani della domestica-padrona potevano benissimo servire ad altre faccende. Ritornò nella camera e socchiuse le imposte. Stefano dormiva sempre, ed ella si fermò vicino al balcone, pensando con desiderio al suo orto che, almeno quello, era più fresco e più gaio degli orti che si stendevano dietro la casa Arca. Nel dolce orto paterno, all'ombra dei noci e dei pioppi, traverso cui il sole gettava larghi occhi d'oro sulle verdi acque del ruscello, ella si godeva le lunghe mattine soleggiate, tutta raccolta nelle memorie del suo breve sogno. A quando a quando cadeva sulla trasparenza smeraldina del ruscello una foglia argentea e lunga di pioppo, o una larga foglia di noce; foglie morte, orlate di rosso e bucherellate dal sole, che s'aggiravano sull'acqua bassa e diafana, poi passavano lente e tranquille sopra le gialle, tremule macchie del sole e sparivano sotto la lucida ruota del molino. Non così era caduto, passato e sparito il dolce sogno di lei? Ora nell'orto degli Arca era una tristezza quasi invernale, con quegli alberi semispogli e rossastri, col pergolato secco da cui pendeva solo qualche rada foglia di vite d'un giallo acceso sfumato in violetto, con quel melanconico e vaporoso sfondo d'orizzonte. Solo il noce sonoro metteva un po' di verde cupo su tanta melanconia, spandendo ombra su una distesa piantata a cavoli rachitici e bluastri, e invasa da alte erbe secche e rossastre. Maria s'accorse tosto che l'andamento dell'orto, come quello della casa, era pessimo. Galline bianche dalla cresta pallida, e nere picchiettate di rosso, e grigie striate di giallo, magre e mal tenute, raspavano sotto i pergolati, scavando larghe righe, avvoltolandosi nella polvere che poi scuotevano sbattendo le ali e piluccandosi sulla schiena, e spandevano per tutto l'orto un'infinità di piume d'ogni colore. "Ma non c'è il cortile? Che bisogno c'è di lasciarle guastar l'orto?...", si domandò Maria. Si volse disgustata e provò un lieve sentimento di timidezza vedendo don Piane sulla porta. Lo guardò con grandi occhi paurosi; ma il vecchietto, la cui bocca era più che mai serrata ed invisibile, fissava Stefano, dimostrando una evidente ed offensiva noncuranza per lei. Tuttavia ella si fece coraggio, attraversò la camera col suo lieve passo elastico, e con l'alzar le sopracciglia accennando il malato, disse piano, piano: «Dorme». Don Piane sporse un po' le labbra bianche, ma subito le restrinse. Sempre più intimidita Maria non trovò altro che dire, e rimase impalata vicino alla porta, mentre il vecchietto, passo passo e lentamente, si accostò al letto ed esaminò il dormente, che non si svegliò, o non volle svegliarsi. Poi don Piane girò lentamente il viso intorno e s'avviò per andarsene, ma passando davanti a Maria inciampò e sporse le piccole labbra con tale infantile paura che la giovane sorrise ed ebbe pietà di quella minuscola vecchiaia così debole e così caparbia. Stese le mani, e prima che il vecchio protestasse, lo sostenne afferrandogli il braccio sottile e corto come quello d'un bimbo, e lo trasportò nel salottino senza quasi lasciargli toccar coi piedi il suolo. Se a fargli un'azione simile fosse stata Serafina, don Piane avrebbe strepitato e alzato il piccolo pugno; ora invece provava una lieve vertigine; arrossì di vergogna e di piacere, e finalmente sporse le labbra dicendo: «Non è nulla, non è nulla». «Non è nulla», ripeté ella convinta, «sedetevi un po' qui, finché Stene si svegli.» E lo fece sedere sul sofà turchino. «Si sveglierà presto, credo io: dorme da molto. Mi pare che la malattia sia niente, sapete: un po' di chinino, nutrizione adatta e basta. È molto debole, Stene: non ve ne siete accorto?» «Altro che me ne sono accorto! Ma lui fa tutto a modo suo. Io gli dico: non uscire! e lui esce a cavallo e va a cacciare nelle paludi, cosa diavolo! Io gli dico: non uscire di notte, e lui invece esce e fa stravizi...» "È vero!", pensò Maria, ricordando con rimorso l'anfora del vino giallo. «Io dico: guarda la ricetta del dottore, leggila!», e don Piane mostrava alla giovane la palma della mano destra, battendovi su le dita della sinistra. «Cosa dice la ricetta? Rafforzarsi con vivande adatte e bere il ferro-china. Niente, niente, lui non fa nulla e... pumh!» Fece atto di chi piomba sul letto; si sentì tutto confortato nel veder Maria dargli ampiamente ragione. «Quando è venuto il dottore?», di nuovo chiese lei, non sapendo che altro dire. «Questa mattina, presto, presto.» «Ha detto che tornava?» «Sicuro che torna! Oh che gli dò il salario per i suoi begli occhi?» «Bisogna, appena Stene si sveglia, fargli prendere qualche cosa, e poi vedrete che non è nulla. Non temete. E voi avete fatto colazione?» «Altro! caffèlatte e biscotti, così!», esclamò il vecchio, accennando con le mani ad una grande scodella. Maria rise piano, e pensò che dopo tutto il suocero non era la persona terribile ch'ella si figurava; anzi gli scoprì subito il debole più evidente, ch'era un formidabile egoismo infantile; e s'avvide che per conquistare quella piccola anima bisognava lusingarla e darle sempre ragione. «È andata Serafina in casa mia?» «È andata.» La conversazione, fatta a voce sommessa, pareva nuovamente esaurita, quando s'udì un lieve raspare alla porta. Don Piane tese le orecchie. «Dev'essere Speranza», disse. Credendo che si trattasse di persona che invece di picchiare usasse raspar gli usci, Maria si fece premura d'aprire, ma la porta era appena tirata che balzò nel salotto la gatta nera! «L'ho detto io!», fece don Piane sorridendo. «Mi viene sempre dietro, la strega! Musci, musci...», chiamò poi, e Speranza gli fu sopra. «Non piacciono a te i gatti, Maria?» «Altro! Ne ho uno così piccino, color cenere, con gli occhi... mostrate, ecco, ha gli occhi eguali a questi!», esclamò, sollevando la testolina di Speranza, che serenamente la fissò coi suoi grandi occhi verdi cristallini. «Oh che bella gatta, oh, che bella!» Don Piane sorrise ancor
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