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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
1063-1510
Di questo mar ch'i' dico vidi per uso antico nella perfonda Spagna partire una rigagna di questo nostro mare, che cerehia, ciò mi pare, quasi lo mondo tutto, sì che per suo condotto ben pò chi sa dell'arte navicar tutte parte, e gire in quella guisa di Spagna infin a Pisa e 'n Grecia ed in Toscana e 'n terra ciciliana e nel Levante dritto e in terra d'Igitto. Ver' è che 'n orïente lo mar volta presente ver' lo settantrïone per una regïone dove lo mar non piglia terra che sette miglia; poi torna in ampiezza, e poi in tale stremezza ch'io non credo che passi che cinquecento passi. Da questo mar si parte lo mar che non comparte, là 'v'e la regïone di Vinegia e d'Ancone: così ogn'altro mare che per la terra pare di traverso e d'intorno, si move e fa ritorno in questo mar pisano ov'è 'l mare Occïano. E io che mi sforzava di ciò che io mirava saver lo certo stato, tanto andai d'ogne lato ch'io vidi apertamente, davanti al mio vidente, di ciascuno animale e lo bene e lo male e la lor condizione e la 'ngenerazione e lo lor nascimento e lo cominciamento e tutta loro usanza, la vista e la sembianza. Ond'io aggio talento nello mio parlamento ritrare ciò ch'io vidi. Non dico ch'io m'afidi di contarlo pe·rima dal piè fin a la cima, ma 'n bel volgare e puro, tal che non sia oscuro, vi dicerò per prosa quasi tutta la cosa qua 'nanti da la fine, perché paia più fine. Da poi ch'a la Natura parve che fosse l'ora del mio dipartimento, con gaio parlamento sl cominciò a dire parole da partire con grazia e con amore; e faccendomi onore disse: "Fi' di Latino, guarda che 'l gran cammino non torni esta semmana, ma questa selva piana, che tu vedi a sinestra, cavalcherai a destra. Non ti paia travaglia, ché tu vedrai san' faglia tutte le gran sentenze e le dure credenze; e poi da l'altra via vedrai Fisolofia e tutte sue sorelle; e poi udrai novelle de le quattro Vertute; e se quindi ti mute, troverai la Ventura; a cui se poni cura, ché non ha certa via, vedrai Baratteria, che 'n sua corte si tene di diare e male e bene; e se non hai timore, vedrai i·Dio d'Amore, e vedrai molte gente che 'l servono umilmente, e vedrai le saette che fuor de l'arco mette. Ma perché tu non cassi in questi duri passi, te', porta questa segna che nel mio nome regna. E se tu fossi giunto d'alcun gravoso punto, tosto lo mostra fuore: non fia sì duro core che per la mia temenza non t'aggia in reverenza". E io gechitamente ricevetti 'l presente, la 'nsegna che mi diede; poi le basciai il piede e mercé le gridai, ch'ella m'avesse ormai per suo racomandato. E quando io fui girato, già più no·lla rividi. Or conven ch'io mi guidi ver' là dove mi disse 'nanti che si partisse. Or va mastro Burnetto per un sentiero stretto, cercando di vedere e toccar e sapere ciò che l'è destinato; e non fu' guari andato ch'i' fu' nella deserta, dov' io non trovai certa né strada né sentero. Deh, che paese fero trovai in quella parte! Ché, s'io sapesse d'arte, quivi mi bisognava, ché, quanto io più mirava, più mi parea salvaggio: quivi non ha vïaggio, quivi non ha magione, quivi non ha persone, non bestia, non uccello, non fiume, non ruscello, né formica né mosca né cosa ch'io cognosca. Ed io, pensando forte, dottai ben de la morte: e non è maraviglia, ché ben trecento miglia durava d'ogne lato quel paese ismaggiato. Ma sì m'asicurai quando mi ricordai del sicuro segnale che contra tutto male mi dà sicuramento; e io presi andamento quasi per aventura per una valle scura, tanto ch'al terzo giorno io mi trovai d'intorno un grande pian giocondo, lo più gaio del mondo e lo più dilettoso. Ma ricontar non oso ciò ch'i' trovai e vidi: se Dio mi porti e guidi, io non sarei creduto di ciò ch'i' ho veduto; ch'i' vidi imperadori e re e gran segnori, e mastri di scïenze che dittavan sentenze, e vidi tante cose che già in rime né in prose no·lle porria contare; ma sopra tutti stare vidi una imperadrice di cui la gente dice che ha nome Vertute, ed è capo e salute di tutta costumanza e de la buona usanza e d'i be' reggimenti a che vivon le genti; e vidi agli occhi miei esser nate di lei quattro regine figlie; e strane maraviglie vidi di ciascheduna, ch'or mi parea pur una, or mi parean divise e 'n quattro parti mise, sì ch'ognuna per séne tenean sue propie mene, ed avean su' legnaggio, su' corso e su' vïaggio, e 'n sua propria magione tenean corte e ragione; ma non già di paraggio, ché l'un' è troppo maggio, e poi di grado a grado catuna va più rado. E io, ch'avea il volere di più certo sapere la natura del fatto, mi mossi sanza patto di domandar fidanza, e trassimi a l'avanza de la corte maggiore, che v'è scritto 'l tenore d'una cotal sentenza: "Qui demora Prodenza, cui la gente in volgare suole Senno chiamare". E vidi ne la corte, là dentro fra le porte, quattro donne reali che corte principali tenean ragion ed uso. Poi mi tornai là giuso a un altro palazzo, e vidi in bello stazzo scritto per sottiglianza: "Qui sta la Temperanza, cui la gente talora suol chiamare Misura". E