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Opere pubblicate: 19994
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Tacer non posso, e temo non adopre
contrario effetto la mia lingua al core, che vorria far onore a la sua donna, che dal ciel n’ascolta. Come poss’io, se non m’insegni, Amore, con parole mortali aguagliar l’opre divine, e quel che copre alta umiltade, in se stessa raccolta? Ne la bella pregione, ond’è or sciolta, poco era stato ancor l’alma gentile, al tempo che di lei prima m’accorsi; onde sùbito corsi [ch’era de l’anno e di mi’ etate aprile] a coglier fiori, in quei prati d’intorno, sperando a li occhi suoi piacer sí addorno. Muri eran d’alabastro, e ’l tetto d’oro, d’avorio uscio, e fenestre di zaffiro, onde ’l primo sospiro mi giunse al cor, e giugnerà l’estremo. Indi i messi d’Amor armati usciro di saette e di foco; ond’io di loro, coronati d’alloro, pur come or fusse, ripensando tremo. D’un bel diamante, quadro, e mai non scemo, vi si vedea, nel mezzo, un seggio altèro, ove, sola, sedea la bella donna; dinanzi, una colonna, cristallina, et iv’entro ogni pensero, scritto, e fòr tralucea sí chiaramente, che mi fea lieto, e sospirar sovente. A le pungenti, ardenti, e lucide arme, a la vittoriosa insegna verde, contra cui in campo perde Giove, et Apollo, e Polifemo, e Marte, ov’è ’l pianto ogni or fresco, e si rinverde, giunto mi vidi; e non possendo aitarme, preso lassai menarme, ond’or non so d’uscir la via, né l’arte. Ma sí com’uom talor che piange, e parte vede cosa, che li occhi, e ’l cor alletta, cosí colei per ch’io son in pregione, standosi ad un balcone, che fu sola a’ suoi dí cosa perfetta, cominciai a mirar con tal desio, che me stesso, e ’l mio mal posi in oblio. I’ era in terra, e ’l cor in paradiso, dolcemente obliando ogni altra cura; e mia viva figura far sentìa un marmo, e ’mpier di meraviglia; quando una donna assai pronta, e secura, di tempo antica, e giovene del viso, vedendomi sí fiso, a l’atto de la fronte, e de le ciglia: "Meco - mi disse - meco ti consiglia, ch’i’ son d’altro poder che tu non credi; e so far lieti e tristi in un momento, più leggiera che ’l vento; e reggo, e volvo quanto al mondo vedi. Tien pur li occhi come aquila in quel sole; parte dà orecchi a queste mie parole. Il dí che costei nacque, eran le stelle che producon fra voi felici effetti, in luoghi alti, et eletti, l’una vèr l’altra, con amor, converse; Venere, e ’l padre con benigni aspetti tenean le parti signorili e belle; e le luci impie e felle quasi in tutto del ciel eran disperse. Il sol mai sí bel giorno non aperse; l’aere, e la terra s’allegrava, e l’acque, per lo mar, avean pace, e per li fiumi. Fra tanti amici lumi, una nube lontana mi dispiacque; la qual temo che ’n pianto si resolve, se pietate altramente il ciel non volve. Com’ella venne in questo viver basso, ch’a dir il ver, non fu degno d’averla, cosa nova a vederla, già santissima e dolce, ancor acerba, parea chiusa in òr fin candida perla; et or carpone, or con tremante passo, legno, acqua, terra, o sasso, verde facea, chiara, soave, e l’erba con le palme o co i pie’ fresca e superba; e fiorir co i belli occhi le campagne, et acquetar i vènti, e le tempeste, con voci ancor non preste di lingua che dal latte si scompagne; chiaro mostrando al mondo sordo e cieco quanto lume del ciel fusse già seco. Poi che crescendo in tempo, et in vertute, giunse a la terza sua fiorita etate, leggiadria, né beltate, tanta non vide ’l sol, credo, già mai: li occhi pien di letizia e d’onestate, e ’l parlar di dolcezza, e di salute. Tutte lingue son mute, a dir di lei quel che tu sol ne sai. Sí chiaro ha ’l vólto di celesti rai, che vostra vista in lui non pò fermarse; e da quel suo bel carcere terreno di tal foco hai ’l cor pieno, ch’altro più dolcemente mai non arse. Ma parmi che sua sùbita partita tosto ti fia cagion d’amara vita." Detto questo, a la sua volubil rota si volse, in ch’ella fila il nostro stame, trista, e certa indivina de’ miei danni; ché dopo non molt’anni, quella, per ch’io ho di morir tal fame, canzon mia, spense Morte, acerba, e rea, che più bel corpo occider non potea.
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