|
Opere pubblicate: 19994
|
Info sull'Opera
CANTO PRIMO
Il babbo mise un gran ciocco di quercia su la brace; i bicchieri avvinò; sparse il goccino avanzato; e mescè piano piano, perchè non croccolasse, il vino. Ma, presa l'aria, egli mesceva andante. E ciascuno ebbe in mano il suo bicchiere, pieno, fuor che i ragazzi: essi, al bicchiere materno, ognuno ne sentiva un dito. Fecero muti i vegliatori il saggio, lodando poi, parlando dei vizzati buoni; ma poi passarono allo strino, quindi all'annata trista e tribolata. E le donne ripresero a filare, con la rócca infilata nel pensiere: tiravano prillavano accoccavano sfacendo i gruppi a or a or coi denti. Come quando nell'umida capanna le magre manze mangiano, e via via, soffiando nella bassa greppia vuota, alzano il muso, e dalla rastrelliera tirano fuori una boccata d'erba; d'erba lupina co' suoi fiori rossi, nel maggio indafarito, ma nel verno, d'arida paglia e tenero guaime; così dalla mannella, ogni momento, nuova tiglia guidata era nel fuso. Io dissi: «Brucia la capanna a gente!» E i vegliatori, col bicchiere in mano, tutti volsero gli occhi alla finestra, quasi vedere il lustro della vampa, ad ascoltare il martellare a fuoco, ton ton ton, nella notte insonnolita. Non c'era nella notte altro splendore che di lontane costellazioni, e non c'era altro suono di campana, se non della campana delle nove, che da Barga ripete al campagnolo: —Dormi, che ti fa bono! bono! bono!— Non capparone ardeva per le selve, zeppo di fronde aspre dal tramontano; non meta di vincigli di castagno, fatti d'agosto per serbarli al verno; non metato soletto in cui seccasse a un fuoco dolce il dolce pan di legno: sopra le cannaiole le castagne cricchiano, e il rosso fuoco arde nel buio. Al buio il rio mandava un gorgoglìo, come s'uno ci fosse a succhiar l'acqua. Tutto era pace: sotto ogni catasta sornacchiava il suo ghiro rattrappito. In cima al colle un nero metatello fumava appena in mezzo alla Grand'Orsa. Che bruciava? . . . La quercia, assai vissuta fu scalzata da molte opre, e fu svelta e giacque morta. Ma la secca scorza, all'acqua e al sole rifiorì di muschi; e un'altra vita brulicò nel legno che intarmoliva: un popolo infinito che ben sapeva l'ordine e la legge, v'impresse i solchi di città ben fatte. E chi faceva nuove case ai nuovi, e chi per tempo rimettea la roba, e chi dentro allevava i dolci figli, e chi portava i cari morti fuori. Quando s'udì l'ingorda sega un giorno rodere rauca torno torno il tronco; e il secco colpo rimbombò del mazzo calato da un ansante ululo d'uomo. E il tronco sodo ora sputava fuori la zeppola d'acciaio con uno sprillo, or la pigliava, e si sentiva allora crepare il legno frangolo, e stioccare le stiglie, or dalla gran forza strappate, ora recise dalla liscia accetta: lucida accetta che alzata a due mani spaccava i ciocchi e ne facea le schiampe. Le schiampe alcuno accatastò; poi altri se le portò nella legnaia opaca. Del popolo infinito era una gente rimasta in un dei ciocchi. Ebbe l'accetta molte case distrutte, ebbe d'un colpo il mazzo molte sue tribù schicciate. Ma i sorvissuti non sapean già nulla: chè volgendo i lor mille anni in un anno, chi schivò l'ascia, chi campò dal mazzo, l'ago sentì, che, dopo un po' che cuce il Tempo, uggito, punta nel lavoro, e se ne va. Nessuno ora sapeva che il mondo loro fu congiunto al tutto della gran quercia, sotto un cielo azzurro. Sapeva ognuno che non c'era altr'aria che quell'odor di mucido, altro suono che il grave gracilar delle galline e il sottile stridìo dei pipistrelli: dei pipistrelli, che pendeano a pigne dai cantoni, nel giorno, quando il sole facea passare i fili suoi tra i licci d'una tela che ordiva un vecchio ragno. Così passava la lor cauta vita nell'odoroso tarmolo del ciocco: e chi faceva nuove case ai nuovi, e chi per tempo rimettea la roba, e chi dentro allevava i dolci figli, e chi portava i cari morti fuori. E videro l'incendio ora e la fine i vegliatori: disse