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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
Si è debile il filo a cui s’attene
la gravosa mia vita, che s’altri non l’aita, ella fia tosto di suo corso a riva; però che dopo l’empia dipartita che dal dolce mio bene feci, sol una spene è stato in fin a qui cagion ch’io viva; dicendo: - Perché priva sia de l’amata vista, mantienti, anima trista: che sai s’a miglior tempo anco ritorni, et a più lieti giorni? O sé ’l perduto ben mai si racquista? - Questa speranza mi sostenne un tempo; or vien mancando, e troppo in lei m’attempo. Il tempo passa, e l’ore son sì pronte a fornire il viaggio, ch’assai spazio non aggio pur a pensar com’io corro a la morte. A pena spunta in orïente un raggio di sol, ch’a l’altro monte de l’adverso orizonte giunto il vedrai per vie lunghe e distorte. Le vite son sì corte, sì gravi i corpi e frali de gli uomini mortali, che quando io mi ritrovo dal bel viso cotanto esser diviso, col desïo non possendo mover l’ali, poco m’avanza del conforto usato, né so quant’io mi viva in questo stato. Ogni loco m’atrista ov’io non veggio quei begli occhi soavi che portaron le chiavi de’ miei dolci pensier, mentre a Dio piacque; e perché ’l duro essilio più m’aggravi, s’io dormo, o vado, o seggio, altro già mai non cheggio, e ciò ch’i’ vidi dopo lor mi spiacque. Quante montagne et acque, quanto mar, quanti fiumi m’ascondon que’ duo lumi, che quasi un bel sereno a mezzo ’l die fêr le tenebre mie, a ciò che ’l rimembrar più mi consumi, e quanto era mia vita allor gioiosa m’insegni la presente aspra e noiosa! Lasso!, sé ragionando si rinfresca quel ardente desio che nacque il giorno ch’io lassai di me la miglior parte a dietro, e s’Amor sé ne va per lungo oblio, chi mi conduce a l’èsca, onde ’l mio dolor cresca? e perché pria tacendo non m’impetro? Certo cristallo o vetro non mostrò mai di fòre nascosto altro colore, che l’alma sconsolata assai non mostri, più chiari i pensier nostri e la fera dolcezza ch’è nel core, per gli occhi, che di sempre pianger vaghi cercan dì e notte pur ch’i’ glie n’appaghi. Novo piacer che negli umani ingegni spesse volte si trova, d’amar qual cosa nova più folta schiera di sospiri accoglia! Et io sono un dì quei che ’l pianger giova; e par ben ch’io m’ingegni che di lagrima pregni sien gli occhi miei sì come ’l cor di doglia; e perché a cciò m’invoglia ragionar de’ begli occhi, né cosa è che mi tocchi, o sentir mi si faccia così a dentro, corro spesso e rientro colà donde più largo il duol trabocchi, e sien col cor punite ambe le luci, ch’a la strada d’Amor mi furon duci. Le trecce d’òr che devrien fare il sole d’invidia molta ir pieno, e ’l bel guardo sereno, ove i raggi d’Amor sì caldi sono che mi fanno anzi tempo venir meno, e l’accorte parole, rade nel mondo o sole, che mi fêr già di sè cortese dono, mi son tolte; e perdóno più lieve ogni altra offesa, che l’essermi contesa quella benigna angelica salute, che ’l mio cor a vertute destar solea con una voglia accesa: tal ch’io non penso udir cosa già mai che mi conforte ad altro ch’a trar guai. E per pianger ancor con più diletto, le man bianche sottili e le braccia gentili, e gli atti suoi soavemente altèri, e i dolci sdegni alteramente umìli, e ’l bel giovenil petto, tòrre da l’alto intelletto, mi celan questi luoghi alpestri e feri; e non so s’io mi speri vederla anzi ch’io mora; però ch’ad ora ad ora s’erge la speme, e poi non sa star ferma; ma ricadendo afferma di mai non veder lei che ’l ciel onora, ov’alberga onestade e cortesia, e dov’io prego che ’l mio albergo sia. Canzon, s’al dolce loco la donna nostra vedi, credo ben che tu credi ch’ella ti porgerà la bella mano, ond’io son sì lontano. Non la toccar; ma reverente ai piedi le di’ ch’io sarò là tosto ch’io possa, o spirto ignudo od uom di carne e d’ossa.
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