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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
Quel antiquo mio dolce signore
fatto citar dinanzi a la reina che la parte divina tien di nostra natura e ’n cima sede, ivi, com’oro che nel foco affina, mi rappresento carco di dolore, di paura e d’orrore, quasi uom che teme morte e ragion chiede; e ’ncomincio: "Madonna, il manco piede giovenetto pos’io nel costui regno; ond’altro ch’ira e sdegno non ebbi mai; e tanti e sí diversi tormenti i’ vi soffersi, ch’al fine vinta fu quell’infinita mia pazienza, e ’n odio ebbi la vita. Cosí ’l mio tempo in fin qui trapassato è in fiamma e ’n pene; e quante utili oneste vie sprezzai, quante feste, per servir questo lusinghier crudele! E qual ingegno ha sí parole preste che stringer possa ’l mio infelice stato, e le mie d’esto ingrato tanto e sí gravi e sí giuste querele? O poco mèl, molto aloè con fele! In quanto amaro ha la mia vita avezza, con sua falsa dolcezza, la qual m’atrasse a l’amorosa schiera! Che s’i’ non m’inganno, era disposto a sollevarmi alto da terra: e’ mi tolse di pace e pose in guerra. Questi m’ha fatto men amare Dio ch’i’ non deveva, e men curar me stesso: per una donna ho messo egualmente in non cale ogni pensero. Di ciò m’è stato consiglier sol esso, sempr’aguzzando il giovenil desio a l’empia cote, ond’io sperai riposo al suo giogo aspro e fero. Misero! a che quel chiaro ingegno altèro, e l’altre doti a me date dal cielo? Ché vo cangiando ’l pelo, né cangiar posso l’ostinata voglia: cosí in tutto mi spoglia di libertà questo crudel ch’i’ accuso, ch’amaro viver m’ha vòlto in dolce uso. Cercar m’ha fatto deserti paesi, fiere e ladri rapaci, ispidi dumi, dure genti e costumi, et ogni error che ’ pellegrini intrica, monti, valli, paludi, e mari, e fiumi, mille lacciuoli in ogni parte tesi, e ’l verno in strani mesi, con pericol presente e con fatica: né costui né quell’altra mia nemica, ch’i’ fuggìa, mi lasciavan sol un punto. Onde, s’i’ non son giunto anzi tempo da morte acerba e dura, pietà celeste ha cura di mia salute, non questo tiranno, che del mio duol si pasce e del mio danno. Poi che suo fui, non ebbi ora tranquilla, né spero aver; e le mie notti il sonno sbandiro, e più non ponno per erbe o per incanti a sé ritrarlo. Per inganni e per forza è fatto donno sovra miei spirti: e no sonò più squilla, ov’io sia in qualche villa, ch’i’ non l’udisse. Ei sa che ’l vero parlo; che legno vecchio mai non rúse tarlo come questi ’l mio core, in che s’annida, e di morte lo sfida. Quinci nascon le lagrime e i martíri, le parole e i sospiri, di ch’io mi vo stancando, e forse altrui. Giudica tu, che me conosci, e lui." Il mio adversario, con aspre rampogne, comincia: "O donna, intendi l’altra parte, ché ’l vero, onde si parte quest’ingrato, dirà senza defetto. Questi in sua prima età fu dato a l’arte da vender parolette, anzi menzogne: né par che si vergogne, tolto da quella noia al mio diletto, lamentarsi di me, che puro e netto, contr’al desio, che spesso il suo mal vòle, lui tenni, ond’or si dole, in dolce vita, ch’ei miseria chiama, salito in qualche fama solo per me, che ’l suo intelletto alzai, ov’alzato per sé non fora mai." Ei sa che ’l grande Atride e l’alto Achille, et Anibàl al terren vostro amaro, e di tutti il più chiaro un altro e di vertute e di fortuna, com’a ciascun le sue stelle ordinaro, lasciai cader in vil amor d’ancille: et a costui di mille donne elette, eccellenti n’elessi una, qual non si vedrà mai sotto la Luna, ben che Lucrezia ritornasse a Roma; e sí dolce idioma le diedi, et un cantar tanto soave, che pensèr basso o grave non potè mai durar dinanzi a lei. Questi fur con costui l’inganni mei. Questo fu il fèl, questi li sdegni e l’ire, più dolci assai che di null’altra il tutto. Di bon seme mal frutto mieto; e tal merito ha chi ’ngrato serve. Sí l’avea sotto l’ali mie condutto, ch’a donne e cavalier piacea il suo dire; e sí alto salire il feci, che tra’ caldi ingegni ferve il suo nome, e de’ suoi detti conserve si fanno con diletto in alcun loco; ch’or saria forse un roco mormorador di corti, un uom del vulgo: i’ l’esalto e divulgo, per quel ch’elli ’mparò ne la mia scola, e da colei che fu nel mondo sola. E per dir a l’estremo il gran servigio, da mille atti inonesti l’ho ritratto; ché mai per alcun patto a lui piacer non poteo cosa vile: giovene schivo e vergognoso in atto, et in pensèr, poi che fatto era uom ligio di lei, ch’alto vestigio li ’mpresse al core, e fecel suo simìle. Quanto ha del pellegrino e del gentile, da lei tène, e da me, di cui si biasma. Mai notturno fantasma d’error non fu sí pien, com’ei vèr’ noi; ch’è in grazia, da poi che ne conobbe, a Dio et a la gente: di ciò il superbo si lamenta, e pente. Ancor [e questo è quel che tutto avanza] da volar sopra ’l ciel li avea dat’ali per le cose mortali, che son scala al fattor, chi ben l’estima; ché mirando ei ben fiso quante e quali eran vertuti in quella sua speranza, d’una in altra sembianza, potea levarsi a l’alta cagion prima: et ei l’ha detto alcuna volta in rima. Or m’ha posto in oblio con quella donna ch’i’ li die’ per colonna de la sua frale vita. "A questo un strido lagrimoso alzo e grido: Ben me la die’, ma tosto la ritolse. " Responde: "Io no, ma chi per sé la volse." Al fin ambo conversi al giusto seggio, i’ con tremanti, ei con voci alte e crude, ciascun per sé conchiude: "Nobile donna, tua sentenzia attendo." Ella allor sorridendo: "Piacemi aver vostre questioni udite; ma più tempo bisogna a tanta lite."
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