ognun la sua. E disse il Biondo, domator del ferro cui la verde Corsonna ama, e gli scende cantando per le selve allo stendino e per lui picchia non veduta il maglio: «Vogliono dire ch'hanno tutti i ferri, quanti con sè porta il bottaio, allora ch'è preso a opra avanti la vendemmia: l'aspro saracco, l'avido succhiello, e tenaglie che azzeccano, e rugnare di scabra raspa e scivolar di pialla. Chè non hanno bottega: a giro vanno come il nero magnano, quando passa con quello scampanìo sopra il miccetto; ossia concino, o fradicio ombrellaio, voce del verno, la qual morde il cuore a chi non fece le rimesse a tempo. Nè lëo lëo vanno, come loro. Piglian le gambe e stradano, la vita, come noi, strinta dal grembial di cuoio» E disse il Topo, portatore in collo, primo, fuor che del Nero; sì, ma questi porta più poco, e brontola incaschito: —Carico piccolo è che scenta il bosco—: «Vogliono dire ch'han la tiglia soda più che nimo altri che di mattinata porti in monte il cavestro e la bardella. E hanno l'arte, perchè intorno al peso girano ora all'avanti ora all'indietro or dalle parti, per entrarci sotto. Se lo possono, via, telano; quando non lo possono, vanno per aiuto; e su e su, per una carraiuola: come una nera fila di muletti di solitari carbonai, su l'Alpe, che in quel silenzio semina i tintinni de' suoi sonagli. Alcuno ecco s'espone, come anco noi, per ragionar con altri che scende, e frescheggiare allo sciurino» E disse il Menno, vangatore a fondo, a cui la terra, nell'aprir d'aprile, rotta e domata ai piedi ansa e rifiata: e' la sogguarda curvo su l'astile: «Ho inteso dire ch'hanno i suoi poderi, come noi. Sotto le città ben fatte coltano un campo sodo: che bel bello si fa lo scasso, e qua si tira dentro, là si leva la terra, e si tramuta con le pale o valletti e cestinelle. La pareggiano, seminano. Nasce un'erba. Ed ecco poi vanno a pulirla, levano il loglio, scerbano i vecciuli, e scentano la sciàmina, cattiva, e la gramigna, che riè cattiva, e i paternostri, ch'è peggior di tutte. A suo tempo si sega, lega, ammeta, scuote, ventola, spula. Eccolo bello nel bel soppiano dai due godi il grano » E disse il Bosco, buon pastor di monte, ch'era ad albergo: egli da Pratuscello mena il branco alla Pieve, a quei guamacci: per là dicon guamacci: è il terzo fieno: «Ho inteso dire ch'hanno le sue bestie: quali, pecore, e quali proprio bestie, ossia da frutto, ovvero anche da groppa. Ma piccoline e verdi queste, e quelle con una lana molle come sputo: pascono in cento un cuccolo di fiore. E il pastore ha due verghe, esso, non una: due, con nodetti, come canne; e molge con esse: le vellìca, e dànno il latte; o chiuse dentro, o fuori, per le prata: come noi, che si molge all'aria aperta, nella statina, le serate lunghe: quando su l'Alpe c'è con noi la luna sola, che passa, e splende sui secchielli, e il poggio rende un odorin che accora» E disse il Quarra, un capo, uno che molto girò, portando santi e re sul capo, di là dei monti e del sonante mare: ora s'è fermo, e campa a campanello: «Lessi in un libro, ch'hanno contadini come noi; ma non come mezzaiuoli timidi sol del Santo pescatore, e che, d'Ottobre, quando uno scasato, cerca podere, a lui dice il fringuello: —Ce n'è, ce n'è, ce n'è, Francesco mio!— Quelli no: sono negri. Alla lor terra venne un lontano popolo guerriero, che il largo fiume valicò sul ponte. Fecero un ponte: l'uno chiappò l'altro per le gambe, e così tremolò sopra l'acqua una lunga tavola. Fu presa la munita città, presi i fanciulli, ch'or sono schiavi e fanno le faccende; e il vincitore campa a campanello» E qui la China, madre d'otto figli già sbozzolati, accoccò il filo al fuso, mise il fuso sul legoro, le tiglie si strusciò dalla bocca arida; e disse: « Io l'ho vedute, come fanno ai figli le madri, ossia le balie. Hanno figlioli quasi fasciati dentro un bozzolino. Lo sa la mamma che lì dentro è chiuso il lor begetto, ch'è cicchin cicchino, e dorme, e gli fa freddo e gli fa