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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

GIORNALISMO & SOCIETĄ. Intervista a VITTORIO ZUCCONI:

di Rivista Orizzonti


di Giuseppe Aletti



Nella e-mail dove ti comunicavo la volontà di intervistarti, avevo fatto presente che dopo sette anni di attività la rivista Orizzonti, attraverso il sito Internet, si era occupata di calcio mandando una newsletter agli iscritti della nostra comunità, ricevendo una risposta inaspettata con decine e decine di lettere; nella tua e-mail di risposta c’era scritto: “Il linguaggio del calcio è un linguaggio trasversale, e qualcuno in Italia lo aveva capito….”; ne vogliamo parlare?

"Il riferimento a Silvio Berlusconi è evidente, ma senza una volontà di fare polemica, ma solo come una constatazione. In una società come la nostra dove le differenze tra chi sta da una parte e chi dall’altra sono inesistenti, dove tutti sembrano essere all’interno di un enorme frullatore, parlare di calcio significa avere a disposizione un linguaggio totalizzante.
Ho provato a sperimentare questa trasversalità con la mia rubrica -Il calcio in testa- sul sito repubblica.it, e facendo riferimento ad eventi calcistici riesco a parlare dei Palestinesi, del mercato globale, e noto che la partecipazione dei lettori è molto forte, mi scrivono le persone più diverse, dal professore universitario, allo studente, alla casalinga.
A dimostrazione che il calcio è un linguaggio universale.
Scherzando con il mio amico Tullio De Mauro, avevamo pensato di proporre un vocabolario di Bruno Pizzul; c’è la possibilità di utilizzare quelle che io chiamo parole di legno, o di pietra, che prediligono un linguaggio che è a disposizione di tutti e che tutti comprendono, ma che sottendono anche un conformismo entro il quale tutti si riconoscono. Una volta, per le persone della mia generazione, questo linguaggio di pietra riguardava il sesso, il bordello, oggi invece investe il calcio.
La commistione tra linguaggio calcistico e quello politico è stata utilizzata da Berlusconi, che è entrato nella sfera politico-sociale con il Milan; ha usato Paolo Maldini e Franco Baresi come testimonial della campagna elettorale di Forza Italia, altro evidente riferimento calcistico, chiamando azzurri la sua squadra elettorale".

Domanda: In Italia si parla sempre più spesso dell’indipendenza dei giornalisti, del ruolo dell’informazione; vivi in America, si può fare un paragone tra quella che viene considerata la più grande democrazia del mondo e l’Italia?

Risposta: Vizi strutturali diventano massicciamente evidenti nell’attuale regime televisivo, ma la lottizzazione è sempre esistita, viene utilizzata in quanto già preesistente. I posti sono sempre stati suddivisi tra i partiti politici, se si dovevano dare 5 posti, 4 se li spartivano i partiti, e l’ultimo andava ad uno bravo. In Italia l’informazione, la cultura, è sempre arrivata dall’alto, è sempre appartenuta ad una elite, dunque è sempre stata controllata politicamente. In America tutto questo è impensabile, la cultura proviene anche dal basso. Ma è un dato storicamente determinato, la storia dei due paesi è diversa e anche la diffusione della cultura va ad inserirsi in una tradizione che ha regole differenti.
Mi ricordo che negli anni di piombo, appena arrivato in Italia, rimasi colpito dal fatto che chiunque mi chiedeva…- e qui incredibilmente, contemporaneamente diciamo: “da che parte stai?".
(fragorosa risata)
Anche se sono passati quasi trent’anni non è poi cambiato molto
La tendenza dei partiti ad avere degli sbandieratori non è venuta meno con gli anni. Basta guardarsi intorno. La scelta di un giornalista deve essere sempre quella di fare della informazione obiettiva, anche se questo, a volte, può non essere appagante. Però negli anni ti dà credibilità presso i lettori, perché si fidano. Il problema di oggi è la tendenza ad appiattire il confronto, di qualunque cosa si discuta basta che uno dice: “ma tu sei di sinistra” e tutto prende una connotazione diversa, si svuota di contenuti. Come se solo il fatto di essere di sinistra o di destra comporti sempre la necessità di doversi difendere dall’altro.
Io dirigo Radio Capital ed ho detto da subito alla redazione che i politici vanno in radio solo se fanno notizia. Ad esempio se il Ministro Moratti fa una riforma se ne parla, perché è una notizia ma se dice che tutti i vecchi governi hanno rovinato l’istruzione in Italia, allora è solo una opinione. Bisogna evitare il costume italiano che prevede prima l’opinione sulla notizia, e forse, successivamente, la notizia stessa.