vidi là d'intorno dimorare a soggiorno cinque gran principesse, e vidi ch'elle stesse tenean gran parlamento di ricco insegnamento. Poi nell'altra magione vidi in un gran pedrone scritto per sottigliezza: "Qui dimora Fortezza, cui talor per usaggio Valenza di coraggio la chiama alcuna gente". Poi vidi immantenente quattro ricche contesse, e gente rade e spesse che stavano a udire ciò ch'elle volean dire. E partendomi un poco, io vidi in altro loco la donna incoronata per una caminata, che menava gran festa e talor gran tempesta; e vidi che lo scritto, ch'era di sopra fitto in lettera dorata, dicea: "Io son chiamata Giustizia in ogne parte". E vidi i·l'altra parte quattro maestre grandi, e a li lor comandi si stavano ubidenti quasi tutte le genti. Così, s'i' non misconto, eran venti per conto queste donne reali che de le principali son nate per lignaggio, sì come detto v'aggio. E s'io contar volesse ciò ch'io ben vidi d'esse insieme ed in divisa, non credo i·nulla guisa che iscrittura capesse né che lingua potesse divisar lor grandore, né 'l bene né 'l valore. Però più non ne dico; ma sì pensai con meco che quattro n'ha tra loro cu' i' credo ed adoro assai più coralmente, perché 'l lor convenente mi par più grazïoso e a la gente in uso: Cortesia e Larghezza e Leanza e Prodezza. Di tutte e quattro queste il puro sanza veste dirò in questo libretto: dell'altre non prometto di dir né di ritrare; ma chi 'l vorrà trovare, cerchi nel gran Tesoro ch'io fatt' ho per coloro c'hanno il core più alto: là farò grande salto per dirle più distese ne la lingua franzese. Ond' io ritorno ormai per dir come trovai le tre a gran dilizia in casa di Giustizia, ché son sue descendenti e nate di parenti. E io m'andai da canto e dimora'vi tanto ched i' vidi Larghezza mostrare con pianezza ad un bel cavalero come nel suo mistero si dovesse portare. E dicìe, ciò mi pare: "Se tu vuol' esser mio, di tanto t'afid' io, che nullo tempo mai di me mal non avrai, anzi sarai tuttore in grandezza e in onore, ché già om per larghezza non venne in poverezza. Ver' è ch'assai persone dicon ch'a mia cagione hanno l'aver perduto, e ch'è loro avenuto perché son larghi stati; ma troppo sono errati: ché, como è largo quelli che par che s'acapilli per una poca cosa ove onor grande posa, e 'n un'altra bruttezza farà sì gra·larghezza che fie dismisuranza? Ma tu sappie 'n certanza che null' ora che sia venir non ti poria la tua ricchezza meno se ti tieni al mio freno nel modo ch'io diraggio: ché quelli è largo e saggio che spende lo danaro per salvar l'ogostaro. Però in ogne lato ti membri di tu' stato e spendi allegramente; e non vo' che sgomente se più che sia ragione despendi a le stagione, anz' è di mio volere che tu di non vedere te infinghi a le fïate, se danari o derrate ne vanno per onore: pensa che sia il migliore. E se cosa adivenga che spender ti convenga, guarda che sia intento, sì che non paie lento: ché dare tostamente è donar doppiamente, e dar come sforzato perde lo dono e 'l grato; ché molto più risplende lo poco, chi lo spende tosto e a larga mano, che que' che da lontano dispende gran ricchezza e tardi, con durezza. Ma tuttavia ti guarda d'una cosa che 'mbarda la gente più che 'l grado, cioè gioco di dado: ché non è di mia parte chi si gitta in quell'arte, anz' è disvïamento e grande struggimento. Ma tanto dico bene, se talor ti convene giocar per far onore ad amico o a segnore, che tu giuochi al più grosso, e non dire: "I' non posso". Non abbie in ciò vilezza, ma lieta gagliardezza; e se tu perdi posta, paia che non ti costa: non dicer villania né mal motto che sia. Ancor, chi s'abandona per astio di persona, e per sua vanagroria esce de la memoria a spender malamente, non m'agrada neente; e molto m'è rubello chi dispende in bordello e va perdendo 'l giorno in femine d'intorno. Ma chi di suo bon core amasse per amore una donna valente, se talor largamente dispendesse o donasse (non sì che folleggiasse), be·llo si puote fare, ma no'l voglio aprovare. E tegno grande scherna chi dispende in taverna; e chi in ghiottornia si getta, o in beveria, è peggio che omo morto e 'l suo distrugge a torto. E ho visto persone ch'a comperar capone, pernice e grosso pesce, lo spender no·lli 'ncresce: ché, come vol sien cari, pur trovansi i danari, sì pagan mantenente, e credon che la gente lili ponga i·llarghezza; ma ben è gran vilezza ingolar tanta cosa che già fare non osa conviti né presenti, ma colli propî denti mangia e divora tutto: ecco costume brutto! Mad io, s'i' m'avedesse ch'egli altro ben facesse, unqua di ben mangiare no·llo dovrei blasmare: ma chi 'l nasconde e fugge e consuma e distrugge, solo che ben si pasce, certo in mal punto nasce. Hacci gente di corte che sono use ed acorte a sollazzar la gente, ma domandan sovente danari e vestimenti: certo, se tu ti senti lo poder di donare, ben déi corteseggiare, guardando d'ogne lato di ciascun lo suo stato; ma già non ublïare, se tu puoi megliorare lo dono in altro loco, non ti vinca per gioco lusinga di buffone: guarda loco e stagione.
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