caldo. Lasciano all'altre le faccende, ed esse altro non fanno che portare il loro furigello ora all'ombra ed ora all'aspro, in collo, come noi; ch'è da vedere come via via lo tengono pulito come lo fanno dolco con lo sputo; e infine con la bocca aprono il guscio, come a dire, le fasce; e il figliolino n'esce, che va da sè, ma gronchio gronchio» Così parlando, essi bevean l'arzillo vino, dell'anno. E mille madri in fuga correan pei muschi della scorza arsita, coi figli, e c'era d'ogni intorno il fuoco; e il fuoco le sorbiva con un breve crepito, nè quel crepito giungeva al nostro udito, più che l'erme vette d'Appennino e le aguzze alpi Apuane, assise in cerchio, con l'aeree grotte intronate dal cupo urlo del vento, odano lo stridor d'un focherello ch'arde laggiù laggiù forse un villaggio con le sue selve; un punto, un punto rosso or sì or no. Nè pur vedea la gente là, che moriva, i mostri dalla ferrea voce e le gigantesse filatrici: i mostri che reggean concavi laghi di sangue ardente, mentre le compagne con moto eterno, tra un fischiar di nembi, mordean le bigie nuvole del cielo. Ma non vedeva il popolo morente gli dei seduti intorno alla sua morte, fatti di lunga oscurità: vedeva, forse in cima all'immensa ombra del nulla, su, su, su, donde rimbombava il tuono della lor voce, nelle occhiute fronti, da un'aurora notturna illuminate, guizzare i lampi e scintillar le stelle. E lo Zi Meo parlò. Disse: «Formiche! L'altr'anno seminai l'erba lupina. Venne la pioggia: non ne nacque un filo. Vennero i soli: il campo parea sodo. Un giorno che v'andai, vidi sul ciglio del poggio un mucchiarello alto di chicchi. Guardai per tutto. Ad ogni poco c'era un mucchiarello. Erano i semi, i semi d'erba lupina. Avean rumato poco ? Non un chicco, ch'è un chicco, era rimasto! Aveano fatto, le formiche, appietto! E ben sì che v'avevo anco passato l'erpice a molti denti, e su la staggia, per tutte bene pianeggiar le porche, mi facev'ir di qua di là, come uno fa, nel passaggio, in mezzo all'Oceàno» CANTO SECONDO Ed il ciocco arse, e fu bevuto il vino arzillo, tutto. Io salutai la veglia cupo ronzante, e me ne andai: non solo: m'accompagnava lo Zi Meo salcigno. Era novembre. Già dormiva ognuno, sopra le nuove spoglie di granturco. Non c'era un lume. Ma brillava il cielo d'un infinito riscintillamento. E la Terra fuggiva in una corsa vertiginosa per la molle strada, e rotolava tutta in sè rattratta per le puntura dell'eterno assillo. E rotolando per fuggir lo strale d'acuto fuoco che le ruma in cuore, ella esalava per lo spazio freddo ansimando il suo grave alito azzurro. Così, nel denso fiato della corsa ella vedeva l'iridi degli astri sguazzare, e nella cava ombra del Cosmo ella vedeva brividi da squamme verdi di draghi, e svincoli da fruste rosse d'aurighi, e lampi dalle freccie de' sagittari, e sprazzi dalle gemme delle corone, e guizzi dalle corde delle auree lire; e gli occhi dei leoni vigili e i sonnolenti occhi dell'orse. Noi scambiavamo rade le ginocchia sotto le stelle. Ad ogni nostro passo trenta miglia la terra era trascorsa, coi duri monti e le maree sonore. E seco noi riconduceva al Sole, e intorno al Sole essa vedea rotare gli altri prigioni, come lei, nel cielo, di quella fiamma, che con sè li mena. Come le sfingi, fosche atropi ossute, l'acri zanzare e l'esili tignuole, e qualche spolverio di moscerini, girano intorno una lanterna accesa: una lanterna pendula che oscilla nella mano d'un bimbo: egli perduta la monetina in una landa immensa, la cerca invano per la via che fece e rifà ora singhiozzando al buio: e nessun ode e vede lui, ch'è ombra, ma vede e svede un lume che cammina, nè par che vada, e sempre con lui vanno, gravi ronzando intorno a lui, le sfingi: lontan lontano son per tutto il cielo altri lumi che stanno, ombre che vanno, che per meglio vedere alzano in vano verso le solitarie Nebulose l'ardor di Mira e il folgorìo di Vega. Così pensavo; e non trovai me stesso più, nè l'alta marmorea