Domanda: Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, in Italia come in tutto il resto del mondo, c’è stata una attenzione totale verso quello che è accaduto, oggi i giornali non ne parlano quasi più, ma qual è la situazione reale, e soprattutto l’opinione americana cosa pretende?

Risposta: Gli americani vivono una psicologia di guerra, del tipo “attento, il nemico ci guarda”; lo stesso governo americano tiene molto alta la tensione, visto che dà i suoi benefici elettorali: nella storia d’America nessun presidente ha avuto un consenso così alto, pari al 90%, per un periodo così lungo. Il padre di Bush aveva avuto un consenso altissimo durante la guerra del golfo, ma dopo soli sei mesi la sua popolarità era scesa sotto il 50%. Questa situazione sta favorendo leggi liberticide, che legittimano le discriminazioni razziali, o di religione, e nessun giornale si lamenta perché, anche se ideologicamente sono cose che nessuno approva, c’è il rischio che se domani mettono una bomba a Los Angeles e muoiono diecimila persone chi si prende la responsabilità ? C’è un condizionamento molto forte, una pressione sui media che impedisce una informazione più libera.
Per quel che riguarda la politica viviamo nella fase della “doppia scarpa”.
Se uno la notte al piano di sopra va a dormire, si sente il tonfo dovuto al rumore della scarpa sul soffitto, e si aspetta da un momento all’altro di sentire anche il rumore della seconda scarpa. L’opinione che circola in america è quella che quando arriverà la seconda fase non sarà una scarpa ma addirittura uno stivalone, qui l’attacco lo danno per scontato, con il rischio di allargare il conflitto in tutta la regione araba, anche se ho dei dubbi che questo allargamento avvenga.

Domanda: Dopo l’11 settembre la visione del mercato globale- che mi piace descrivere come un incrocio dove non si sono più semafori, nessun controllo nella circolazione, maggiore velocità ma anche maggiori rischi- in America ha avuto dei cambiamenti, anche alcuni massimi teorici della macroeconomia hanno avanzato obiezioni, secondo te cosa è realmente cambiato?

Risposta:La globalizzazione sono gli Stati Uniti, sono loro che controllano il mercato globale. Dopo l’11 settembre le cose stanno cambiando; il simbolo del Mc Donald’s è diventato il più popolare del mondo, superando anche quello della Coca Cola, e questo va ad urtare con la rabbia dei fondamentalisti che considerano empi quei simboli. Bisogna rendersi conto di cosa significhi per loro questo bombardamento di simboli che loro riconoscono come ostili, che li minacciano nella loro concezione dell’esistenza.
Questa è una globalizzazione parcellizzata, cosa pensano ad esempio gli egiziani a cui l’America dice “io ti do i miei prodotti, ma tu non mi madare le tue persone”.
Il mercato se deve essere globale, nella concezione di un villaggio globale, tutto deve circolare liberamente, persone e merci, e sono proprio gli americani che non vogliono questo; il mercato globale prevede una perdita di controllo e di conseguenza di potere.
Ci sono delle massicce anomalie nella situazione attuale, l’america considera il mercato globale solo per la possibilità di poter controllare l’economia mondiale, infatti già prima dell’11 settembre l’America aveva varato norme a protezione del suo mercato come quelle sull’acciaio, cosa confermata dal trattato di Kioto, che gli americani non hanno voluto firmare perché c’era scritto la cosa più evidente: che se il mercato è davvero globale non deve avere nessun controllo.
Di fronte a vantaggi comuni, responsabilità comuni.
Certo l’11 settembre ha dato una dimensione oscura al mercato globale, ma la crisi della globalizzazione era già in atto, e gli eventi di cui ho appena parlato lo testimoniano.
Quello che è avvenuto non è accaduto per caso, era insito in una situazione così sbilanciata, se lo portava dietro fin dalla sua genesi.

