|
Opere pubblicate: 19994
|
Info sull'Opera
Soffermati sull’arida sponda Vòlti i guardi al varcato Ticino, Tutti assorti nel novo destino, Certi in cor dell’antica virtù, Han giurato: non fia che quest’onda Scorra più tra due rive straniere; Non fia loco ove sorgan barriere Tra l’Italia e l’Italia, mai più! L’han giurato: altri forti a quel giuro Rispondean da fraterne contrade, Affilando nell’ombra le spade Che or levate scintillano al sol. Già le destre hanno strette le destre; Già le sacre parole son porte; O compagni sul letto di morte, O fratelli su libero suol. Chi potrà della gemina Dora, Della Bormida al Tanaro sposa, Del Ticino e dell’Orba selvosa Scerner l’onde confuse nel Po; Chi stornargli del rapido Mella E dell’Oglio le miste correnti, Chi ritorgliergli i mille torrenti Che la foce dell’Adda versò, Quello ancora una gente risorta Potrà scindere in volghi spregiati, E a ritroso degli anni e dei fati, Risospingerla ai prischi dolor; Una gente che libera tutta O fia serva tra l’Alpe ed il mare; Una d’arme, di lingua, d’altare, Di memorie, di sangue e di cor. Con quel volto sfidato e dimesso, Con quel guardo atterrato ed incerto Con che stassi un mendico sofferto Per mercede nel suolo stranier, Star doveva in sua terra il Lombardo: L’altrui voglia era legge per lui; Il suo fato un segreto d’altrui; La sua parte servire e tacer. O stranieri, nel proprio retaggio Torna Italia e il suo suolo riprende; O stranieri, strappate le tende Da una terra che madre non v’è. Non vedete che tutta si scote, Dal Cenisio alla balza di Scilla? Non sentite che infida vacilla Sotto il peso de’ barbari piè? O stranieri! sui vostri stendardi Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito; Un giudizio da voi proferito V’accompagna a l’iniqua tenzon; Voi che a stormo gridaste in quei giorni: Dio rigetta la forza straniera; Ogni gente sia libera e pèra Della spada l’iniqua ragion. Se la terra ove oppressi gemeste Preme i corpi de’ vostri oppressori, Se la faccia d’estranei signori Tanto amara vi parve in quei dì; Chi v’ha detto che sterile, eterno Saria il lutto dell’itale genti? Chi v’ha detto che ai nostri lamenti Saria sordo quel Dio che v’udì? Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia Chiuse il rio che inseguiva Israele, Quel che in pugno alla maschia Giaele Pose il maglio ed il colpo guidò; Quel che è Padre di tutte le genti, Che non disse al Germano giammai: Va’, raccogli ove arato non hai; Spiega l’ugne; l’Italia ti do. Cara Italia! dovunque il dolente Grido uscì del tuo lungo servaggio; Dove ancor dell’umano lignaggio Ogni speme deserta non è: Dove già libertade è fiorita, Dove ancor nel segreto matura, Dove ha lacrime un’alta sventura, Non c’è cor che non batta per te. Quante volte sull’alpe spïasti L’apparir d’un amico stendardo! Quante volte intendesti lo sguardo Ne’ deserti del duplice mar! Ecco alfin dal tuo seno sboccati, Stretti intorno ai tuoi santi colori, Forti, armati dei propri dolori, I tuoi figli son sorti a pugnar. Oggi, o forti, sui volti baleni Il furor delle menti segrete: Per l’Italia si pugna, vincete! Il suo fato sui brandi vi sta. O risorta per voi la vedremo Al convito dei popoli assisa, O più serva, più vil, più derisa Sotto l’orrida verga starà. Oh giornate del nostro riscatto! Oh dolente per sempre colui Che da lunge, dal labbro d’altrui, Come un uomo straniero, le udrà! Che a’ suoi figli narrandole un giorno, Dovrà dir sospirando: «io non c’era»; Che la santa vittrice bandiera Salutata quel dì non avrà. (Alla illustre memoria di Teodoro Koerner)
|