Pietrapana, sopra un grano di polvere dell'ala della falena che ronzava al lume: dell'ala che in quel punto era nell'ombra; della falena che coi duri monti e col sonoro risciacquar dei mari mille miglia in quel punto era trascorsa. Ed incrociò con la sua via la strada d'un mondo infranto, e nella strada ardeva, come brillante nuvola di fuoco, la polvere del suo lungo passaggio. Ma niuno sa donde venisse, e quanto lontane plaghe già battesse il carro che senza più l'auriga ora sfavilla passando rotto per le vie del Sole. Nè sa che cosa carreggiasse intorno ad uno sconosciuto astro di vita, allora forse di su lui cantando i viatori per la via tranquilla; quando urtò, forviò, si spezzò, corse in fumo e fiamme per gli eterei borri, precipitando contro il nostro Sole, versando il suo tesoro oltresolare: stelle; che accese in un attimo e spente, rigano il cielo d'un pensier di luce. Là, dove i mondi sembrano con lenti passi, come concorde immensa mandra, pascere il fior dell'etere pian piano, beati della eternità serena; pieno è di crolli, e per le vie, battute da stelle in fuga, come rossa nube fuma la densa polvere del cielo; e una mischia incessante arde tra il fumo delle rovine, come se Titani aeriformi, agli angoli del Cosmo, l'un l'altro ardendo di ferir, lo spazio fendessero con grandi astri divelti. Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi, fatti più densi dal cader dei mondi, stringan le vene e succhino d'intorno e in sè serrino ogni atomo di vita quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto gelido oscuro tacito perenne; e il Tutto si confonderà nel Nulla, come il bronzo nel cavo della forma; e più la morte non sarà. Ma il vento freddo che sibilando odo staccare le foglie secche, non sarà più forse, quando si spiccherà l'ultima foglia ? E nel silenzio tutto avrà riposo dalle sue morti; e ciò sarà la morte. Io riguardava il placido universo e il breve incendio che v'ardea da un canto. Tempo sarà (ma è! poi ch' il veloce immobilmente fiume della vita è nella fonte, sempre, e nella foce), tempo, che persuasa da due dita leggiere, mi si chiuda la pupilla: nè però sia la visïon finita. Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla anima, vede, fin che sa che intorno a lui c'è qualche aperto occhio che brilla! Così, quand'io, nel nostro breve giorno, guardo, e poi, quasi in ciò che guardo, un velo fosse, un'ombra, col lento occhio ritorno a un guizzo d'ala, a un tremolìo di stelo: quando a mirar torniamo anche una volta ciò ch'arde in cuore, ciò che brilla in cielo; noi s'è la buona umanità che ascolta l'esile strido, il subito richiamo, il dubbio della umanità sepolta: e le risponde:—Io vivo, sì, viviamo— Tempo sarà che tu, Terra, percossa dall'urto d'una vagabonda mole, divampi come una meteora rossa; e in te scompaia, in te mutata in Sole, morte con vita, come arde e scompare la carta scritta con le sue parole. Ma forse allora ondeggerà nel Mare del nettare l'azzurra acqua, e la vita verzicherà su l'Appennin lunare. La vecchia tomba rivivrà, fiorita di ninfèe grandi, e più di noi sereno vedrà la luce il primo Selenita. Poi, la placida notte, quando il Seno dell'iridi ed il Lago alto e selvaggio dei sogni trema sotto il Sol terreno; errerà forse, in quell'eremitaggio del Cosmo, alcuno in cerca del mistero; e nello spettro ammirerà d'un raggio la traccia ignita dell'uman pensiero. O sarà tempo, che di là, da quella profondità dell'infinito abisso, dove niuno mai vide orma di stella; un atomo d'un altro atomo scisso in mille nulla, a mezzo il dì, da un canto guardi la Terra come un occhio fisso; e venga, e sembri come un elïanto, la notte, e il giorno, come luna piena; e la Terra alzi il cupo ultimo pianto; e sotto il nuovo Sole che balena nella notte non più notte, risplenda la Terra, come una deserta arena; e Sole avanzi contro Sole, e prenda già mezzo il cielo, e come un cielo immenso su noi discenda, e tutto in lui discenda Io guardo là dove biancheggia un denso sciame di mondi, quanti atomi a volo sono in un raggio: alla Galassia: e penso: O Sole, eterno tu non sei—nè solo!