Domanda: Si nota intorno alla tua persona un grande interesse, specialmente tra i giovani giornalisti e giovani lettori che apprezzano l’utilizzo di un linguaggio asimmetrico se rapportato al giornalismo italiano.

Risposta: Mi capita di parlare spesso di questo. E’ una cosa che mi chiedono in molti. Ritornando a quello che dicevo prima, l’utilizzo di un linguaggio di legno, codificato, evidenzia una mancanza di libertà; è una forma di conformismo. Nel momento in cui scrivo scelgo sempre la libertà, che si manifesta nell’utilizzo di un linguaggio diverso, perché esprime quello che io sono e non quello che gli altri vogliono che io dica.
E la gente questo lo nota, c’è uno sforzo, un lavoro ulteriore sulla parola. Bisogna considerare che dietro ogni forma di repressione c’è la pigrizia, è sempre più faticoso andare contro l’andamento generale, perché questo sottende un impegno maggiore, di trovare delle forme di comunicazione che fanno capo ad un tuo stile, e non a quello che dicono tutti.
Sono stato anche in Russia, negli ultimi periodi prima della caduta del regime, i dissidenti che denunciavano il regime utilizzavano volutamente un linguaggio totalmente opposto a quello che utilizzavano tutti, ed i vecchi oligarchi cercavano di tranquillizzarli dicendogli che non erano stalinisti, che non li avrebbero perseguiti ma li invitavano a parlare il linguaggio che parlano tutti.
Il linguaggio non inganna.

Domanda: Iniziare uno studio sulla parola, che ricerca uno stile personale, è tipico della letteratura.

Risposta: E’ una forma di letteratura più bassa, i giornalisti non sona mai dei bravi scrittori.

Domanda: Intorno ad una rivista letteraria ruotano sempre nuovi artisti, scrittori e giornalisti. Che consiglio ti senti di dare per quelli che si apprestano ad iniziare questo lavoro?

Risposta: Bisogna evitare l’insincerità, molti giovani giornalisti pensano che bisogna solo scrivere bene, senza preoccuparsi di cosa scrivono, si nascondono dietro un facile manierismo che nasconde un nuovo conformismo. Bisogna sempre utilizzare una lingua che sia corrispondente all’argomento trattato. Devi porti come obiettivo quello di far arrivare al lettore quello che vuoi dire.
Se proprio devo offrire un consiglio a chi scrive è questo: la prima parola che ti viene in mente è sempre quella sbagliata. Viviamo in questa società e da questa siamo influenzati, dunque la prima cosa che ti viene in mente è quella più scontata, tipo “Allarme Rosso”, “Città Blindata”, i telegiornali ne sono un esempio eclatante, dove viene utilizzato un linguaggio codificato, che non invita alla riflessione.
La più grande soddisfazione professionale è stata la pubblicazione di un libro “Stranieri come noi” pubblicato da Einaudi, dove ci sono una serie di raccontini che parlano metaforicamente di cose sociali, alcuni bambini mi scrivono dicendomi: ”leggere è bello”.
Vorrei concludere questa nostra conversazione con una domanda: la gente non ci legge perché non siamo abbastanza bravi o perché non ci vogliamo far leggere?




n.d.r. Questa intervista è stata realizzata telefonicamente nel giugno del 2002 (Vittorio Zucconi si trovava in Giappone come inviato ai mondiali nippo-coreani) a distanza di quasi 4 anni conserva una attualità sorprendente, ma, soprattutto, dimostra una ampia lungimiranza.

Articolo già apparso sulla rivista Orizzonti
www.rivistaorizzonti.net



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