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Opere pubblicate: 19989
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Info sull'Opera
Le cose del mondo, parole per dire il mondo.
Di Marco Testi Corteggiare il divino, blandire l’esistente, assumere il mondo a ragione ma poi guardare oltre, un oltre che diventa dentro, fuori, ovunque. Corteggiare la divinità in questo lavoro poetico significa giocare una carta interiore troppo umana, perché da millenni si tampina da presso l’Altrove senza mai una risposta chiara. Se ci fosse, sarebbe altro che non poesia, e questo poeta lo sa bene per fortuna, e ci evita fastidi purtroppo assai diffusi: cercatori d’assoluto che si lamentano dell’amore andato a male, della propria esacerbata sensibilità, creature che non sono sole ma che credono di esserlo, e, diciamocelo, gli conviene. Di Graziano colpisce l’asciuttezza, che non è di stampo ermetico, perché mentre in molti ermetici la parola tende all’assolutezza, qui regnano sovrani l’analogia non dichiarata, l’ossimoro, la paronomasia, l’allitterazione, tutte figure, come si vede, di confronto tra parole e non di isolamento. Il gioco, si dirà. Il gioco: bella questione. Poesia come gioco e poesia come serietà? E’ un’alternativa? O è tutte e due? O è qualcosa che non possiamo catalogare, notomizzare, classificare come spesso ci si chiede di fare, un po’ ingenuamente? Il gioco allora come cifra dell’esistente. Non sarebbe la prima volta. Ecco allora accostamenti di parole, l’apparente gioco verbale che è smitizzazione dell’ipertrofico io di molti. Non parlo di me, dice il giocatore, è il gioco che comanda, è il destino, o Dio, come lo si voglia chiamare. Graziano, per fortuna di chi legge, non torna indietro ai luoghi comuni del pianto addosso, ma forza il senso comune delle parole attraverso il loro stare insieme, quello che si dice in gergo iniziatico il procedimento epifanico, cioè di rivelazione del consueto come se fosse potentemente nuovo e straniante. Soprattutto in “La chiave” si assiste ad una vera e propria rivelazione in cui eterno e transitorio si incontrano su un orizzonte in cui le parole divengono nuove e toccano la cosa, diventano la cosa. La disperazione dei giorni, la gioia dei giorni, la perdita progressiva, l’entropia continua che è la nostra vita si rivelano quelle che sono: non la celebrazione inutile dell’eternità dell’amore, né la condanna dell’esistente, semmai l’accettazione della sua presenza, l’elogio del molteplice in vista della sua riunificazione. In parole povere, la capacità più rilevante della poesia di Graziano è quella di riuscire a scrivere ciò che sembra incoerente, non coeso, oppositivo, contrastante. E’ tuttavia lontano dalle filosofie monolitiche, neoplatoniche e parmenidee, che fanno dell’esistenza un abbassamento, una lontanissima e impura imago Dei. Nel Nostro è tangibile un atteggiamento speculativo, aperto alla molteplicità e anzi curioso di essa. L’esistente è non perdita, ma necessità, misteriosa quanto si vuole, enigmatica, certo, ma pur sempre necessità. Il grande mare dell’oggettività esiste nei suoi versi, non è il miraggio dell’io degli estremi esiti romantici tedeschi. In “Irradiazione”, per esempio, si fa strada la comprensione del limite della ragione e del corpo, ma è un “corpo che canta la sua essenza”, come recita l’ultimo verso. E’ un rapporto molto giocato su toni non gridati, non drammatici, né tantomeno melodrammatici. Non è rappresentazione mimetica dei propri dolori, ma adesione a quello che è. La compagnia del non visibile non è ingombrante, è il flautus vocis che suggerisce e non rappresenta, perché alcune cose non sono rappresentabili. Bisogna riconoscere i limiti del tutto e di noi che siamo parte di questo tutto, e questo mi sembra uno dei punti di più estrema lontananza dalle tentazioni neo-romantiche di alcuni. Un punto di idiosincrasia c’è, ma è ovvio, anzi, necessario, altrimenti staremmo a parlare di equilibrio matematico e non di poesia, ed è proprio sul versante centrale, quello che dà titolo alla raccolta: “Stanze critiche”. Qui si legge un certo antagonismo “ideologico” attraverso il quale si vede il no alla dispersione dei giorni, alla vita sazia e chiusa nel proprio perbenismo anche arredativo. Una poesia fatta anche di interni, che coglie l’essenza delle cose, che, lo diceva anche Séailles, si impregnano della psiche e ne diventano prolungamenti. Una poesia di cose, allora, e di legami tra di esse e le persone, che il Nostro chiama divini senza urlarlo, senza alzare il tono, ma mantenendo un dialogo costante con i nomi, che devono per forza riacquistare un senso, perché noi li pronunciamo con indifferenza, ignorando che insieme al suono ne perdiamo l’essenza profonda, il significato che giace sotto, e la dimensione di attesa inesausta. «Stanze critiche», di Andrea Giuseppe Graziano, Aletti, pp. 73, 12 euro www.alettieditore.it Articolo apparso integralmente sulla rivista Orizzonti www.rivistaorizzonti.ent http://www.rivistaorizzonti.net/puntivendita.htm
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