— Anima nostra! fanciulletto mesto! nostro buono malato fanciulletto, che non t'addormi, s'altri non è desto! felice, se vicina al bianco letto s'indugia la tua madre che conduce la tua manina dalla fronte al petto; contento almeno, se per te traluce l'uscio da canto, e tu senti il respiro uguale della madre tua che cuce; il respiro o il sospiro; anche il sospiro; o almeno che tu oda uno in faccende per casa, o almeno per le strade a giro; o veda almeno un lume che s'accende da lungi, e senta un suono di campane che lento ascende e che dal cielo pende; almeno un lume, e l'uggiolìo d'un cane: un fioco lume, un debole uggiolìo: un lumicino . . . Sirio: occhio del Cane che veglia sopra il limitar di Dio! Ma se al fine dei tempi entra il silenzio ? se tutto nel silenzio entra? la stella della rugiada e l'astro dell'assenzio? Atair, Algol? se, dopo la procella dell'Universo, lenta cade e i Soli la neve della Eternità cancella? che poseranno senza mai più voli nè mai più urti nè mai più faville, fermi per sempre ed in eterno soli! Una cripta di morti astri, di mille fossili mondi, ove non più risuoni nè un appartato gocciolìo di stille; non fumi più di tanti milioni d'esseri, un fiato; non rimanga un moto, delle infinite costellazioni! Un sepolcreto in cui da sè remoto dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto sonno di ciò che fu!—Questa è la morte!— Questa, la morte! questa sol, la tomba se già l'ignoto Spirito non piova con un gran tuono, con una gran romba; e forse le macerie anco sommuova, e batta a Vega Aldebaran che forse dian, le due selci, la scintilla nuova; e prenda in mano, e getti alle lor corse, sotto una nuova lampada polare, altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand'Orse; e li getti a cozzare, a naufragare, a seminare dei rottami sparsi del lor naufragio il loro etereo mare; e li getti a impietrarsi e consumarsi, fermi i lunghi millenni de' millenni nell'impietrarsi, ed in un attimo arsi; all'infinito lor volo li impenni, anzi no, li abbandoni all'infinita loro caduta: a rimorir perenni: alla vita alla vita, anzi: alla vita! Io mi rivolgo al segno del Leone dond'arde il fuoco in che si muta un astro, alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone, indifferenti al tacito disastro; ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi Soli, lucenti appena come crune, ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi dalla misterïosa ansia comune; a voi, a voi, girovaghe Comete che sapete le vie del ciel profondo; o Nebulose oscure, a voi, che siete granai del cielo, ogni cui grano è un mondo; di là di voi, di là del firmamento, di là del più lontano ultimo Sole; io grido il lungo fievole lamento d'un fanciulletto che non può, non vuole dormire! di questa anima fanciulla che non ci vuole, non ci sa morire! che chiuder gli occhi, e non veder più nulla, vuole sotto il chiaror dell'avvenire! morire, sì; ma che si viva ancora intorno al suo gran sonno, al suo profondo oblìo; per sempre, ov'ella visseun'ora; nella sua casa, nel suo dolce mondo: anche, se questa Terra arsa, distrutto questo Sole, dall'ultimo sfacelo un astro nuovo emerga, uno, tra tutto il polverìo del nostro vecchio cielo. Così pensavo; e lo Zi Meo guardando ciò ch'io guardava, mormorò tranquillo: «Stellato fisso: domattina piove». Era andato alle porche il suo pensiero. Bene egli aveva sementato il grano nella polvere, all'aspro; e san Martino avea tenuta per più dì la pioggia per non scoprire e portar via la seme. Ma era già durata assai la state di san Martino, e facea bono l'acqua. E lo Zi Meo, sicuro di svegliarsi domani al rombo d'una grande acquata, era contento, e andava a riposare, parlando di Chioccetta e di Mercanti, sopra le nuove spoglie di granturco, la cara vita cui nutrisce il pane.
Non sono presenti notizie riguardanti questa opera.
|